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Autore: Erin0904    20/10/2018    1 recensioni
Il vuoto è quando ciò che credevi esistesse in realtà non c’è mai stato: è il freddo calcolo dietro a promesse non mantenute, sono le parole accartocciate e stridenti a cui non seguono i fatti che sarebbero stati la loro base, se soltanto fossero state sincere.
Il vuoto è precisamente questo.
Ti ho giurato il mio amore, ti ho promesso che avrei meritato la tua fiducia, e ti giuro, io te lo giuro Betty, fino all’ultimo ho creduto che lo avrei fatto accadere.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Jughead la guardava, gli occhi ricolmi di lacrime, assistendo impotente al consumarsi in cenere dell’unica cosa bella della propria vita: era uno stillicidio infernale, un sanguinamento interno goccia a goccia cui non poteva opporsi in alcun modo.
“Ti è piaciuto baciarla, vero? Sentire il sapore della sua lingua e il suo corpo attaccato al tuo. Mi fai schifo, Jughead”. Le iridi chiare di Betty erano come vitree, vuote; Jug si avvicinò per sfiorarle una mano ma lei la ritrasse ed indietreggiò di un passo, sicura.
“Non toccarmi” sibilò, il volto di pietra. Il suo gesto sdegnato lo ferì più di ogni sua parola. 
La testa di Jug prese a girare quando i ricordi ovattati della notte con Toni cominciarono a rincorrersi l’un con l’altro, sempre più veloci, sempre più concitati.

Le mani sotto la sua maglietta e poi attorno ai suoi seni sodi, sfiorarla con le dita, eccitarsi solo e soltanto lasciando spazio nella sua mente al corpo nudo e bellissimo di Betty. “Ti ho sempre voluto, Jughead” gli aveva sussurrato Toni nell’orecchio mentre con la mano sinistra gli sbottonava i pantaloni, avida. Non aveva riposto, nulla aveva sentito uscire dalle sue labbra, mentre ciò che gridava a gran voce all’altezza del suo sterno era solo il nome della giovane donna che ora gli stava di fronte con lo sguardo carico d’odio.
 
“Betty!” riuscì a rompere il silenzio “Ho sempre combattuto per noi e che ho lottato fino a lacerarmi e a lasciare che rimanesse, come sottofondo costante della mia sofferenza, soltanto un vacuo vuoto a perdere. Tu mi hai distrutto, Betty, mi hai annientato pezzo per pezzo e la mia vita è finita la sera in cui mi hai lasciato”. Il cuore gli batteva forte in petto mentre le sue mani erano incollate alle tasche, irrigidito dal terrore nel vedere il volto di Betty sciogliersi come cera nel pianto: cercava di non toccarla, di non annusarla, di non percepire la sua fisica presenza ancora insinuarsi nell’incavo del suo collo.
Improvvisamente, sentì le gambe sciogliersi e il suo corpo affondare lentamente a ricordi dolorosi a cui non poteva, non voleva abbandonarsi. 
“Sai perché ho dovuto farlo, Jughead. Ma tu non hai perso tempo, in nemmeno una giornata eri già corso da lei. Il sesso con lei… un elisir magico per spazzarmi via come pulviscolo insignificante, questo sono per te, io non sono niente”.
Jug poteva quasi percepirla mentre sgusciava via dagli angoli in cui si era incuneata a fatica con il tempo e tornava fluida, lontana da lui. Allungò una mano, strinse solo aria.
“La persona vibrante che eri e che amavo l’ho seppellita da tempo, mentre la tua proiezione ancora resisteva, accanto a me. Io ci ho provato a perdonarti, Jug, ci sono notti in cui il mio respiro si fa più breve e più incerto, ed è allora che il tuo odore entra nelle mie narici, con una nota sbiadita e lignea, inesorabilmente passata. Per questo io ho bisogno che tu sappia che devo andare. Io non posso, non riesco più a restare. Io non voglio più restare.”
Jughead non seppe cosa dire, si limitò a pensare che vi sono silenzi destinati a durare e poi a morire, si chiese se fosse quella, la fine, se guardarla negli occhi più a lungo possibile gli avrebbe permesso di trattenere almeno un lembo stropicciato della sua persona.
Betty incassò come un pugile fiero il significato di quel silenzio, lentamente si girò ed uscì dalla porta, lasciando Jug a chiedersi cosa fosse quella strana sensazione di vuoto che cominciava ad allargarsi in lui e a divorare ogni suo sentimento, cosa fosse questa anestesia improvvisa, questa assenza di dolore, di emozioni, questo non sentire più niente.
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Un anno dopo

“Mia Betty,

mi muovo molto, cerco di tenere la testa affollata, di non lasciare spazio ai pensieri autodistruttivi, di guardare il cielo: ultimamente sono giornate piene di luce, si vedono poche nuvole in lontananza che si confondono con i profili delle case e con i fari delle automobili poco più in basso. Non ho perso la mia vecchia abitudine di scriverti lettere che non ti spedirò, di quelle in cui dentro ci sono tante parole di fiducia e voglia di cambiamento, di trovare la propria strada, di accettare e realizzare l’idea che siamo gli unici a poterci aggiustare, a decidere chi e come vogliamo essere: “l’autodeterminazione e l’autocontrollo prima di tutto”, una regola che in fondo non ho mai rispettato davvero.

Mia dolce Betty, vorrei facessimo un gioco: chiudi gli occhi mentre tieni questo pezzo di carta tra le mani – come se… - e immaginami mentre ti racconto che dormo molto poco, che mi sveglio quando il cielo è ancora scuro e leggo moltissimi libri, che mi fanno male i muscoli delle gambe quando cammino a un passo che non è il mio, e che inizialmente non sapevo percepirti, non prima di aver poggiato una mano sul tuo petto e di sprofondare in te.
No, non aprire gli occhi, non ancora, inspira lentamente e immagina noi che camminiamo nonostante l’aria contro il viso, la ghiaia sull’asfalto e nei grovigli della testa; pensa a tutte le volte in cui ho guidato con te al mio fianco, alle macchine lente che ingombravano la carreggiata e io e te comunque vicini, come sempre troppo emozionati per non toccarci le mani, pensa ai sorrisi dopo i nostri abbracci fortissimi e l’odore acre del mio divano al risveglio, al mattino presto.
Mi piaceva la pioggia che ci costringeva a camminare stretti l’uno all’altra, che ci spettinava i capelli e infreddoliva le mani, mi piacevano le atmosfere violacee che vedevo dal finestrino della macchina e il calore del sole sulla faccia, tutte cose che so che non potranno più piacermi se non sarai con me a condividerle, né finché non ci sarai tu, di nuovo, con me a condividerle.

Piango tra le tue braccia, rido tra le tue braccia – ti prego, smetti di coniugare mentalmente tutti questi verbi al passato, per un istante almeno lascia che un loro respiro inali il presente cristallino che non conosceremo - per me, la gioia più pura sono io che ti accompagno a casa, io che entro con te e ci chiudo la porta alle spalle, io che ti guardo negli occhi e scopro che non c’era nulla che non andava, che gli scenari della mia testa erano più aggrovigliati, più tristi e più brutti della realtà dei fatti, io che provo a focalizzarmi sugli aspetti positivi perché la poesia sta negli occhi di chi guarda, sull’estate imminente, sui baci sulla fronte mentre trattengo le lacrime, ritrovare le persone che amo, ritrovarle bene.

Un concetto che feci mio quando in classe ci spiegarono Adorno fu questo: “la negazione è piena”. 
Ho imparato a mie spese che negare qualcosa non la scioglie, non la elimina, piuttosto la comprende: per negare qualcosa bisogna opporvisi, imparare da lei, assimilare ogni sua forza e aggiungere un sovrappiù, che è il nostro “no”.
Allo stesso modo, il vuoto non è una fine, una morte, un allontanamento, perché ciascuno di essi implica un punto di partenza da cui deviare.
Il vuoto è quando ciò che credevi esistesse in realtà non c’è mai stato: è il freddo calcolo dietro a promesse non mantenute, sono le parole accartocciate e stridenti a cui non seguono i fatti che sarebbero stati la loro base, se soltanto fossero state sincere.
Il vuoto è precisamente questo.
Ti ho giurato il mio amore, ti ho promesso che avrei meritato la tua fiducia, e ti giuro, io te lo giuro Betty, fino all’ultimo ho creduto che lo avrei fatto accadere.

Chissà cosa diresti se scoprissi che mai come adesso parlo profondamente con me stesso, e nei miei dialoghi interiori mi dico cose che non vorrei sentirmi dire, che non ho il coraggio di sentirmi dire, ma di cui ho bisogno, per allontanare il dolore atroce dei silenzi, il vuoto degli addii senza sguardi.
Nei miei dialoghi interiori parlo con te e mi accorgo che quasi non ricordo la tua voce nel farmi promesse, nel lenire le mie insicurezze, la tua voce che mi scalda con cose dolci e belle… e penso che va bene così, perché nei dialoghi interiori, alla fine, tu non ci sei, parlo con me stesso, con l’io che aspettava, lottava e non si rassegnava mai, con l’io che non dimentica e non riesce più a dormire.
E in questi dialoghi ti dico addio mille volte e mille altre ancora, a tutto quello che non abbiamo più, ogni volta dico quello che avrei voluto dire e non ho potuto, quello che avrei potuto dire e non ho voluto, quello che mi succede e tu non saprai mai.

E va bene così, e chissà se proverò ancora un amore così grande. Rideresti se ti dico che continuo ogni giorno a sentirmi fuori luogo, l’emarginato? Sono sicuro mi guarderesti con quegli occhi grandi e un po’ socchiusi e mi diresti “Oh, Jugghy…” prima di rubarmi un bacio.
Ti saluto mentalmente ogni notte, tu mi sfidi e mi chiedi “perché mi guardi così?” e io ti sussurro che è “per quando non potrò più vederti”.

Ma adesso è tardi, Betty, avrai gli occhi rossi e stanchi a furia di leggere, devo correre a preparare lo zaino per venire da te; sai, a volte mi perdo a immaginare come sarebbe se tu non ci fossi, e poi finisco per ridere di me e dei miei pensieri stupidi, perché è proprio stupido, no? Alla fine, ciò che mi dà la forza di alzarmi ogni mattina è decidere di non voler immaginare come sarebbe se tu, se proprio tu, per davvero non ci fossi più, e mentre alzo lo sguardo al cielo so che invece vorrei rivederti senza riconoscerti, scoprire che non sei un gesto, che non lo sei più, disabituarmi ai tuoi contorni, ogni volta, sempre.
tuo, Jug."
   
 
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