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Autore: Martina Murdock    24/10/2018    1 recensioni
Poi c’era stato il messaggio. Dormiva quando gli era arrivato, ma ignorarlo sarebbe stato impossibile, dato che il foglio appallottolato e ancora caldo di runa del fuoco gli era caduto in testa. Il Presidente, non gradendo l’interruzione (sì, la testa di Magnus era leggermente sovraffollata quella notte), per lo spavento gli aveva anche graffiato una guancia. All’inizio era stato infastidito. Era a letto da neanche un’ora, aveva lavorato per metà della notte e il sangue gli stava macchiando il cuscino. Niente di tutto questo poteva renderlo felice.
Quando aveva letto quel che c’era scritto sul foglietto, però, si era riscosso all’istante. Erano troppe informazioni, troppe per un uomo che si era appena svegliato.
Valentine aveva invaso l’Istituto. Un demone superiore aveva avvelenato Alec. Non riuscivano a curarlo, e stava morendo.
Una mia versione della scena, presente nella graphic novel ma non nella serie originale, in cui Alec si sveglia dopo essere stato salvato da Magnus e i due hanno finalmente l'occasione di parlare di nuovo dopo l'incontro alla festa dello stregone.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Il nome dell’altro
 
 
 
A Magnus Bane, Sommo Stregone di Brooklyn ed esemplare di rara bellezza, non piaceva molto aspettare.  O meglio, a volte gli piaceva. Aveva molta pazienza a casa sua, quando i demoni si mostravano reticenti a parlare o gli toccava sopportare il ritardo di qualche cliente. Lì aveva un mucchio di cose da fare, e anche un gatto (il Presidente Miao era un’ottima compagnia quando non sapevi dove sbattere la testa, felice com’era di ricevere qualche grattino in più).
All’Istituto un gatto c’era, ma non era la stessa cosa. Church doveva ricordarsi benissimo dei loro trascorsi burrascosi, perché non si era sognato neanche lontanamente di appallottolarsi sulle sue gambe come Magnus aveva cercato di convincerlo a fare. Da ore se ne stava acciambellato e immobile su un ripiano, facendo finta di dormire e lanciandogli un’occhiataccia sospettosa di tanto in tanto.
“Se ti sto così antipatico, perché non te ne vai?”, gli chiese lo stregone, tanto per fare un po’ di conversazione. La bestia non rispose (anche se forse sarebbe stato strano se l’avesse fatto), ma aprì un occhio. Aveva un’espressione molto truce, ma Magnus si reputò a distanza di sicurezza e decise di non badarci. “Ah, giusto, c’è la porta chiusa”, continuò. “Be’, allora suppongo che sarai il mio compagno di prigionia per stanotte. Non prendertela a male, bello, ti potevano capitare coinquilini peggiori. Prendi quel Jace, per esempio: ti avrebbe sfinito a forza di stupidaggini sul suo luminoso sguardo dorato. O sul suo fisico scultoreo. Avresti vomitato palle di pelo, te lo dico io.”
Il gatto richiuse l’occhio. Non sembrava aver voglia di parlare, né di Jace né di nient’altro.
Magnus lo capiva. Nemmeno lui aveva troppa voglia di parlare di Jace, perché farlo avrebbe significato ripensare a quella notte, a cos’era successo nell’Istituto, al motivo per cui la porta era sprangata e perché lui era lì. Avrebbe significato rendersi conto che non sapeva neanche se Jace Wayland fosse vivo o morto, e con lui Clary Fairchild e il Mondano, Sterling. Credeva che fossero sopravvissuti alla battaglia, dato che da un paio d’ore tutti i rumori si erano acquietati e nessuno aveva fatto irruzione in infermeria, ma non poteva esserne certo, e la cosa lo turbava.
Ma no, si disse, passandosi la mano tra i capelli spettinati e provando un istante di intenso lutto quando si rese conto che la cresta gli pendeva tutta su un lato, più cadente della Torre di Pisa. Va tutto bene. Deve andare tutto bene. Altrimenti perché Isabelle sarebbe ancora davanti alla porta?
Non sapeva molto del mondo esterno, ma di quello ne era certo. Isabelle Lightwood era rimasta costernata quando l’aveva chiusa fuori dall’infermeria, ma lì per lì aveva capito che era la cosa migliore. Lei doveva andare a combattere gli uomini di Valentine e la porta sbarrata avrebbe impedito a chiunque di disturbare Magnus mentre curava suo fratello. Ciò che invece non aveva capito per niente era perché lo stregone l’avesse tenuta fuori anche quando era tornata in corridoio e aveva bussato sul legno con la foga tipica degli Shadowhunters. Da lì dovevano essere passate almeno due ore, e tutt’ora la sentiva agitarsi nell’altra stanza, ma sapeva che, per quanto protestasse, non avrebbe cercato di entrare se lui le aveva espressamente ordinato di rimanere fuori. I metodi degli stregoni erano misteriosi e oscuri per la maggior parte dei Nephilim, che li guardavano con una specie di scettico timore, quindi di solito, se pretendeva qualcosa durante un incarico, tutti gli obbedivano senza troppe discussioni. E poi, era vita di suo fratello quella che Magnus aveva tra le mani.
Non avrebbe rischiato di metterla in pericolo.
Lo stregone fece scivolare di nuovo lo sguardo su Alexander Lightwood, e gli occhi stanchi si accesero subito di una nuova luce. In realtà, pensò mentre ripercorreva per l’ennesima volta con le dita dell’immaginazione il viso dagli zigomi affilati e i lineamenti delicati terribilmente attraenti, il ragazzo non era più in pericolo già da un po’. O almeno così credeva. Per esserne più sicuro, aveva deciso di rimanere finché non si fosse svegliato. Be’, per quello e per godersi un altro po’ tutta quella bellezza. Unire l’utile al dilettevole, lo chiamava qualcuno, e Magnus avrebbe baciato il genio che aveva inventato una frase del genere.
Da qualche ora Alexander Lightwood sembrava stare un po’ meglio: la febbre era scesa e il respiro era più regolare, anche se continuava ad agitarsi e mormorare nel sonno. Lo stregone lanciò un’occhiata ai capelli neri fradici di sudore, e non poté non ripensare alle condizioni in cui si trovava quando era arrivato all’Istituto.
Magnus conosceva lo Shadowhunter da anni, anche se definirli amici sarebbe stato un passo molto azzardato. L’aveva visto quando aveva solo qualche mese e lui era stato incaricato di tenere agli arresti domiciliare in casa sua i suoi genitori (esperienza agghiacciante che non aveva intenzione di rivangare), poi di nuovo dai dieci ai quattordici anni, quando di tanto in tanto lo veniva a chiamare con Jace per qualche missione e finiva sempre per chiedergli sempre la merenda. L’ultima volta, però, risaliva a moltissimo tempo prima. Non sapeva bene cosa avesse fatto in tutto quel tempo, se avesse già compiuto diciotto anni, se avesse una fidanzata… ma credeva di no. Anzi, da quanto aveva sentito sugli Shadowhunters di New York poteva dire di esserne abbastanza certo.
E menomale.
Ripensò ai suoi occhi azzurri, brillanti nelle luci stroboscopiche della festa, e alle guance pallide che si erano colorate di mille sfumature quando lui gli aveva fatto l’occhiolino. Quando gli aveva detto “chiamami”, poi, aveva iniziato a balbettare in modo assolutamente adorabile e, se Jace non l’avesse trascinato via, forse avrebbe continuato a farlo per dieci minuti buoni. Certo, aveva anche minacciato di arrestarlo, se ne avesse avuto motivo, ma Magnus non si era preoccupato. Una minaccia perde ogni valore se l’hai sentita fare anche da un bambino di dieci anni con la frangetta e gli occhioni azzurri.
Aveva sperato che lo richiamasse davvero, ad un certo punto. Da una parte, si era anche aspettato che l’avrebbe fatto. D’accordo, magari non sarebbe durata a lungo e avrebbe comunque voluto mantenere segreta la loro relazione coi suoi amichetti Shadowhunters, ma l’avrebbe richiamato e sarebbero usciti qualche volt,a e chissà, da cosa nasce cosa.
E invece niente. Silenzio stampa.
Magnus si era imposto di non pensarci troppo, ma in realtà la cosa gli era dispiaciuta.
Poi c’era stato il messaggio. Dormiva quando gli era arrivato, ma ignorarlo sarebbe stato impossibile, dato che il foglio appallottolato e ancora caldo di runa del fuoco gli era caduto in testa. Il Presidente, non gradendo l’interruzione (sì, la testa di Magnus era leggermente sovraffollata quella notte), per lo spavento gli aveva anche graffiato una guancia. All’inizio era stato infastidito. Era a letto da neanche un’ora, aveva lavorato per metà della notte e il sangue gli stava macchiando il cuscino. Niente di tutto questo poteva renderlo felice.
Quando aveva letto quel che c’era scritto sul foglietto, però, si era riscosso all’istante. Erano troppe informazioni, troppe per un uomo che si era appena svegliato.
Valentine aveva invaso l’Istituto. Un demone superiore aveva avvelenato Alec. Non riuscivano a curarlo, e stava morendo.
Si era vestito al volo e si era materializzato fuori dall’edificio, che per fortuna aveva la porta spalancata. Non avrebbe proprio saputo chi chiamare per farlo entrare, altrimenti. Quando era arrivato dal ragazzo e gli aveva dato un’occhiata, non era certo che ce l’avrebbe fatta. Era ancora cosciente, allora, ed emetteva gli sbuffi tipici dei Nephilim quando non volevano urlare di dolore. Sulla pelle bianca, il rosso del sangue spiccava in maniera drammatica, così come il nero dell’icore acido che gli stava bruciando la carne. La sorella doveva aver agito con una buona dose di prontezza di spirito, altrimenti l’avrebbe trovato morto, ma non era riuscita a fare abbastanza. Del resto non avrebbe potuto, senza la magia di uno stregone o le Rune dei Fratelli Silenti.
“Perché nessun Fratello è qui?”, aveva chiesto, chino sul corpo magro del ragazzo. “Avete mandato una richiesta d’aiuto?”
“Ovvio che sì”, aveva risposto la ragazza, irritata e angosciata insieme. “Ma non ha risposto nessuno!”
“Naturale”, aveva pensato lui, mentre per un istante gli era tornata alla mente una battaglia di molto tempo prima, in cui aveva combattuto con al fianco solo una decina di Nephilim perché nessun altro si era presentato all’appello. Era così che andavano le cose, con la razza degli angeli. Fin troppo presenti quando non li volevi, impossibili da trovare quando ne avevi bisogno.
Il ragazzo si mosse di colpo, riportandolo alla realtà. Preso alla sprovvista, Magnus lasciò cadere a terra il libro che stava sfogliando, e Church gli rivolse un lungo sguardo ammonitore.
“Buono, te”, gli intimò distrattamente lo stregone. “Che non facevi così lo sbruffone quando hai vomitato per tutta la traversata dell’Atlantico.” Era passato più di un secolo, ma non riusciva ancora a eliminare il fetido ricordo dalla mente.
Si avvicinò ad Alec e si sedette sulla sponda del letto, a solo qualche centimetro dal suo corpo. Gli occhi del giovane Nephilim si muovevano senza sosta sotto le lunghe ciglia, e di tanto in tanto uno scatto della spalla lo portava a sfregare le ferite contro il materasso, strappandogli un piccolo gemito. Quando non si lamentava, notò Magnus, mormorava qualcosa, ma era difficile distinguere delle parole in tutto quel borbottio.
“Ehi”, gli disse anche se non poteva sentirlo, quando rischiò di colpirsi il petto con la mano appoggiata sullo stomaco. “Sta’ fermo. Ti farai male, se non ti dai una calmata.” Gentilmente, gli spostò il braccio lungo il fianco, incontrando una resistenza sorprendente. Che corpi avevano, quei figli dell’Angelo? Nemmeno da addormentati stavano rilassati? Non c’era da stupirsi se per loro la frase “mi prendo una vacanza” suonava come una bestemmia.
“Va’ via”, borbottò il ragazzo per tutta risposta, le prime parole sensate che avesse pronunciato fino a quel momento. Certo, il fatto che avessero un senso non giustificava il loro essere tremendamente maleducate. Magnus aggrottò le sopracciglia e decise di passare al contrattacco.
“Ehi tu, per tua informazione potrei farti una lista con almeno cinquantatré cose migliori di stare qui a guardarti…”, cominciò, ma a quanto pareva l’ostilità non era per lui. Il giovane Lightwood stava ancora dormendo, inconsapevole, e sembrava avercela con qualcuno dentro al suo sogno.
“Via…”, continuava a mormorare, corrugando la fronte. “Allontanati… da lui…”
Magnus era vagamente affascinato. Se doveva aspettare, tanto valeva sentire qualcosa di più interessante di qualche mugugno. Appoggiato per bene sul comodino il libro che gli era caduto prima, si risistemò meglio al fianco del ragazzo, senza saper resistere all’impulso di scostargli le ciocche umide dagli occhi. Quegli occhi. Se lo ricordava bene come fossero da aperti, erano tra i più belli che avesse mai visto. Allungati come quelli di un gatto e azzurrissimi, ti schiacciavano all’angolo con un battito di ciglia nere simili a piume. L’uomo addestrava da alcuni anni un piccolo stregone con le ciglia che erano vere piume da corvo, e quelle di Alexander gli sembravano quasi uguali a quelle del ragazzino.
“Jace!”, esalò di colpo il giovane, sorprendendo Magnus che fece un salto indietro. “Jace, attento, Jace…” Pronunciò quel nome un’altra decina di volte, con un’intonazione sempre più strana che riempì lo stregone di intenso sospetto. Se all’inizio erano state allarmate, dopo qualche secondo le due sillabe si erano fatte dolci, arrotondate come piccoli globi di luce.
Luce dorata. Magnus fece una smorfia.
“Non sei molto carino”, gli fece notare, deciso ad esprimere il proprio punto di vista. “Considera che ti trovi davanti ad un uomo che hai rifiutato. Forse continuare a chiamare l’altro tizio della tua vita non è proprio la mossa ideale. Solo per dire, eh.”
“Jace, non andare.” Disse Alec, e Magnus sbuffò.
“Sei senza cuore, come tutti i Lightwood. La prossima volta ti lascio avvelenato.”
“No…”, continuò a mormorare il ragazzo, che evidentemente non aveva ancora finito di ferirlo. Chissà, forse per lui era un sogno divertente. “No, non possiamo… salvare il Mondano… e Clary… sta’ lontano… è… ti devo dire… una cosa, io… ti devo…”
Magnus non seppe mai cosa Alec doveva dire a Jace (e pensò che forse era meglio così), perché di colpo il ragazzo cominciò a tossire forte, agitandosi ancora più di prima.
“Tranquillo”, gli disse lo stregone, vagamente allarmato, appoggiandogli una mano sul petto per tenerlo fermo. Ma il giovane Shadowhunter sembrava annaspare, e dopo qualche istante spalancò gli occhi, guardando dritto davanti a sé senza vedere niente. Dalla gola gli salivano lunghi rantoli, ma quasi subito l’uomo capì che non c’era da preoccuparsi. Aveva solo avuto un risveglio un po’ traumatico, ma in poco tempo si sarebbe ripreso.
“Sta’ buono”, gli disse ancora, cercando di parlare in modo tranquillizzante. “Va tutto bene. Sei all’Istituto, al sicuro, è tutto finito adesso.”
Alec sembrava non capire.
“Alexander. Ehi, Alexander. Mi riconosci? Lo sai chi sono?”
Lentamente, continuando a respirare a fatica ma senza più tossire, il ragazzo girò gli occhi nella sua direzione, strizzandoli appena:
“Izzy?”, mormorò, e a Magnus caddero le braccia.
“Non proprio”, disse con disinvoltura, cercando nel frattempo di accertarsi delle condizioni dello Shadowhunter. “Anche se io e tua sorella condividiamo senza dubbio un certo gusto nel vestire.”
Del tutto immune ai suoi tentativi di ironia, Alexander Lightwood lo guardò confuso, senza dubbio cercando di metterlo a fuoco e forse di fare un po’ d’ordine nei pensieri. Era tecnicamente sveglio, ma ancora ben lontano dall’essere lucido: dall’espressione che aveva, si sarebbe detto un alieno arrivato sulla Terra per qualche strano scherzo del destino.
Magnus decise di perdonargli la sua scarsa recettività alle battute.
“Sono Magnus. Magnus Bane”, disse con estrema misericordia. “I Fratelli Silenti non potevano venire, e hanno chiamato me. Voi Nephilim siete terribilmente bravi a disturbare la gente quando sta dormendo, giusto perché tu lo sappia.”
“Ah”, disse solo il ragazzo, scuotendo piano la testa. Non sapeva se lo stava capendo oppure no, ma sembrava un tantino più collegato. “Mi dispiace.”
Lo stregone agitò appena una mano, come a dire che non importava: “Mi avrebbe comunque svegliato il gatto. Le quattro sono la sua ora.”
“La sua ora?” Alec era appariva sempre più confuso.
“Per uscire, Alexander. Ultimamente gli è presa la fissa di fare l’animale notturno. Ma vedrai come cambia idea quando arriva il freddo. Comunque. Non è questo il punto. Il punto è…”
“Jace!”
Di colpo, il giovane Nephilim sembrava abbastanza in sé. Cercando di reprimere il fastidio che gli dava sentir pronunciare il nome del biondino con tutta l’apprensione che solo l’amore poteva dare, Magnus notò che il ragazzo aveva spalancato gli occhi e lo fissava completamente in preda al panico, sembrando in grado di vederlo per la primissima volta.
“Dov’è Jace? E Izzy? Stanno bene? Per l’Angelo, devo andare…” Allungò un braccio per spostare lo stregone dal bordo del letto e fece per tirarsi su, ma l’altro fu rapido a spingerlo di nuovo contro i cuscini.
“Non ci pensare nemmeno”, gli disse, tanto per mettere in chiaro la situazione. Con i Nephilim, era sempre un compito stranamente difficile. “E la gamba non ti reggerebbe, in ogni caso.”
Vide il ragazzo lanciare una breve occhiata alla gamba nascosta dalle coperte, per poi concentrare su Magnus uno sguardo che era truce e disperato insieme. Be’, lui non aveva certo vissuto quattrocento anni per farsi spaventare da un ragazzino che lo guardava storto con due occhi azzurri terribilmente sexy. Anche se fosse stato necessario tenerlo fermo con la forza, immaginava che non ce ne sarebbe voluta molta: il giovane Lightwood era talmente magro che riusciva a sentigli le costole attraverso le bende.
“Io devo andare da loro”, pretese lo Shadowhunter, ma dal fatto che non provava a rialzarsi Magnus capì che non era ancora del tutto lucido. Altrimenti, ci avrebbe messo meno di un attimo a schizzare fuori dal letto. “Devo trovarli, sapere se stanno bene. E il demone?”
“L’hai ucciso”, fece Magnus, anche se non aveva idea se fosse vero o meno. In ogni caso, era una cosa che faceva sempre sentire i Nephilim un pochino meglio. “Non ti devi preoccupare di niente, adesso. Il demone è morto, la battaglia dell’Istituto è finita e i tuoi fratelli stanno bene.” Si rese conto troppo tardi di aver commesso un errore.
“La battaglia? Che battaglia?” Il ragazzo sembrava sul punto di avere un infarto.
“Contro Valentine, aveva fatto irruzione, ma adesso non preoccuparti, è finita. Abbiamo vinto.” O almeno così sperava.
“E Valentine? È morto?”
“Non lo so. Io ero qui con te. Ma Jace e Izzy sono vivi, li ho sentiti prima.”
“E Clary con quel Mondano?”
“Chi, Seamus? Be’, suppongo siano vivi anche loro. C’era parecchio trambusto in corridoio, poco fa. Dubito che avrebbe potuto farlo Isabelle da sola.”
“Non scommetterci”, borbottò Alec, ma sembrava ancora parecchio agitato. “Magnus, non posso non sapere. Fammi alzare e…”
“Piantala.” Il tono dello stregone era categorico. “Non sono stato qui tutta la notte a guardarmi male con Church solo per vederti mentre cerchi di ammazzarti qualche ora dopo. Con le ferite che avevi, è un miracolo che tu sia vivo. Vedi un po’ di non sprecare tutta la fatica che ho fatto.”
Per un momento, entrambi guardarono in basso, verso ciò che era nascosto da bende e coperte. L’artiglio del demone superiore aveva trapassato il petto del ragazzo da parte a parte, il che già di per sé era abbastanza schifoso, ma la cosa peggiore era stata il veleno con cui l’aveva infettato. Il veleno di una creatura del genere era mortale, e, con il senno di poi, Magnus non poteva che essere felice di aver risposto alla chiamata al posto dei Fratelli. I medici degli Shadowhunters erano bravi, ma lì era servito poco meno di un miracolo, un miracolo che solo la magia poteva dare. Chissà se, con qualcun altro, il ragazzo sarebbe sopravvissuto. Non erano ferite di poco conto nemmeno le bruciature di icore sparse su braccia e torace e lo sbrano sulla gamba, probabilmente conseguenza dell’essere stato scaraventato dall’altra parte della stanza, che per qualche giorno gli avrebbe impedito di camminare.
Decisamente, il ragazzo non era nelle condizioni di andare a vedere cosa combinavano i suoi amici (probabilmente qualcosa di stupido), e presto, quando fosse sparita l’energia data dal panico, se ne sarebbe accorto anche lui.
Per il momento, però, era ancora rigido sotto la mano di Magnus, il corpo scarno pronto a scattare. Ma quanto era duro, quel tipo?
“Non ti farò sprecare niente”, provò ad assicurargli, gli occhi che fuggivano al suo sguardo nascondendosi sotto la frangia. “Per favore. Sarà solo per un attimo, che vuoi che sia. Siamo Shadowhunters.”
“Infatti, e questo vi dà in dotazione una buona dose di stupidità. Nient’altro. Stai qui tranquillo, vado io a parlare col biondino, se ci tieni tanto.”
Con sommo disappunto di Magnus, Alec arrossì leggermente: “Non è che ci tengo”, precisò, in un borbottio sconnesso. “È che voglio sapere se è okay, tutto qui. Lui…”
“Sì, lo so. Lui ha l’incredibile tendenza di trovarsi sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, e di attirare disgrazie come un parafulmini. Ma credimi se ti dico che in questo momento va tutto bene. Quando me ne vado te lo mando qui.”
La cosa parve rassicurare il giovane Nephilim. Se il parabatai poteva raggiungerlo, allora non era possibile che fosse morto. Si rilassò appena, addirittura appoggiandosi ai cuscini senza esserci costretto con la forza. Magnus era colpito. Qual era il punto? Il fascino del biondo? O il gusto dell’amore impossibile? Quale che fosse, era riuscito a calmare Alec, che di colpo sembrava sfinito.
Lo vide socchiudere appena gli occhi. D’un tratto, sembrava terribilmente giovane, ed era così semplice, per lo stregone, dimenticarsi che quel bel ragazzo dai capelli color carbone non era interessato a lui. Prima di poter riflettere sull’idiozia del suo gesto, allungò una mano ad accarezzargli i capelli, scostandoglieli delicatamente dalla fronte.
Il ragazzo aprì gli occhi di scatto e lanciò uno sguardo alla mano, ma sembrava troppo stanco per protestare del fatto che un asiatico alto e con le pupille da gatto lo stesse coccolando. O forse non gli dispiaceva il contatto. Con tutta quella questione di Jace, Magnus non avrebbe saputo dire.
“Sono stato stupido”, mormorò il giovane Lightwood, gli occhi chiusi e la guancia premuta contro la mano dell’altro. “Jace… mi sono messo in mezzo… ma non nella maniera giusta. Non sono stato attento.”
“Era un demone superiore, Alexander”, gli fece notare gentilmente Magnus. “Non puoi darti la colpa se ti ha ferito. Molte persone hanno affrontato Abbadon e non sono sopravvissute. Voi l’avete fatto fuori. Non è poco.”
“Ho messo tutti a rischio. Se l’attacco non fosse riuscito… se fossi morto senza aver ucciso anche lui… avrei distratto tutti quanti. Jace, Izzy… sono stato un idiota.”
“A me non è sembrata una cosa idiota”, rispose l’altro, abbandonando per un istante i capelli per fargli scorrere il pollice sulla guancia, calda di febbre sotto il polpastrello. “Sei stato molto coraggioso, invece.”
Di nuovo, Alec aprì gli occhi e lo guardò, anche se sembrava vederlo attraverso una cortina di nebbia. Di nuovo, arrossì.
Ma non per Jace.
Non per Jace.
“Magnus…”, mormorò, lo sguardo per la prima volta fisso nel suo, gli occhi lucidi e scintillanti come stelle. “Io…” Provò a tirarsi a sedere, ma una smorfia di dolore lo fece desistere. Parve dimenticarsi di ciò che doveva dire mentre tutto il suo corpo si irrigidiva, la mascella contratta nello sforzo di non lasciar trapelare quanto stesse soffrendo. A quanto pareva, l’effetto dell’adrenalina doveva essere del tutto svanito, e così come i postumi dell’infuso con cui lo stregone lo aveva sedato qualche ora prima.
Solo un po’ deluso per non aver saputo il resto della frase (non che sperasse in una dichiarazione di amore eterno, ma non si sapeva mai), Magnus Bane si chinò rapido su di lui.
“Farà male ancora per poco”, lo rassicurò, tornando ad accarezzargli i capelli con una mano mentre gli appoggiava l’altra sul petto, proprio sopra il punto in cui lo aveva colpito il demone. “Sta’ tranquillo, ci penso io qui.”
Alec non rispose. Aveva il respiro pesante, la fronte imperlata da tante goccioline di sudore. Magnus non era preoccupato, era una cosa normale. Il corpo stava espellendo gli ultimi residui del veleno di demone, e finché non l’avesse fatto era logico che il ragazzo stesse male. Aveva lasciato delle boccette alla sorella, per non farlo soffrire troppo una volta che lui se ne fosse andato, ma già alla fine di quella giornata ne avrebbe avuto molto meno bisogno.
“Tranquillo”, disse di nuovo, lasciando che la magia azzurra fluisse dalla mano appoggiata sulle bende. “Quando ti sveglierai starai molto meglio.”
“Non voglio dormire”, protestò flebilmente il giovane Lightwood, che già faticava a tenere gli occhi aperti. “Devo restare sveglio. Dovete raccontarmi…”
“Proprio niente, al momento”, replicò Magnus, spostando la mano sulla fronte dell’altro. “Ti dirà tutto Jace quando verrà qui. Deve essere una storia piuttosto interessante.”
Alec non disse niente, e per un breve istante lo stregone credette che si fosse addormentato. Ma poi lo vide muoversi contro il cuscino, spostandosi appena per guardarlo in faccia.
“Magnus…”, cominciò di nuovo, la voce vagamente sognante. L’incantesimo stava facendo effetto, anche se l’uomo sperava che avrebbe concesso loro ancora qualche istante. Non era possibile che avesse un tempismo così tremendo.
“Sì?”, fece fingendosi distratto. In realtà, non credeva di essere mai stato così attento in vita sua.
“L’altra sera… alla festa…” Sembrava avesse difficoltà ad articolare anche la più semplice delle frasi. Sotto lo sguardo arcigno di Church, Magnus attese. “Mi hai detto… ma io non ti ho chiamato.”
“Non è carino farmelo notare”, replicò lo stregone, mentre uno strano vuoto gli si apriva al posto dello stomaco. Cercava di apparire distaccato, anche se forse il suo impegno era abbastanza inutile: al momento, la giovane promessa dei Lightwood non avrebbe distinto un demone da un ananas danzante. “Ma non ti preoccupare, è acqua passata. La mia era solo un’idea.”
“Oh.” C’era qualcosa di strano in quel monosillabo. Imbarazzo? Delusione? No, non era possibile. Doveva essere la febbre a parlare, tutto qui. E comunque cosa gli prendeva? Non era da Magnus pendere dalle labbra di un ragazzino Shadowhunter, neanche se aveva gli occhi più azzurri che avesse visto dai tempi di Will Herondale a questa parte. “Certo. È ovvio. Io…” Chiuse gli occhi, e non li riaprì prima di trenta secondi buoni. Sembrava lottare con tutto se stesso per rimanere sveglio, ma la lotta stava volgendo al termine.
“Magnus…”, mormorò per l’ultima volta. “Volevo dirti…”
Ma, come era successo con Jace, lo stregone non seppe mai cosa Alexander Lightwood avrebbe voluto dirgli. Gli occhi del ragazzo si chiusero definitivamente e la testa sprofondò nel cuscino, i capelli sparsi a ventaglio come un’aureola nera. Gentilmente, attento a non svegliarlo con un movimento brusco, Magnus gli tolse la mano dalla guancia e gli tirò su la trapunta, lasciando visibili solo il viso e parte delle spalle magre. Rimase a guardarlo per qualche istante, dicendo a se stesso che stava semplicemente controllando che stesse bene.
Ma il battito e il respiro adesso erano regolari, e presto la febbre sarebbe scesa ancora. Quanto alle ferite, a quel punto sua sorella era più che in grado di prendersene cura.
Non c’era ragione di restare.
Si alzò lentamente, ogni movimento al rallentatore, con addosso un senso di delusione che non riusciva in nessun modo a scrollare via. Avrebbe dovuto essere felice. Valentine era stato sconfitto, e lui aveva salvato il ragazzo. Senza contare che quella sera avrebbe inaugurato la giacca nuova alla festa di Kathleen, la vampira. Aveva un mucchio di ragioni per essere soddisfatto.
Eppure non riusciva a smettere di pensare al nome del biondino, e a come suonava dolce sulle labbra di Alec. A come faceva arrossire quelle bellissime guance scavate che sembravano fatte di luce lunare. Certo, anche lui l’aveva fatto diventare rosso, e alla fine era sembrato deluso quando Magnus gli aveva detto che stava solo giocando, ma sapeva che si trattava di un’altra cosa. Jace era il tipo a cui andava dietro da anni, lui semplicemente il primo uomo che gli avesse rivolto delle attenzioni. Aveva reagito perché era così che succedeva, quando un uomo affascinante ci provava con te per la prima volta, ma la cosa finiva lì. Per lui Alec non provava nulla. Era il nome del biondino quello che chiamava nel sonno, quello che avrebbe chiamato anche nella realtà se solo ne avesse avuto il coraggio. Non il suo. Il nome dell’altro.
Avrebbe dovuto sentirsi trionfante, eppure non lo era per niente.
Perché Alexander Lightwood era sopravvissuto, ma non l’avrebbe chiamato.
E la cosa, chissà perché, lo aveva deluso molto più di quanto gli piacesse ammettere. 
   
 
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