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Autore: ChiiCat92    24/10/2018    0 recensioni
"Appena usciti dallo studio del dottore il freddo si era fatto intenso. Non era l’aria a essersi improvvisamente congelata, perché il sole era alto e il cielo terso, ma qualcosa tra noi.
Il ghiaccio diventava più spesso e opaco man mano che camminavamo, respirare diventava difficile, come se tutto quel gelo si fosse depositato sul cuore. Quando si deposita la neve sui rami, in inverno, c’è un momento in cui il peso è eccessivo e il ramo si piega, no? Ma esiste il caso in cui, invece si piegarsi, si spezzi."
Genere: Angst, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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22/10/2018

 

Ansgt


Appena usciti dallo studio del dottore il freddo si era fatto intenso. Non era l’aria a essersi improvvisamente congelata, perché il sole era alto e il cielo terso, ma qualcosa tra noi.

Il ghiaccio diventava più spesso e opaco man mano che camminavamo, respirare diventava difficile, come se tutto quel gelo si fosse depositato sul cuore. Quando si deposita la neve sui rami, in inverno, c’è un momento in cui il peso è eccessivo e il ramo si piega, no? Ma esiste il caso in cui, invece si piegarsi, si spezzi. Ero sicuro che prima o poi mi sarei spezzato.

« Vick? » provai, abbozzando un sorriso. Non trapassò il ghiaccio, non fui sicuro neanche del fatto che lui mi avesse sentito.

Aveva perso molto peso negli ultimi mesi, il suo volto si era scavato nei punti in cui le emozioni si facevano più intense, i suoi occhi blu scuro si erano come spenti.

Avvolto negli abiti invernali, con la sciarpa di lana che gli copriva la bocca, mi sembrava impossibile decifrare i suoi pensieri.

Sentii lo stomaco ribollire, ma impedì chissà come all’acido di risalire l’esofago e bruciarmi la lingua.

« Vick? » chiamai ancora, di nuovo con il sorriso.

Stavolta, Victor si volse. A stento riconoscevo in quello scheletro smagrito il ragazzo di cui mi ero innamorato tanto tempo prima, il pallore della sua carnagione già chiara lo faceva sembrare etereo. Stava diventando sottile, un foglio di carta velina pronto a strapparsi alla minima pressione.

« Ti va di andare a mangiare da qualche parte? » chiesi, dato che, a parte quello disinteressato, non aveva risposto in alcun modo.

« Voglio tornare a casa. »  

L’incidente aveva cambiato tante cose di Victor. Gli aveva tolto la luce, come una candela morente sotto un bicchiere di vetro. Parlava poco, forse perché era consapevole che la sua voce non era più la stessa. Cercavo sempre con tutto me stesso di ignorare i brividi che mi salivano lungo la schiena, cercavo sempre di fingere che non fosse niente.

« È passato tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo concessi un pranzetto in solitaria, potrebbe essere...carino. »

« Voglio tornare a casa. » ribadì lui, aumentando il passo.

Mi lasciò indietro, una barriera di ghiaccio a dividerci.

 

Suo malgrado, Victor dipendeva da me. Era debole, i farmaci immunosoppressori che era costretto a prendere lo rendevano vulnerabile.

Arrivati a casa lo aiutai a spogliarsi, con la solita attenzione di sempre. Avevo imparato a prendermi cura di lui nel modo in cui credevo avesse bisogno.

Tolto il cappotto sembrava ancora più magro. Lo guardai, preoccupato. In alcune cose non potevo aiutarlo, e mi spezzava il cuore.

Mi scoprì a fissarlo e per un attimo sentii il gelo infilarsi sottopelle, scavarsi un varco verso le vene e il caldo, caldo flusso sanguigno.

C’era un’accusa silenziosa e tagliente nei suoi occhi, e mi venne spontaneo abbassare la testa e mordermi le labbra, come se mi aspettassi una punizione.

Victor, però, non mi punì. Sarebbe stato un sollievo, in un certo senso, perché finalmente mi avrebbe toccato. Ormai non mi riservava neanche violenza.

Trattenni il fiato finché lui non mi volse le spalle. Si sarebbe chiuso nella sua stanza da letto aspettando che gli portassi il pranzo, come sempre.

I medici dicevano che dovevo essere comprensivo, e avevamo cominciato a fare terapia di coppia ormai da diverse settimane, ma in qualsiasi modo cercassi di impormi mi veniva detto che dovevo essere forte, mettermi da parte: non c’era posto per me, in quel momento, nel dolore di Victor.

Doveva affrontare il suo lutto personale, la morte della vita così come la conosceva, prima di potersi concentrare anche sulla nostra relazione.

Dovevo solo...essere paziente.

Sospirai, e mi concentrai sulle faccende domestiche. Non c’era molto da rassettare o da pulire, la cenere e le macerie che ci circondavano non erano tangibili, erano solo nelle nostre menti. Per quanto mi sforzassi di sollevare calcinacci e raccogliere polvere, non volevo essere io a trovare il cadavere in putrefazione del nostro rapporto.

Victor era stato il mio primo vero amore, come negli sceneggiati tv che ci piaceva guardare la sera abbracciati sul divano. Ci eravamo conosciuti l’ultimo anno del liceo ed era stato così semplice amarlo che non me n’ero stupito. Avevo avuto qualche tresca, qualche superficiale relazione, ma nessuno mi aveva colpito nel profondo come Victor.

Lui divenne tutto per me così gradualmente che quando me ne resi conto era ormai troppo tardi.

Lo seguii come potei al college, scegliendo una facoltà che non mi interessava solo per potergli stare vicino. Victor brillava di una strana, fulgida luce. Ci sono poche persone al mondo che sanno quello che vogliono, e lui era una di queste. Aveva uno splendido futuro davanti, non facevano che ripeterglielo tutti.

A me New York stava stretta, assurdo dirlo di una metropoli di quelle mastodontiche dimensioni ma era quella la sensazione: soffocare nell’aria torbida e precipitare in un baratro oscuro. Però, non riuscivo neanche a pensare di allontanarmi da Victor.

Lui era primo violino dell’orchestra della Juilliard School, brillante, virtuoso, talentuoso, sentirlo suonare erano brandelli di stelle. Niente mi emozionava di più che sedermi in prima fila e vederlo salire sul palco.

Io di musica non ne ho mai capito nulla, e per quanto fosse difficile accettare i ritmi di studio, le ore passate chiuso in una stanza, le assenze, le feste annullate e gli evento improvvisi, niente era più entusiasmante che amare un musicista: non amavo solo lui, amavo la musica nella sua interezza.

Nel suo firmamento stellato sarei stato sempre e solo un satellite, orbitante intorno alla sua grandezza, ma non mi importava. D’altronde, Victor non era solo il violino o le piccole, precise note che faceva risuonare nella notte, era anche altro.

Lo era, almeno, fino alla notte dell’incidente.

Era stanco, dopo due settimane di prove e tre concerti, per questo presi il suo posto alla guida. Ma io lo ero più di lui. Il colpo di sonno mi prese quando eravamo ormai arrivati vicino casa, all’improvviso divenne tutto buio e poi...non ricordo. Quando mi risvegliai ospedale, con un trauma cranico e cinque costole lussate, Victor urlava.  

Ricordo solo questo, le sue urla, strazianti come quelle di un animale mandato al macello. Capii cosa gli era successo solo qualche giorno dopo, quando mi permisero di vederlo.

La macchina, andando fuori strada, si era schiantata contro il guardrail; un pezzo di acciaio di mezzo metro, piegandosi, aveva sfondato lo sportello del passeggero e aveva troncato di netto il braccio destro di Victor, piantandosi poi nel polmone. Era stato molto fortunato, perché aveva trovato un donatore che gli aveva permesso di respirare ancora: i medici non facevano che ripeterglielo, elargendo pacche sulle spalle e sorrisi cortesi.

Vivo solo per definizione, ma morto nell’animo, Victor cambiò per sempre.

L’incidente era stata colpa mia.

Tutto quello che amavo di lui, e tutto ciò che lui amava, era sparito, cancellato dalla lamiera e dai farmaci.

In casa c’erano ancora i resti di quella vita d’avorio: il pianoforte a coda che gli avevano regalato i suoi genitori, i due violini di liuteria su cui studiava, e pile di spartiti fitti di note che sembravano formiche impazzite. Non era riuscito a buttare niente di tutto quello, sebbene lo psicologo gli avesse consigliato di disfarsene.

Così, mi occupavo io di quelle reliquie, impedendo al tempo e allo squallore di prendersene una parte, così come mi occupavo di lui.

Pulii il piano con un panno umido d’acqua calda, spolverai i violini, riordinai i libri di esercizi e scale in un angolo, poi andai a preparare il pranzo.

Victor riusciva a mangiare solo cibi morbidi o semi-liquidi, perché si rifiutava di masticare e ingoiare qualcosa di più consistente, mentre io mi rifiutavo di pensare che si volesse lasciare morire. Non glielo avrei permesso.

Preparai una minestra di verdure con una piccolissima pasta, misi tutto su un vassoio e gliela portai.

Prima di bussare rimasi qualche secondo davanti alla porta. Quella non era più la nostra stanza, era la sua stanza, non avevo il permesso di dormire con lui. Ma andava bene, mi arrangiavo sul divano-letto nel soggiorno.

Con tutte le mie forze, ogni volta che mi ritrovavo davanti alla porta chiusa, speravo di aprirla e trovare il Victor di sempre, che mi avrebbe accolto con un sorriso, sussurrando il mio nome con quell’accento vagamente russo che era strascico delle sue origini.

“Adrien!” e un sorriso, il più caldo e meraviglioso di sempre, che avrebbe sciolto il ghiaccio tra noi.

Bussai, rispose “avanti”, entrai.

Nel semibuio la sua figura sotto le coperte era la stessa a cui ero abituato, che guardavo con occhi sognanti quando mi svegliavo nel bel mezzo della notte. Mio, solo mio, un angelo in terra che mi apparteneva.

« Ho fatto una minestra. » sorrisi, poggiandola sul comodino, per poi sedermi sulla sponda del letto. « Con un po’ di pastina. » presi il piatto, rassicurante e caldo come avrei voluto che fosse lui. « Spero ti piaccia. »

« Non ho fame. » fu la sua rauca risposta.

Non l’avevo visto piangere o disperarsi o urlare dall’incidente, no, su di lui era scesa una corrosiva indifferenza che era il peggiore dei mali possibili.

« Qualcosa devi mangiare, hai sentito che ha detto il medico. »

« Non mi importa di quello che ha detto il medico. »

Sospirai, comprensivo. Faceva il difficile, era una giornata no, succedeva quando era costretto a spogliarsi davanti ai dottori perché gli controllassero il moncherino che un tempo era il suo braccio.

« Dai, un paio di cucchiai almeno, così puoi prendere le pillole. »

« Non voglio quelle stupide pillole. »

Paziente.

Misi su il sorriso più sincero che avevo e mi sporsi verso di lui, il piatto bollente ancora in grembo. « Dici così solo perché sei nervoso, ma sai che ti servono. »

« Vattene, Adrien. » disse all’improvviso, voltandosi di scatto. Quasi mi cadde il piatto.

Amavo così tanto quegli occhi, anche adesso che erano pieni d’odio blu.

« Certo, dopo che avrai mangiato e preso le medicine. » sorrisi. Mi ero abituato a sorridere, lui non lo faceva più, dovevo farlo per entrambi.

« Vattene per sempre. Non ti voglio più qui, Adrien. Non ti voglio più vedere. »

Sentii un groppo stringermi la gola, ma il sorriso persistere. Forse si era congelato a causa del ghiaccio che riempiva la stanza. Quando era scesa così tanto la temperatura?

« Che...che vuol dire. »

« Vuol dire che ne ho abbastanza. » mi sfuggii uno strillo quando lui, con l’unico braccio rimastogli, spinse il piatto, rovesciandolo a terra. I cocci si sparsero ovunque, mentre lo scendiletto si inzuppava come di sangue dorato. « Ne ho abbastanza dei tuoi sorrisi, delle tue attenzioni, ne ho abbastanza di te, non voglio più vederti. Non voglio più sentirti. »

« Sei...solo stanco Vick, andrà tutto… »

« SMETTILA! » a quel punto sobbalzai, sentii le spalle piegarsi in avanti, mi faccio piccolo, piccolo, piccolo. « Non andrà niente bene. L’unico che non l’ha accettato sei tu. Noi non ci amiamo più, io non ti amo più. Se rimani è solo perché ti senti colpa. Quindi vattene, sei libero. »

Mi tremò il labbro, sentii il sapore di lacrime sulla lingua. Scossi la testa, lentamente, mi sembrava di non riuscire a respirare, sarei morto in una pozza d’acqua gelata.

« Non lasciarmi. Non...non sono...niente senza di te. »

« Vattene. »

Provai ad allungare una mano verso di lui, prendere la sua, stringerla al mio petto. Ma aveva un moncherino lì dove un tempo ci sarebbero state le dita agili del violinista di cui mi ero innamorato. Aveva perso quella parte che lo teneva legato a me.

« Victor… » provai, ma di certo non uscì che un sussurro, basso e appena percettibile.

Lui, però, non mi guardava, non mi guardava più da tanto tempo. Ero solo io a non essermene accorto.

Mi alzai, non raccolsi i cocci da terra, non mi voltai indietro.

C’era sempre più freddo, e non era l’aria a essersi improvvisamente congelata, perché il sole era alto e il cielo terso, ma qualcosa tra noi. Un qualcosa che era morto assiderato.

Alla fine la neve aveva spezzato il ramo.

 
   
 
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