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Autore: ludo22    27/10/2018    1 recensioni
Non perse la testa a Azkaban. Non la perse semplicemente perché se ne era già andata via da un pezzo.
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O di Sirius e la libertà all'ombra della motocicletta.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Note Autrice:
-Ho riscritto questa mezza schifezza tipo 15 volte e non ce la faceva più a stare chiusa tra i documenti, quindi si... ecco... boh!
-No SiriusxJames intended (anche se ognuno ci legga quello che più gli pare e piace).
-Un giorno troverò il coraggio di vedere i film di HP in italiano – perché i libri costano, mentre lo streaming è gratis –, ma quel giorno non è oggi.    
-Il bene che voglio a Sirius. IL BENE!
-No beta.
 
 
 

If you’re going to rebel, do it with purpose
 

 
 
 
 
 
And I have fought 
With flash and and blood I commanded an army
Through it all
I have given my heart for a moment full of glory

-In the end; Black Veil Brides-

 
 
(Tutto ciò che Sirius aveva sempre voluto fare era proteggere suo fratello e i suoi tre migliori amici da tutto il male del mondo.

Era ironico e, al tempo stesso, non lo era per niente, il fatto che seppe della fine di Regulus troppo tardi, che uno dei suoi tre migliori amici lo tradì… tradì tutti loro, un altro fu lasciato solo per dodici lunghi anni e l’ultimo – il migliore dei suoi migliori amici – fosse morto perché indirettamente si era fidato della persona sbagliata – e perché lui, Sirius Black, aveva avuto paura.)  
 

Capelli lucenti e neri, occhi grigi, ghigno strafottente e una personalità che urlava “Motocicletta”. Sarebbe sempre stato quel sedicenne spensierato, in un certo qual senso. Anche vent’anni dopo, quando i suoi capelli non erano più nobilmente acconciati, e le sue fattezze non erano più adolescenziali e belle, e la sua mente non era più sana e acuta, avrebbe avuto sempre quel qualcosa di quell’eterno irresponsabile e spensierato sedicenne. Era ancora – e sempre – quel sedicenne, che scappò di casa e che si era comprato una motocicletta per sentirsi liber… per essere libero dai suoi genitori – e dal peso del suo cognome.    
 

(Quando facevano il secondo anno James l’aveva preso da parte e gli aveva detto:
-Il tuo cognome non fa di te ciò che sei, Pafdfoot! -
Sirius non aveva avuto il coraggio di rispondergli con il suo solito scherno e disprezzo per chiunque cercasse di dargli consigli. Si era limitato ad annuire e gli occhi gli erano diventati, per un secondo appena, lucidi ma aveva riguadagnato in fretta la sua solita baldanza e aveva proposto uno scherzo che comprendeva Snivellus e un incantesimo che avrebbe permesso loro di attaccargli tutti i vestiti addosso per una settimana.)
 

Non perse la testa a Azkaban. Non la perse semplicemente perché se ne era già andata via da un pezzo. Non protestò mai quando la strega del Ministero lo informò che Crouch lo avrebbe mandato per il resto della sua vita a Azkaban, senza un giusto processo. Non protestò mai quando i Dementors lo chiusero nella sua piccola cella. Non protestò mai quando gli venivano a fare visita giornalmente – e gli volevano portare via ciò che di più caro aveva: i ricordi dei suoi tr… due migliori amici al mondo. Lui era il ribelle per eccellenza, e non aveva bisogno di protestare per ribellarsi contro di loro. Il suo silenzio, la sua apparenza di sanità mentale, erano ribelli abbastanza.

Ma la sua sanità mentale non c’era più. Non senza James. Non senza la libertà che James gli aveva regalato sin dal primo momento sull’Hogwarts Express. A Azkaban credevano di aver silenziato il ribelle, ma non era vero. Si stava ribellando – per James, per Lily, per sé stesso. Perché era questo quello che faceva. Era un ribelle.

L’unica cosa – l’unico oggetto inanimato (anche se non la vedeva sempre allo stesso modo) – che gli mancava davvero a Azkaban era quella motocicletta. Quella particolare motocicletta che aveva dato a Rubeus Hagrid per portare via Harry. Quella motocicletta che sapeva di libertà, e che significava un forte rombo e una costante irritazione per la tipologia di persone che erano i suoi genitori. Gli mancava davvero molto avere sedici anni.

Ma non si poteva silenziare il ribelle.

Non si poteva silenziare quel Black.

Aveva combattuto avversari orgogliosi e testardi sin da quando aveva cinque anni, e le mura di Azkaban non avrebbero potuto contenerlo. Aveva lottato contro sua madre, contro suo padre, e a volte contro suo fratello – suo fratello, la carne della sua carne, colui che, per primo, lo aveva tradito. Si era fidato di Regulus, delle scelte che il cuore gli imponeva di prendere, del Cappello Smistatore, di lui – aveva sperato che fosse intelligente abbastanza da vedere dietro il bigottismo e la stupidità della loro madre. Ma lo era davvero? Dov’era Regulus? Morto, molto probabilmente. Ma non aveva bisogno di Regulus, si disse. Non aveva bisogno di nessuno. Nessun muro sarebbe stato in grado di imprigionarlo – nemmeno quelli di Azkaban. Specialmente quelli di Azkaban. Tutto ciò di cui aveva bisogno era la sua libertà, e quella era l’unica cosa che era riuscito sempre a ottenere.

Per qualche mese, mentre dava la caccia a Peter Pettigrew, era tornato a essere libero. Correva, ma gli era sempre piaciuto correre. Era il nascondersi che detestava. Niente sarebbe riuscito a trattenerlo, niente ce l’avrebbe mai fatta. Grimmauld Place l’aveva tenuto avvinghiato a sé per così tanto tempo, ma era riuscito a scapparle quando arrivò a Hogwarts. Era un Gryffindor, quasi del tutto separato da quella casa che aveva tanto odiato. E ci doveva tornare, ogni anno. Lo aveva fatto diligentemente all’inizio, ma quando sua madre usò la maledizione Cruciatus su una muggleborn, colpevole di essere andata a letto con il figlio maledetto, scoprì di non esserne più in grado. Non voleva più mettere piede in quell’abitazione. Nemmeno per i due mesi di vacanze estive. Aveva bisogno di andare via – di sentirsi libero.

Decise quindi di andare dai Potter. Si sentì libero lì, per un annetto circa, fino al giorno in cui commise un errore. Ad Hogwarts – che era casa sua. Un errore che gli costò quasi la sua libertà. Per poco, pochissimo, una questione di secondi, non commise un omicidio. E quindi, quando ritornò dai Potter per l’estate seguente, impacchettò tutte le sue cose, li ringraziò (perché – in un anno – gli erano stati più famiglia loro che sedici passati nella Nobile e Antica casa dei Black) e se ne andò. Si comprò con i suoi soldi un appartamento, e quella motocicletta.

Remus ne aveva sorriso come se fosse un investimento frivolo e bambinesco, Peter gli aveva chiesto di prestargliela e Lily aveva riso (quando divennero amici) come se fosse un gioco stupido che però piaceva a Sirius. James fu l’unico a vederla per quello che era: una necessità nella sua vita. Lui aveva bisogno di quella motocicletta. Ed era perfetto per lei. Non si era mai davvero “innamorato” prima, eccezion fatta per la sua motocicletta.    

Era parte della sua personalità: chiunque lo sapeva.

Lui era il ribelle per eccellenza – con la giacca di pelle, gli occhiali scuri, il ghigno indisponente e la motocicletta: un ribelle che combatteva per una causa, perché si presentava ad ogni riunione dell’Ordine con la sua motocicletta, felice di ribellarsi a Voldemort. Felice di combattere. Era bravo in quello.

Ma poi Voldemort uccise James e Lily – e Peter li tradì. Tradì tutti loro – e lui perse la sua motocicletta. Stette fermo tra le macerie e i calcinacci in quella che era stata un tempo Godric’s Hallow e fissò il fumo – mentre lacrime calde scendevano da quegli occhi grigi tempesta per la prima volta dopo molti, moltissimi anni. Non aveva più pianto da quando aveva sette anni – non aveva più pianto da quando aveva sette anni e sua madre gli aveva detto di non piangere mai più. C’erano stati momenti in cui era stato triste – quando erano morti i genitori di James, quando erano morte Dorcas e Marlene e i fratelli Prewett, quando nei giorni immediatamente successivi all’errore gli altri Marauders avevano iniziato a guardarlo con sospetto e apprensione… ma mai così.  

E perse la testa nello stesso momento in cui perse la libertà. Che, per ironia della sorte, coincise esattamente al momento in cui perse la motocicletta.

Prese Peter con l’unico intento di uccidere il disgustoso essere che li aveva traditi – che aveva tradito tutti loro – e che aveva portato via il suo James. Non scappò dall’autorità, perché teneva meno alla sua libertà rispetto alla vendetta contro il vile essere che gli aveva portato via tutto ciò che amava: James, Lily e il piccolo Harry. Harry: condannato a vivere come lui aveva vissuto. In una casa che detestava, in una famiglia che lo odiava.

Era destino che tornasse in quella casa. Quando Peter scappò, e Voldemort tornò, e non poteva più continuare a nascondersi in quella remota isola del pacifico (perché c’era Harry dalla parte opposta del mondo che lo stava aspettando. Il bambino che aveva amato fin dall’istante in cui Prongs aveva detto ai Marauders che sua moglie era incinta, il bambino che si aggrappava alle sue gambe e che lo chiamava Poof*, il ragazzo che, nonostante il fatto che fosse stato assente per quasi tutta la sua vita, lo aveva accettato come padrino, confidente e amico, il ragazzo pieno di dubbi e preoccupazioni che gli scriveva lunghe lettere, l’uomo che aveva affrontato Voldemort, l’uomo che era, quello che sarebbe diventato, quello che era sempre stato), tornò a Londra. Tornò nella casa che detestava. Per Lily, si disse. Per James. Per Harry.

 
(Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto rivelargli della profezia, quel giorno a cena.

-Non è tuo figlio.- disse a Molly Weasley.

Perché quello era il suo Harry. Suo figlio. Il figlio di James e Lily dai capelli folti e nerissimi alla punta dei piedi, da come scriveva l’alfabeto a come proteggeva i suoi nemici. Conosceva letteralmente il ragazzo sin dal giorno in cui era nato. Sapeva cosa avrebbero voluto Lily e James per lui. E loro avrebbero voluto che sapesse cosa lo aspettava. Loro avrebbero voluto che sapesse che si sarebbero sempre fidati di lui. Lily lo avrebbe spellato vivo se lo avesse lasciato affrontare lo scenario del “prescelto” senza sapere cosa significava davvero. James e Lily Potter avevano dato la loro vita per via di quella profezia e Molly gli stava dicendo che loro avrebbero preferito che ne rimanesse all’oscuro? Lui era il suo padrino. Avrebbe fatto qualsiasi cosa affinché fosse protetto e al sicuro. Era a lui che Harry aveva scritto quasi ogni giorno per mesi e sapeva meglio di chiunque altro di cosa avesse bisogno in quel momento. Sapeva cosa era successo esattamente in quel dannato cimitero. Sapeva cosa Harry aveva passato e cosa i suoi genitori avrebbero voluto che facessero gli adulti in quella stanza ora.

-Non è tuo figlio.- disse Sirius a bassa voce.

E tutto ciò che l’uomo riusciva a vedere dietro gli occhi chiusi era Lily. La sua forza d’animo. I suoi principi. Il modo in cui avrebbe rivelato tutto a Harry e lo avrebbe, subito dopo, portato a vedere una partita di quidditch.

Ma non disse niente. Da una parte del tavolo c’era Molly, con le sue battutine fredde e salaci nei confronti del tempo che aveva trascorso a Azkaban, dall’altra lui. Ripensò al senso di colpa che lo assaliva tutte le notti per non essere stato sveglio abbastanza da capire prima chi fosse la serpe, per non essere stato in grado di proteggere Harry l’anno prima, per non essere stato in grado di proteggere – salvare – Lily e James, e… non disse niente.)

  
Non era libero in quella casa. Era quasi costantemente solo, con un vecchio elfo domestico che lo odiava, e una serie di ritratti che gli urlavano contro ogni qual volta passava loro davanti. Dumbledore e il ricordo di Hogwarts non erano più di alcun conforto al sedicenne diventato troppo presto trentacinquenne. Era ancora bello, e giovane – non più un teenager, certo, ma…–, e aveva la sua motocicletta. Ma non poteva più andarci ovunque volesse, e non era libero. Non riusciva a essere sé stesso, senza la sua libertà.

Fin quando non ebbe l’opportunità di tornare a essere libero per l’ultima volta. Fin quando non ebbe l’opportunità di lasciare quella casa per fare qualcosa di nobile. Per ripagare James della libertà che gli aveva donato a Hogwarts. Avrebbe combattuto per proteggere Harry.

Cadde dietro la tenda, ma si era redento. Si era redento per tutto il male che aveva fatto a Snape, in quel lontano sesto anno, per tutto il male che aveva fatto a Remus, Lily, James e Harry. Era stato James a regalargli la libertà, e proprio in virtù di quel debito che aveva con James che lo ripagò – attraverso Harry. Era dovuto tornare a Grimmauld Place per James e Harry, ma non ci sarebbe mai più rientrato.

 
(Dall’altra parte della tenda, finalmente, si riconobbe. Aveva sedici anni. Aveva sedici anni ed era selvaggio, impetuoso, irresponsabile e spensierato, con i capelli lucidi e neri, occhi grigi, il ghigno strafottente e una personalità che urlava “Motocicletta”.)  
 
 
*Nel mio piccolo, ma felice, headcanon il piccolo Harry non riusciva a pronunciare esattamente la parola Padfoot e lo chiamava Poof.
 
   
 
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