Casa
March era insolitamente silenziosa; dopo
una giornata di febbrile attività, risate e schiamazzi,
pareva essersi
addormentata e ripiegata su sé stessa. Tutte le luci,
eccetto una o due, erano
spente, e i lumini accesi per la via si riflettevano nei vetri
dell’abitazione,
dando una parvenza di allegria.
Amy
March Laurence stava cucendo: i lunghi
boccoli dorati le scendevano sulle spalle incorniciandole con grazia il
viso
stanco, mentre le dita facevano passare agilmente l’ago tra
la stoffa e il
filo, delineando un ricamo gentile.
Una
bambina stava dormendo nel letto vicino
alla donna, lo stesso viso della madre in una versione rimpicciolita e
pallida,
dall’aria stanca, riposava sul guanciale con aria beata.
Un
suono cupo e profondo squarciò il silenzio
della casa: l’orologio a pendolo in corridoio segnava le
undici e mezza.
Amy
controllò il viso della bambina, sospirando
di sollievo scoprendola ancora addormentata: dopo una giornata di
baldorie con
i cugini, doveva riposarsi il più possibile. Era tanto
facile per lei
ammalarsi…tanto facile…
La
donna sbadigliò, lasciando cadere la spola
del filo sul pavimento, dove atterrò con un tonfo leggero.
Si chinò a
raccoglierlo e depose il ricamo su una mensola con l’ago e il
filo.
E
prima che potesse alzarsi per dare un bacio
alla piccola Beth e ritirarsi nella sua stanza, si era già
addormentata.
Dal
piano di sotto si udì una porta
scricchiolare piano piano, mentre il fuoco del camino si accendeva come
per
magia, rischiarando e tingendo di un bel rosso la sala deserta.
Un
soffio d’aria fredda sibilò brevemente,
mentre una figurina entrava nella stanza e si chiudeva la porta alle
spalle.
Si
avvicinò al fuoco, tendendo le mani per
riscaldarsi: era una ragazza sui diciotto, forse diciannove anni,
snella e
rosea, con i capelli castani raccolti sotto il cappuccetto marrone del
cappotto. Indossava un vestito bianco (o comunque molto chiaro) e un
grembiule
d’un caldo colore, un rosso simile a quello delle foglie
autunnali o delle
fiamme del camino.
Si
alzò, gettando il cappotto sulla poltrona
vicina; lì accanto, abbandonato sul vecchio e caldo tappeto,
dormiva un gatto
grigio, piuttosto avanti con gli anni.
La
ragazza lo accarezzò con la punta delle
dita, svegliandolo: quello sollevò la testa, guardandosi
attorno un paio di volte
con gli occhi ambrati, poi ritornò a dormire e a fare le
fusa.
Beth
– perché così si chiamava la ragazza-
attraversò la stanza, camminando con una tale leggerezza che
sembrava volare;
iniziò a salire le scale senza rumore, sfiorando al
passaggio un piccolo
pianoforte verticale coperto da una leggera patina di polvere.
Al
piano di sopra, si guardò un attimo attorno,
stando immobile in una pozza di luce che una finestra disegnava sul
pavimento;
quindi, si diresse verso l’unica stanza illuminata,
socchiudendo piano la
porta.
La
sorella, come ogni Halloween, dormiva, come
la nipotina che non aveva mai conosciuto; tutti, in quella notte,
dormivano e
così, per una volta, i fantasmi e gli spiriti tornavano dai
loro cari, vivendo
mentre i viventi erano abbracciati da Morfeo, che è fratello
della Morte.
Beth
rimboccò le coperte alla piccola – che si
acciambellò sotto le coperte come il gatto del piano di
sotto – e raddrizzò la
piccola gruccia appoggiata al letto.
Fu
tentata di prendere il ricamo della sorella
e continuarlo, oppure di riordinare la stanza, piegare i vestiti e
riporre
ordinatamente le medicine della bambina sul comodino , ma sapeva che a
lei non
erano concessi grandi mutamenti. Solo piccoli pensieri e attenzioni,
che ancora
una volta facevano di lei l’angelo della casa. Dopo aver
raddrizzato Giovanna
la bambola, che aveva trovato un’altra Beth con cui dormire,
e dato un bacio
alla sorella, uscì dalla stanza.
Come
ogni anno, si diresse in fondo il
corridoio, verso una piccola porticina, chiusa a chiave. Non vi si
tratteneva
mai molto, ma non riusciva mai a saltarla.
Sospirando,
passò attraverso il legno dipinto
di bianco, chiudendo gli occhi.
Questa
stanza era immersa nella penombra, in
una luce fievole ed azzurrina che filtrava dalle persiane socchiuse.
Era stata
una volta una bella e allegra camera, e ancora vi erano alcuni oggetti
che
ricordavano ancora chi vi aveva abitato: delle bambole sulle mensoline
e alcuni
libri dalla copertina semplice e lisa. Il più logoro di essi
era appoggiato su
un comodino traballante, ed era rivestito in tortora. La ragazza
sollevò la
copertina e trovò la lettera che anni prima le aveva scritto
Jo (la sua sorella
preferita, la prima che ogni anno visitava) poco prima della sua morte.
Non
si soffermò a leggere, dato che ormai
conosceva ogni singola parola di quella meravigliosa storia a memoria.
Si
sedette sul piccolo letto vicino al comodino, prendendo in mano un
piccolo
guanto: un dono che aveva iniziato a cucire per uno scolaretto
infreddolito,
prima che la malattia le facesse sembrare l’ago troppo
pesante.
Soffiò
via la polvere dal piccolo indumento, e
riprese a cucire, continuando la sua opera incompiuta.
Un
leggero colpetto le fece sollevare il viso,
volgendo gli occhi castani verso la finestra. Appoggiò il
guantino dov’era
prima e aprì le persiane.
Un
giovane la salutò dall’esterno, fluttuando
tra i rami della rosa selvatica.
Era
insolitamente magro e alla luce della luna
pareva molto pallido; da sotto il cappello di panno verde spuntavano
dei ciuffi
biondi, che ricoprivano gli occhi grigi e allegri.
Tra
le mani reggeva una piccola lanterna.
-Ciao-
le sussurrò attraverso il vetro
–Scendi?-
Beth
annuì –Arrivo subito-
Fece
un cenno al giovane e lo guardò atterrare
sul prato ricoperto di brina con un sorriso, poi chiuse le persiane e
uscì
dalla stanza, ritornando in salotto. Dopo aver preso il suo cappotto,
schioccò
le dita e il fuoco nel camino si spense, eccetto un piccolo tizzone che
continuò ad ardere, riscaldando il gatto lì
addormentato.
Si
richiuse la porta alle spalle, sorridendo al
ragazzo: -Ciao Frank- disse, le nuvolette di vapore gelido che le
uscivano
dalle labbra –Sei già passato dai tuoi?- gli
chiese, avvicinandosi.
Il
giovane si strinse le spalle: -Oltre Grace e
Kate, non ho nessun altro, lo sai. Fred è in Inghilterra. Tu
invece hai ancora
qualcuno?-
La
ragazza annuì: -Sì, ma non abita lontano-
disse, indicando con una mano la casa in fondo alla via.
-Il
vecchio Laurence?-
-Sì.
Vuoi accompagnarmi o mi aspetti qui?- gli
chiese, stringendosi nel cappotto.
-No
vengo con te- rispose il ragazzo,
prendendola sotto braccio –D’altronde, è
poco raccomandabile per una signorina
girovagare per le strade a quest’ora della sera- fece,
ironico.
Beth
gli sorrise, calandosi il cappuccio sulle
orecchie per proteggersi dal freddo.
Le
strade erano illuminate da piccoli lumicini,
simili a tante lucciole azzurrine. C’erano tanti fantasmi,
quella notte, e
ognuno portava con sé un lanternino.
Beth
salutò con un cenno un gruppetto piuttosto
pallido e sottile, composto da una donna e due bambini, che sostava
vicino ad
una vecchia casa: gli Hummel.
-Come
stanno i tuoi parenti?- le chiese Frank,
salutando anch’egli la povera donna.
-Bene,
papà è guarito. Anche le mie sorelle
sono felici. Jo è incinta del terzo bambino- rispose la
ragazza, sorridendo
felice sotto il cappuccio.
-Uhm,
così il prossimo anno ti troverai un
altro nipotino- sogghignò il ragazzo –A proposito
di nipoti…come sta la piccola
con la stampella? Non si era ammalata?- chiese, facendosi
improvvisamente
serio.
Beth
tacque qualche secondo, ripensando alla
nipotina che portava il suo stesso nome e che era come lei un essere
fragile e
debole.
-Sì-
rispose lentamente –Ma sta
guarendo…lentamente…- una lacrima le
solcò il viso.
Frank
la abbracciò goffamente, stringendola con
il braccio che non portava la lampada –Beth…-
disse solo –Non verrà…stai
tranquilla-
-Oh,Frank-
mormorò Beth –Io…voglio solo che non
sia la prossima…è così piccola, ha
solo undici anni…-
-Ehi-
sussurrò il ragazzo, asciugandole le
lacrime. La cullò un attimo, scaldandola con il suo cappotto
di feltro –Non
preoccuparti. Vivrà ancora, soprattutto con una zia come te
come angelo
custode-
Beth
sorrise suo malgrado: -Gran bell’angelo…ma
hai ragione, devo farmi forza. Per lei, almeno. Per tutti i March-
-Brava-
approvò Frank, liberandola
dall’abbraccio –Forza, quest’ultima
visita e poi andiamo. Non mi sento più le
dita dal freddo-
-Detta
da un fantasma è strano,sai?- disse la
ragazza, facendolo ridacchiare.
Oltrepassarono
ancora ridendo le siepi di un
grande giardino, trovandosi davanti all’enorme portone di una
casa ancora più
immensa.
Lo
aprirono ed entrarono in un atrio illuminato
da alcune candele, davanti a loro un’imponente scalinata di
marmo. In
lontananza, si sentiva il flebile suono di un pianoforte.
Beth
si librò ad un palmo dal suolo, seguita
dall’amico,e volò sulle scale ed oltre, arrivando
silenziosa come un uccello in
una piccola stanza circolare con un pianoforte a coda al centro.
Allo
sgabello, stava seduta una bambina di
circa otto anni, che indossava un abitino malva dall’aria
antiquata; le
sorrise, continuando a suonare una melodia familiare e dolce con le
piccole
dita d’avorio, mostrando i piccoli dentini candidi. Ne
mancava solo uno, che
non sarebbe mai cresciuto.
Beth
ricambiò il sorriso, e entro nello studio
attiguo, dove un vecchio, anziano signore era accasciato su una
scrivania di
legno scuro, addormentato.
La
ragazza gli si avvicinò, aggiustando gli
occhiali sul suo naso appuntito, dai quali stavano per cadere. Ai piedi
indossava un paio di pantofole porpora con una viola del pensiero
ricamata e
sorrideva, ascoltando la musica della nipotina perduta.
Nella
stanza vi era anche un giovane uomo,
anche lui addormentato su una poltrona di sandalo rosa: su di lui erano
chinati
due fantasmi, una signora dall’aria dolce e un uomo che era
la sua fotocopia,
dalla carnagione olivastra ai riccioli scuri.
Beth
li salutò entrambi, senza disturbarli
oltre: aveva comunque visto Laurie, che continuava a prendersi cura del
vecchio
nonno.
La
ragazza tornò nel salone, dove trovò Frank
ad aspettarla, ascoltando la piccola pianista.
-Ho
finito- gli sussurrò, per non disturbare la
bambina –Possiamo andare se vuoi-
Gli
occhi del ragazzo brillarono: -Manca ancora
un poco all’alba. Godiamoci quest’ultima canzone-
si inchinò ironicamente –Mi
concede questo ballo, signora?-.
Beth
arrossì un poco, poi prese la sua mano,
sorridendogli –Con piacere, Frank. Con piacere-
E
così si alzarono sulle note di quella musica
tranquilla, volteggiando attorno quelle grandi finestre semi coperte
dai
pesanti tendoni di velluti, illuminati dalla luce della luna.
-Mi
mancano- gli sussurrò –Ma aspetterò-
-Sì-
rispose –Anch’io.Ma con te sarà
un’attesa
più piacevole, amica mia- disse sfiorandole con le labbra
una guancia. Un gesto
di tenera amicizia.
Beth
gli sorrise come un piccolo sole:
-Aspetteremo insieme- e svanirono nella pallida luce che sorgeva
lentamente
dalle tenebre e che portava con sé le anime in quel posto
dove ci si augura di
andare.
E
dove Beth, finalmente, poteva dire di stare
bene.
Salve,
o lettore!
Spero che questa piccola one shot ti sia piaciuta. L’ho
scritta ispirandomi,
ovviamente, al racconto “Piccole Donne Crescono” di
L.M.Alcott. Nel romanzo, si
accenna solo che Frank Vaughn sia gravemente malato, ma non si parla
della sua
morte. Quindi, mi sono presa qualche libertà verso i
personaggi di questa
storia.
Attendo
recensioni di ogni tipo, sia critiche
(credo molte) che lodi (credo meno), ma tutto va bene.
A
presto!!! CIAOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!
Scribak alias Arianna F.
P.S.Come
avrete intuito,Beth è la mia sorella
preferita.