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Autore: Vala    15/07/2009    2 recensioni

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“Non ti agitare micetta, gioca un po’ con noi…” mi sussurra nell’orecchio. Furiosa nella mia impotenza, mi volto di scatto e afferro con i denti l’orecchio dell’uomo. Mordo forte. Mordo per ferire. E l’assalitore urla, si dimena, mi insulta nella sua lingua incomprensibile, ma non riesce a liberarsi. Il suo amico mi strattona con più violenza, mi urla di lasciarlo andare e minaccia di riempirmi di botte se  non faccio come dicono loro, ma io non mollo, persevero in quel gesto di ribellione. Mordo, e mordo, finché il gusto familiare del sangue non mi sgorga in bocca.
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una normale uscita tra amiche diventa qualcosa di più quando la normale ragazza sulla sua normale strada di casa si trova ad affrontare una normale aggressione
Genere: Sovrannaturale, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Sei sicura che non vuoi un passaggio?”.
“Tranquille, sono a pochi minuti, cosa volete che mi succeda?! E se mai si avvicinasse qualcuno, questo è tutto quello che otterrebbe da una povera indifesa fanciulla!”.
Mostro il pugno con aria arrogante alle mie amiche nell’Alfa che ridono di gusto. Non ho muscoli in quel braccio che agito convinta mentre la macchina se ne va in una nube di musica che disturba il vicinato, amplificata dalla voce gaia delle mie amiche che cantano il ritornello in un inglese storpiato dall’ignoranza e dall’alcol. Avrei preferito che non avessero preso la macchina quella sera data la prevista sbronza, ma per fortuna si erano premunite portando con loro l’unica amica realmente astemia del gruppo. Certa gente ha davvero tutte le fortune, penso mentre abbasso il braccio già indolenzito, e mi rilasso un po’.
Non è vero che non volevo il passaggio. Volevo fare la spavalda, l’eroina della serata che non ha paura a tornare a casa da sola di notte. In realtà un po’ di paura ce l’ho mentre do le spalle alla vettura ormai lontana della quale resta solo il vago rombare lontano e qualche acuto canoro. I miei tacchetti rumoreggiano sul marciapiede lastricato a sanpietrini, devo stare attenta che non si incastrino come quelli delle scarpe precedenti, sono nuove e non vorrei davvero essere costretta a portarle a riparare con il prezzo assurdo del calzolaio per rimettere in sesto un tacco.
Un passo dietro l’altro, canticchio tra me e me un motivetto delle pubblicità per farmi compagnia, ho lasciato il mio inseparabile lettore mp3 a casa prima di uscire quindi non ho nient’altro che la mia voce per rompere il silenzio della notte. Il mio canto sommesso, i miei tacchetti ed il crepitare di qualche luce al neon delle insegne. Proprio ora ne supero una di vestiti, la vetrina spenta con i suoi manichini vagamente sinistri che mi scrutano sospettosi. Come se fossi in vena di sfondare il vetro per dare fastidio a loro. No, non quella notte, quella notte voglio solo tornare a casa sana e salva per dormire dopo una serata in allegria e baldoria.
Alzo gli occhi al cielo per ammirare un istante le stelle. Sono belle le stelle, almeno quelle poche che si vedono. Di questi tempi non è facile a causa delle troppe luci della città. E proprio mentre penso che una luce in meno ci starebbe bene, ecco che il lampione sulla mia strada pare incerto se restare acceso o no. La luce tremula, dona un effetto sinistro alla mia camminata in solitaria, poi si spegne del tutto lasciandomi al buio proprio mentre devo passare quei metri sotto la sua responsabilità.
“Grazie tante…” mormoro continuando a guardare il cielo. Ora vedo meglio una stella che prima era solo fioca. Magra consolazione, visto che il mio cuore batte a mille per colpa di quel piccolo contrattempo. E dentro di me mi ripeto che manca poco, pochi passi e sarò a casa, che vuoi che siano cinque minuti a piedi in una strada totalmente deserta nel cuore della notte quando non ho nulla per coprire i rumori esterni che mi fanno sobbalzare ad ogni imprevisto?
Ed eccone uno proprio mentre lo penso, un rumore che non doveva esserci, ma almeno non è dietro le mie spalle. Certo che sarei più contenta se non si trovasse proprio sul mio cammino. Rallento il passo, vagamente preoccupata. Potrebbe essere qualunque cosa, un gatto magari, io amo i gatti, ma quello temo non sia un gatto. E nemmeno un’insegna o un lampione difettoso. Quella figura che avanza nell’ombra è alta un po’ più della mia statura con dotazione di tacco, ha le mani infilate nelle tasche dei pantaloni ed il volto vagamente illuminato da una sigaretta accesa il cui odore posso quasi sentire a due metri di distanza grazie alla tiepida brezza che soffia nella strada. Mi faccio coraggio. Che vuoi che sia, è solo un uomo che torna a casa di notte, un uomo come tanti altri. E io sono solo una ragazza come tante altre che torna a casa da sola nel cuore della notte dopo aver rifiutato un saggio passaggio dalle amiche.
Un respiro profondo, testa a mezza altezza, non troppo bassa per non mostrare il mio timore, né troppo alta per mostrare un coraggio ed una sicurezza che non ho. Sguardo vacante davanti a me, e via. Ce la posso fare. La sigaretta dell’uomo si spegne. È finita. Finita come il tempo prima di incrociare il suo cammino.
“Scusa, ce l’hai una siga?” mi chiede fermandomi con un sorriso quasi di scusa.
Io mi tasto le tasche dei jeans, scuoto la testa addolorata ed accenno un sorriso a mia volta.
“Mi spiace, non ne ho…” mormoro, pronta a proseguire aspettandomi di sentire il solito “come non detto” o di non sentire nulla, ma la mia speranza non è esaudita. Quella notte sono davvero sfortunata. L’uomo estrae una sigaretta dalle sue tasche, se la mette in bocca senza smettere di fissarmi, e mi ripropone un altro di quei suoi ambigui sorrisi.
“Scusa, hai fuoco?”.
Io trattengo un sospiro, getto un’occhiata distratta attorno a me, ma nessuno sta arrivando, la strada è deserta. Ancora una volta mi tasto un po’ i jeans, rifiutandomi categoricamente di aprire la borsa dove comunque non avrei accendini. Lo guardo piantandogli la mia irritazione dritta negli occhi.
“Mi spiace, non ce l’ho” dico con voce ferma e faccio un passo avanti sentendo l’odore della sua sigaretta minacciare di infilarsi nei miei capelli.
“Scusa, ce l’hai un ragazzo?”.
Allibita, io non mi giro nemmeno accelerando anzi il passo per sfuggire alla sua insistenza, ma lui non molla, cambia direzione e inizia a seguirmi ossessivo. Maledizione, ma perché non ho accettato il passaggio?!
“Beh” mi apostrofa affiancandosi con naturalezza, la sigaretta accesa ovviamente “non ti tasti per controllare stavolta?”.
“Lasciami in pace!” rispondo io stizzita cercando di lasciarmelo alle spalle, ma lui ha di certo un passo più rapido del mio che cammino su piccoli trampoli.
“Se non tasti tu, allora controllo io!” esclama l’estraneo come se nulla fosse, ed allunga una mano in direzione del mio sedere. Io che ho visto il movimento, mi volto inferocita a fronteggiarlo riuscendo ad evitare il contatto delle sue luride mani sui miei jeans attillati.
“Senti, togliti dai piedi! Non ho tempo, mi stanno aspettando!” gli dico minacciosa stringendo i pugni che prima avevo mostrato scherzando. So che se si arriverà alle mani io non avrò possibilità, ma mi rifiuto di farmi toccare da un individuo simile nel mezzo di una strada di notte.
Lui allarga le mani e me le mostra come per difendersi, ma in realtà mi sta prendendo per il culo, ha visto il mio gesto e si diverte alle mie spalle, convinto di potermi facilmente gestire. In fondo io sono solo una fanciulla da sola su una strada. E lui è un uomo. Un uomo che fa un passo deciso verso di me mentre tiene quelle mani ben alzate. E io in quel momento ringrazio che sia uomo.
Decisa, nessun rimpianto in me a frenarmi, affondo il ginocchio di parecchio nei genitali del rompiballe che si piega in due con un gemito di dolore. Ecco fatto signor maniaco, vediamo ora se ti si alza con un colpo del genere! Di sicuro stasera no! Giro i tacchi letteralmente e corro per qualche metro per allontanarmi da quell’essere viscido che osava pretendere di avere ragione su di me. Ma i miei tacchi non sono la sola cosa che risuona nella notte, sento i passi dell’uomo che mi seguono, ed il mio cuore accelera ulteriormente, cosa che non credevo affatto possibile. Come fa a reggersi ancora in piedi? Eppure l’ho preso in pieno!
“Ehi signorina! Dove scappi tutta sola dopo aver lasciato il mio povero amico da solo?”.
Merda, ce n’era un altro! Il mio braccio viene afferrato con una morsa di ferro da un altro sconosciuto ancora meno raccomandabile che con facilità impressionante mi blocca contro una delle tante serrande dei negozi chiusi della via. Porcono mentalmente, ma non c’è nulla da fare: sono in trappola. Con i tacchi non riesco a correre come vorrei, e ora che sono addirittura in due e il quasi castrato si sta avvicinando con l’aria incazzata, ho i miei dubbi che sarò in grado di uscire bene da questa situazione.
“Lasciatemi andare” dico io tentando di non far vibrare la voce in modo troppo pigolante “mi stanno davvero aspettando!”.
Ma loro non mi credono ridono, si scambiano battute in una lingua a me sconosciuta mentre il primo assalitore si massaggia il pacco per controllare le funzioni. I miei occhi notano il gesto e fissano quelle mani per me terrificanti. Ma perché non ho accettato quel passaggio? Perché devo sempre essere così maledettamente matura e coraggiosa? Sono una ragazza, non un muratore dai muscoli d’acciaio!
Il primo maniaco mi si accosta ondeggiando, forse credendo di risultare più gradevole in questo modo. Io distolgo il viso, e lui mi passa la lingua sul collo. Rabbrividisco di disgusto e tento di divincolarmi, ma la morsa dell’altro è troppo forte, troppo serrata per permettermi di fare qualunque cosa.
“Aiuto!!!” grido, la mia voce un acuto impossibile da non sentire, ma nessuno si affaccia, nessuno si interessa, tutti rintanati a farsi gli affari propri. Chi vuoi che venga a salvare una sconosciuta vittima di due maniaci che sembrano scaricatori di porto per la stazza che hanno?
“Non ti agitare micetta, gioca un po’ con noi…” mi sussurra nell’orecchio. Furiosa nella mia impotenza, mi volto di scatto e afferro con i denti l’orecchio dell’uomo. Mordo forte. Mordo per ferire. E l’assalitore urla, si dimena, mi insulta nella sua lingua incomprensibile, ma non riesce a liberarsi. Il suo amico mi strattona con più violenza, mi urla di lasciarlo andare e minaccia di riempirmi di botte se  non faccio come dicono loro, ma io non mollo, persevero in quel gesto di ribellione. Mordo, e mordo, finché il gusto familiare del sangue non mi sgorga in bocca. Lo sento colare sulle labbra, un po’ esce e va a colare lungo il mio mento appuntito, ma alcune gocce prendono la strada della lingua che si agita sentendo quel liquido caldo entrare nel mio corpo. Per una frazione la mia mente si chiede se così facendo non mi sono condannata a morte, contraendo qualche malattia come l’aids, ma che importanza può avere in un momento simile? Mordo e mordo con la rabbia di una preda messa nell’angolo, finché i miei denti non sentono che i miei denti. L’uomo continua a urlare e agitarsi, ed ecco, si stacca da me lasciandomi un pezzo del suo orecchio come ricordo. Io lo sento, lo assaggio, lo sputo a terra con orrore, vedo quel pezzo di orecchio saltellare sull’asfalto, fino allo scolo dell’acqua, e perdersi nella notte tra le fogne della strada. Ha lasciato dietro di sé una scia di sangue ed i lamenti di un uomo stupido.
Lo schiaffo mi colpisce in pieno viso, brucia la guancia e mi riporta alla realtà. Alzo gli occhi lucidi a guardarmi attorno alla ricerca di una qualche forma di vita oltre le urla dei due uomini ma nessuno si affaccia, nessuno vede. Siamo soli. E allora sul mio viso sporco di sangue osa comparire un sorrisino.
“Troia! Ti faremo uscire noi tanto di quel sangue che…” l’uomo si blocca, forse finalmente ha capito. Lento di comprendonio, troppo lento e troppo stupido.
Mi lascia andare le braccia e si allontana di qualche passo facendo segno al suo amico di andarsene, ma quello evidentemente non ha ancora realizzato e continua a insultarmi nella sua lingua fastidiosa indicando al contempo con foga la patta e l’orecchio che tenta malamente di tamponare, ma dal quale esce un rivolo costante di sangue. Il mio sorriso si allarga. Era da un po’ che non assaporavo quel gusto metallico.
Con un ultimo urlo di avvertimento, il mio secondo assalitore scappa via più veloce del vento, lasciandomi, povera e indifesa fanciulla, con il primo maniaco incazzato e desideroso di vendetta. Io tremo e mi appiattisco contro il muro cercando di non attirare la sua attenzione, ma quello si volta con due occhi iniettati di sangue e si accosta. Vuole farmi male, molto male. Impaurita, guardo le stelle e la luna che mi osservano, uniche testimoni della mia piccola tragedia da ragazza comune. Una ragazza normale…o quasi.
“Stupida puttana, ora ti taglio le orecchie!” l’uomo mi si avvicina con un coltello alla mano. Non so dove l’abbia preso e nemmeno mi importa. La luna mi sorride e questo mi basta.
Un passo. Ancora un altro passo. Ecco, ormai manca poco. Il mio sorriso si allarga e mostro alla notte le mie zanne mentre mi curvo su me stessa. Mi dispiace un po’ per i vestiti ma in fondo sono roba di poco conto, presi giusto il giorno prima in una vecchia valigia che nemmeno ricordavo di aver portato nella casa nuova. Lui non ha ancora capito, povero scemo. Nascondo le mani dietro la schiena mentre sento i muscoli guizzare potenti e gli artigli farsi strada sulle mie dita tese e tremanti per lo sforzo. Manca poco. Un altro passo. Alzo gli occhi.
“Chi è la preda?” ruggisco mentre il mio volto termina di mutare, la mascella si sposta, il naso si ingrossa, i peli spuntano prima a chiazze poi in tutto il loro splendore. Vado molto fiera del mio manto nero, mi ha fruttato parecchia notorietà all’interno del clan.
L’uomo mi guarda, non capisce subito mentre i miei vestiti si strappano mettendo a nudo il mio corpo nero fatto di potenza e fame. Gli mostro il pugno chiuso, poi lo apro lentamente davanti ai suoi occhi, un artiglio alla volta, come avevo fatto vedere la mia mano umana alle mie amiche prima di salutarle per la via di casa. Finalmente ha capito. Urla, un suono acuto, è in grado di strillare come una fanciulla impaurita molto meglio di come abbia fatto io prima. La cosa mi irrita.
Il mio ruggito irritato si alza appena nell’aria della notte, facilmente confondibile con quello di un cane di grossa taglia. Ecco il mio vero urlo, e la preda si volta e inizia a correre. Ha dato il via alla caccia. Sorrido ancora mostrando le zanne e con pochi balzi mi appresto a seguirlo. Che gusto c’è ad essere normali? Non si può fare comodamente quattro metri con un salto, non si può artigliare i lampioni per appendersi e spaventare le vittime, non si può sollevare di peso un uomo di almeno 120 chili con un braccio per scagliarlo lontano, non si può vedere lo sguardo di puro terrore negli occhi della preda poco prima di affondare i denti nelle loro carni,…davvero, essere normali è una noia.
Il sangue dell’uomo mi scorre copioso ora in bocca, lo riassaggio, è buono, ha un vago retrogusto di malto. Probabilmente è stato in una birreria prima di provare a violentare una normale ragazza per strada. Meglio per lui, si è potuto godere l’ultima bevuta. Urla ancora, che fastidio! Allungo un braccio e lo afferro per la gola rompendo quel suono che mi feriva le orecchie. Ecco, ora va molto meglio. Mmm, cos’è era questo? Fegato? Avevo giusto voglia di uno spuntino di mezzanotte…
“Non ti avevo detto di tornare subito a casa una volta lasciate le tue amiche?”.
Alzo il viso dal mio pasto e scuoto vagamente la testa per allontanare un ciuffo aggraziato di peli soffici che mi ricade davanti agli occhi color topazio. Mio fratello maggiore è appoggiato contro il lampione non funzionante, in penombra, ma i miei occhi non hanno difficoltà a scorgere la sua espressione vagamente divertita. Anche a lui non va a genio l’idea dei nostri genitori di portarci a vivere tra la gente per imparare come ci si comporta da persone civili, ma dopotutto è il volere del capobranco e noi non possiamo far altro che rispettarlo…al meglio delle nostre possibilità.
Mi alzo in piedi e riprendo il controllo delle mie membra inebriate dal cibo fresco, mi scuoto leggermente avvertendo un brivido quando l’aria fresca della sera mi accarezza la pelle nuovamente nuda della schiena. Ho fatto arrapare molti e molti licantropi con le mie trasformazioni erotiche, ma i miei parenti ormai ci sono abituati per cui non fanno caso più di tanto alle mie pose provocanti. Cammino a piedi nudi accostandomi al mio adorato fratello di sangue che so toglie la giacca per posarmela sulle spalle. È abbastanza lunga da farmi anche da gonna. Da terra recupero distratta i resti della mia cinta dei jeans e chiudo l’opera fermando il mio vestito improvvisato. Non male, magari il giorno dopo avrei potuto andare in giro così.
“Oh, non guardarmi così! Avrei dovuto farmi violentare come una comune ragazza di ritorno da una festa con le amiche?” lo provoco avendo notato l’occhiata perplessa ai resti del mio assalitore. Mi appoggio al corpo caldo del mio caro fratello che ringhia sommessamente un avvertimento, qualcuno potrebbe vederci, meglio far sparire tutto.
“Che ci vedano! Ora mettono fuori il naso?! Non ho cominciato a mordere subito, sai?! Ho chiamato aiuto prima, ho urlato e urlato ma nessuno si è intromesso! Che se ne stiano rintanati nella falsa sicurezza delle loro case, umani privi di palle!”.
Io e mio fratello ci guardiamo un attimo seri prima di scoppiare a ridere insieme.
“E va bene, principessa delle bestie, ma ora devo riportarti a casa. Il capobranco aspetta un tuo resoconto della serata…” commenta il maschio chiudendo ogni mia eventuale protesta con un bacio lieve sulle labbra imbronciate. Fine discussione. Si rientra nella nostra squallida villetta umana di periferia. Sbuffo ma non posso disobbedire mentre mio fratello si avvicina al corpo a terra privo di vita, lo solleva con tranquillità per una gamba lasciando un istante il sangue colare, poi comincia a portarselo dietro per qualche metro disegnando le tracce fasulle di una lotta con cani. Ecco, lì lo hanno sorpreso alle spalle, lì gli hanno addentato l’addome, lì è caduto a terra ed è rimasto immobile senza possibilità di scampo. Cavoli, dovevano essere ferocissimi questi cani per ridurlo in quel modo atroce! Già leggo i titoli dei giornali del mattino  e m’immagino i messaggi preoccupati delle mie amiche. Mi scappa una risatina e mio fratello lascia andare il corpo.
“Adesso basta giocare ai randagi, su!”.
Lo seguo pacifica dopo aver recuperato le scarpe che mi ero tolta diligentemente prima della trasformazione, dimenticando ben presto il corpo a terra. Una volta arrivata a casa avrei spiegato con calma cosa era accaduto al capobranco, e avrei atteso il suo giudizio. Ma dopotutto ero sua figlia e non avevo infranto nessuna regola, mi ero difesa! Non pretenderà che mi lasci violentare per la sua fissazione di ricordarmi com’è essere una ragazza tra le tante?!
La luna accompagna i miei passi dall’alto e ho voglia di ballare. Improvviso qualche movimento in mezzo alla strada con mio fratello che mi ignora bellamente camminando con la schiena dritta lungo il marciapiede. Che cane noioso! Cosa ci troveranno mai nella loro finta normalità, nel loro essere così borghesi tra borghesi? Io so a cosa appartengo, io so a cosa sono. Non si può dire lo stesso delle mie cosiddette amiche con le quali sono uscita: una fidanzata che si sta per sposare ha perso tutta la serata a parlare di un altro ragazzo che le fa il filo, un’altra secchiona sempre sui libri continua a lamentarsi che vorrebbe mollare l’università, la credente musulmana con tanto di velo si è scolata qualcosa come quattro birre e parecchi cicchetti, l’aspirante avvocato ha cominciato un’arringa sul diritto di ciascuno a farsi giustizia da solo…
“Ehi, sorella” mi chiama quando ormai manca poco a casa, i miei piedi hanno già disegnato lungo la strada tutti i passi della danza celtica di ringraziamento per permettere all’anima della preda di lasciare il mondo e non restare sullo stomaco del cacciatore “la prossima volta scegliti delle amiche meno fighette irritanti, la voglia di sbranarle mi ha quasi fatto perdere la mia aria perbene…”.
Ah, il mio caro lupo da guardia che fa solo finta di essere addomesticato! Ci guardiamo mostrandoci le zanne a vicenda, gli occhi che per un istante diventano di uno splendido giallo predatore. Normalità, che cosa inutile e fastidiosa!
  
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