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Autore: gayamatriciana    29/11/2018    0 recensioni
[Carol]
"Quando entrò, i suoi occhi cercarono subito quelli di Therese, e non appena gli sguardi si incontrarono la ragazza si sentì catapultata in un'altra dimensione. Erano occhi grigi, freddi, eppure ogni volta che li guardava, Therese sentiva un fuoco dentro di lei sciogliere e distruggere ogni parte del suo corpo, ogni angolo della sua mente, ogni cellula del suo cuore."
Note: college!AU su Carol/The Price of Salt scritta a quattro mani; il rating potrebbe aumentare pian piano.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Per mesi Therese aveva aspettato quel momento, e adesso le sembrava quasi impossibile che stesse succedendo davvero. Con la sua macchina fotografica in mano, una Nikon D7500, si avviò verso l'aula in cui di lì a poco si sarebbe tenuto il primo incontro del corso di fotografia. Per potersi permettere una fotocamera del genere, aveva dovuto lavorare part-time per i mesi estivi nel reparto giocattoli del centro commerciale. Non era stata un'esperienza che Therese ricordava piacevolmente - il suo capo, i colleghi, le urla dei bambini erano stati elementi fin troppo disturbanti per lei -, ma l'idea di mettere le mani su una reflex nuova e professionale le aveva dato la forza necessaria per non licenziarsi. 

La ragazza stava adesso camminando velocemente da una parte all'altra dell'edificio, tenendo la macchina stretta tra le mani e facendo attenzione ai suoi passi per evitare di inciampare. Il cuore le batteva a mille, ed un sorriso genuino era stampato sulla sua faccia - era forse più eccitata del necessario? Non le importava. La fotografia era la sua unica fonte di felicità, l'unica cosa al mondo che la facesse sentire fiera di sé, che la facesse sentire importante. Nemmeno Richard, il suo ragazzo, riusciva a suscitare in lei emozioni che la sola idea di scattare una foto le faceva provare. Non che fosse un'impresa tanto difficile, in realtà: Richard non era altro che un semplice passatempo per Therese, qualcuno che la facesse sentire desiderata quando si sentiva indesiderabile, qualcuno che la facesse sentire amata quando nemmeno lei stessa riusciva ad amarsi. Aveva intenzione di lasciarlo a fine anno, quando lei avrebbe finito il college. Richard era un anno più piccolo di Therese, e si erano conosciuti quando lui era al primo anno e lei al secondo. Adesso, Therese si sarebbe diplomata nel giro di pochi mesi. Non voleva ferirlo, perché in fondo teneva a lui, ma sapeva che ciò che Richard provava per lei era molto più forte di ciò che lei provava per lui. E inoltre, lei non aveva mai avuto intenzione di avere una storia seria con il ragazzo, ma non aveva nemmeno mai avuto il coraggio di dirglielo chiaramente. Le piaceva, certo, ma non come le sarebbe dovuto piacere. Si ricordava di ciò che sua madre le aveva detto riguardo a ciò che si prova quando si sta con qualcuno che si ama - le farfalle nello stomaco, il non volersi mai separare da quella persona, il senso di sicurezza che si prova - ma non aveva mai provato niente del genere nei confronti di Richard, né di qualsiasi altro ragazzo. Spesso si domandava se ci fosse qualcosa di sbagliato in lei, se la parte della sua mente o del suo cuore che si sarebbe dovuta innamorare fosse rotta o arrugginita. 

Si fermò di colpo, di fronte alla porta dell'aula 503. Chiuse gli occhi e sospirò, gli angoli della bocca ancora piegati in su. Al Frankenberg ogni tipo di passione veniva assecondata: c'erano campi sportivi, il teatro che fungeva anche da aula di musica, la cucina per il corso culinario, enormi laboratori artistici; c'era stato, un tempo, il laboratorio di fotografia, ma negli anni gli iscritti al corso erano andati diminuendo, fino alla decisione drastica del preside che lo fece chiudere. Durante gli anni precedenti, per quanto ci avesse provato, Therese non era mai riuscita a far accettare la riapertura del corso. Non c'erano abbastanza aule nella scuola, e inoltre nessuno dei docenti della scuola era specializzato, né tantomeno qualcuno degli alunni era interessato. Quest'anno, però, era arrivato un nuovo insegnante di matematica, il professor Aird, che si era offerto di aiutare Therese nella sua impresa. «È bello sapere che ci sono ragazzi al giorno d'oggi che si appassionano di fotografia... vera,» le aveva detto. «Ormai tutti pensano di essere capaci, basta un telefono cellulare con telecamera ed ecco che si trasformano in Steve McCurry.» Therese aveva riso, e il professore era rimasto stupito dal fatto che la ragazza conoscesse McCurry. Alla fine, il preside aveva concesso all'insegnante di tenere il corso di fotografia il lunedì, il mercoledì e il venerdì pomeriggio nella stanza 503, che un tempo era stata lo studio fotografico ma che ora era diventata l'aula di matematica in cui il professor Aird insegnava. In realtà, l'aula era già occupata durante il pomeriggio dalla professoressa Robicheck, l'insegnante di filosofia di Therese, che a quell'orario teneva un altro corso. La donna era però rimasta incinta e, poiché l'aula era rimasta vuota, il preside aveva acconsentito all'avvio del corso di fotografia.  

Therese bussò alla porta, e dall'interno una voce le disse di entrare. Con la mano tremolante, la ragazza girò la maniglia ed entrò. Subito venne assalita da un freddo pungente, come se miliardi di frecce ghiacciate le avessero trafitto il corpo: tutte le finestre dell'aula erano aperte, e il gelido vento invernale aveva ormai raggiunto ogni angolo della stanza. «Si gela qua dentro,» disse la ragazza guardandosi intorno. I banchi e la cattedra erano stati disposti ad anello, e su di essi si trovavano già fotocamere, quaderni e penne. Therese vide il professor Aird e altri tre ragazzi alle prese con una finestra, che pareva non volersi chiudere. 

«Therese! Eccoti! Qualcuno ha lasciato le finestre aperte. Ci daresti una mano?» 

La ragazza lasciò la macchina fotografica su un banco e corse a chiudere le altre finestre. Diede uno sguardo veloce al panorama: New York era completamente innevata. Le strade erano enormi strisce bianche, e le macchine, le persone, le decorazioni natalizie le coloravano di rosso, verde, azzurro, giallo. Therese aveva sempre adorato il Natale, e vedere la città dall'alto, incantata dalla magia natalizia, la rese più felice di quanto non fosse già. 

«Ora, come potete notare, questo corso purtroppo non è frequentato da molti studenti. O meglio, non ancora,» disse il professor Aird da dietro la cattedra una volta fatto l'appello, detto cosa avrebbero imparato durante l'anno e spiegato le basi fondamentali della fotografia. Therese si guardò intorno. Vedere così poche persone era un'enorme delusione per lei, ma era felice di trovarsi lì, almeno. «Ho pensato che potremmo farci della pubblicità.» 

Detto questo, l'uomo prese una busta da terra e la mise sulla cattedra. Sorridendo, estrasse da essa qualcosa che sul momento Therese non riuscì ad identificare: era convinta che sarebbero stati cavalletti, obiettivi, flash o qualsiasi cosa che potesse essere utile per la fotografia. Invece, il professore dispose davanti a lei e ai ragazzi una serie di cappelli rossi di Babbo Natale. Therese strizzò gli occhi confusa. 

Una volta indossati i cappelli, il professor Aird si diresse verso un armadio disposto in fondo alla stanza. 

«Bene, ecco cosa ho intenzione di fare...» disse, infilando una chiave nel lucchetto che chiudeva le ante dell'armadio. 

Aiutato da due ragazzi di cui Therese aveva già dimenticato il nome, l'uomo prese due lampade e un cavalletto e li posizionò accanto ad un telo bianco che era stato attaccato al muro. 

«Non è il massimo, ma è tutto ciò che la scuola ci ha potuto offrire, almeno per ora... Faremo dei manifesti per farci pubblicità, per invitare nuove persone ad unirsi al corso. E siccome è quasi Natale, non c'è niente di meglio di un cappello da Babbo Natale, no? Attaccheremo le foto in giro per la scuola, e sono sicuro che vedendole qualcuno avrà voglia di unirsi a noi. Che ve ne pare?» 

Therese si sentì tremendamente a disagio. «Dobbiamo farlo per forza?», chiese. 

«Ti vergogni del cappello?», rispose il professore ridendo. 

Therese scosse la testa. Il problema non era il cappello di Babbo Natale, pensò, ma l'idea di essere vista. Era abituata a stare dietro la fotocamera, non davanti. Non le piaceva pensare di essere in bella mostra, davanti a tutti. Aveva passato la sua vita cercando di mischiarsi tra la folla, lontana dai riflettori, e adesso le sembrava quasi che tutte le luci fossero d'un tratto rivolte verso di lei. 

 

Dopo un'ora, avevano scattato un centinaio di foto. Durante il suo turno per scattare, Therese si era divertita nel provare varie tecniche. Aveva usato pezzi di carta colorata come filtri, posizionandoli davanti all'obiettivo, e il risultato, per quando non la soddisfacesse pienamente, non le dispiaceva. Aveva sperimentato pose, inquadrature, luci diverse, ed era senz'altro quella che si era più cimentata nel compito. Non era una cosa che faceva spesso, fotografare le persone. Le pareva scortese immortalarle, quasi come se si insinuasse nella loro vita senza il loro permesso. Stavolta, però, era diverso. Stavolta stava fotografando non più per piacere ma per dovere, e per quanto si trovasse in difficoltà nel catturare immagini di persone, sapeva che avrebbe dovuto farlo perché era ciò che le era stato chiesto. 

Una volta finito, i ragazzi si misero a guardare le fotografie, ridendo o esclamando rumorosi «Questa eliminiamola!» ad ogni nuova immagine. Le foto scattate da Therese furono quelle che ricevettero più complimenti tra tutti, e lei si sentì incredibilmente soddisfatta di se stessa. Non le importava molto di ciò che gli altri pensavano di lei, ma un solo commento negativo sulle sue fotografie aveva il potere di distruggerla completamente. Sorrise all'approvazione dei suoi compagni e del professor Aird, cercando però di non mostrare troppo la sua soddisfazione: non voleva sembrare una persona piena di sé. Poi, però, sullo schermo della macchina, davanti a Therese apparve la sua immagine che la fissava. La ragazza sentì formarsi, alla base dello stomaco, un enorme e pesante nodo. Gli occhi che la guardavano erano scuri, grandi, e su di essi si leggeva un grande senso di disagio. La sua faccia, pallida e troppo magra, le sembrava la faccia di una persona malata. La bocca era increspata in un leggero sorriso finto - Non so sorridere nelle foto!, aveva ripetuto più volte - e i capelli mori le cadevano sul volto spenti, come morti. L'evidente contrasto con il tono di allegria che proveniva dal cappello poggiato sulla sua testa dava alla foto una lettura quasi ironica, come se ci fosse un significato di fondo che andasse oltre il semplice "Unisciti al corso di fotografia!". Therese arricciò il naso in segno di dissenso nei suoi stessi confronti. La foto non le piaceva affatto. 

Si girò di scatto, raggiunta da un pensiero a cui non aveva fatto caso fino a quel momento. 

«Che ore sono?» chiese, porgendo la macchina fotografica alla ragazza seduta accanto a lei. 

Il professor Aird diede uno sguardo veloce all'orologio da polso. «Sono le cinque e venticinque,» rispose. 

Therese sospirò. «Devo andare,» disse, alzandosi e riponendo frettolosamente tutto il materiale, fotocamera compresa, nella sua borsa. 

In cinque minuti avrebbe avuto la prima lezione di filosofia con la nuova insegnante che avrebbe fatto da supplente alla professoressa Robicheck durante il periodo di gravidanza, e non aveva intenzione di arrivare in ritardo. Salutò con un gesto della mano i suoi compagni e il professor Aird, e poi si mise a correre per i corridoi della scuola nonostante sapesse che, se fosse stata vista, sarebbe stata sgridata. Therese odiava correre, odiava sentire il cuore batterle così forte, il sangue pulsarle nelle vene, il fiato mozzato, la stanchezza nelle gambe; ma cercò comunque di correre il più velocemente possibile, perché non voleva fare una brutta figura il primo giorno. L'aula di filosofia si trovava al piano inferiore, e Therese si mise a saltare gli scalini ora due a due, ora tre a tre, rischiando di cadere più volte. Ogni giorno malediceva quell'edificio e la sua grandezza. Erano passati quattro anni, ma le capitava ancora di perdersi al suo interno. 

Con tre minuti di ritardo, Therese aprì la porta di scatto, ansimando. Una volta entrata, però, si rese conto di aver corso per niente e rise tra sé e sé: l'insegnante era più in ritardo di lei. La professoressa Robicheck era conosciuta per la sua puntualità e per le punizioni che dava a chiunque arrivasse in ritardo, e Therese ringraziò chiunque l'avesse messa incinta per aver permesso che la donna non fosse presente in quel momento, perché non aveva intenzione di passare un'altra ora a sistemare i fascicoli in biblioteca. La ragazza si diresse verso il suo banco lentamente e si lasciò cadere sulla sua sedia, stanca. Aprì la borsa e tirò fuori il quaderno, il libro di filosofia e l'astuccio. Si mise a scarabocchiare sulla pagina a righe del quaderno in attesa che la supplente arrivasse. Per quanto la Robicheck non le andasse a genio, Therese non aveva voglia di cambiare insegnante durante l'anno, soprattutto dopo aver passato gli anni precedenti con la stessa professoressa ed essersi abituata al suo modo di insegnare. Iniziò a picchiettare la penna contro il tavolo, mentre con l'altra mano si teneva la testa da sotto il mento. Alcuni suoi compagni di classe erano seduti sul davanzale della finestra, altri erano in piedi vicino a loro, altri ancora erano seduti sui banchi, e tutti insieme stavano parlando di un qualche film uscito da poco che anche lei aveva visto. Therese entrò nella conversazione, ma si sentì comunque estremamente estranea. Era una sensazione strana, perché nonostante fosse circondata da amici e persone che conosceva e che la apprezzavano, non si sentiva vista o sentita. Era una sensazione che provava da sempre, e pur essendoci abituata ogni tanto non riusciva a non farci caso e a non sentirsi lontana anni luce da chiunque le stesse accanto. 

La maniglia della porta girò, facendo un lieve rumore inconfondibile che tutti riconoscevano come allarme per avvisarli di chiudere la bocca e mettersi a sedere. Per quanto fosse irritata dall'idea di una nuova professoressa, Therese era anche curiosa di sapere chi sarebbe stata la persona che per quei prossimi sei mesi le avrebbe insegnato filosofia. Si sedette dritta, la schiena contro la sedia, le mani riposte educatamente sul suo banco in terza fila. La porta si aprì, e un odore di fumo misto ad un profumo delizioso che Therese non riuscì ad identificare invasero la stanza. La donna che apparve di fronte ai suoi occhi era alta, il corpo slanciato e ben proporzionato, i capelli biondi e mossi alle punte. Gli occhi erano grigi, ma al tempo stesso profondi e ipnotici, le labbra rosse e carnose. Indossava scarpe nere, un paio di pantaloni eleganti a quadri, una giacca nera, una camicia bianca leggermente sbottonata e un pesante cappotto d'epoca color seppia. Alle mani portava guanti di pelle che si sfilò subito, rivelando delle mani curate, le unghie ben limate ricoperte da uno smalto rosso, un anello al dito anulare sinistro e braccialetti ad entrambi i polsi. La donna aveva un fascino fuori dal comune. Therese la guardò dalla testa ai piedi più e più volte, respirando profondamente. I suoi polmoni avevano ormai assorbito il profumo dell'insegnante, e adesso alla ragazza, che non lo aveva mai sentito prima, sembrava quasi un odore familiare. I loro sguardi si incrociarono. Therese deglutì a fatica, catturata da quel grigio dominante e calmo di fronte a lei, che la intimoriva ma che al tempo stesso la attirava a sé. Per quanto ci provasse, non riusciva a distogliere lo sguardo dai suoi occhi, e a sua volta la donna la fissava con un'espressione che la ragazza non riusciva a decifrare. Tutto intorno a loro si era fermato, i rumori erano ovattati e l'unica cosa che riusciva a sentire era il battito del suo cuore, il sangue nelle orecchie; il freddo invernale che si era insediato nel corpo di Therese si era trasformato in un fuoco che la fece arrossire. Dopo pochi secondi, o forse dopo un'eternità, la donna distolse lo sguardo e Therese chiuse gli occhi e scosse la testa impercettibilmente. Si guardò intorno velocemente: la sensazione che aveva provato poco prima era sparita, e tutto era tornato alla normalità. 

La donna si passò la mano tra i capelli per poi sedersi sul bordo della cattedra a gambe accavallate, posando i guanti accanto a lei. Therese la guardò, quasi sperando in un altro contatto visivo, ma l'altra si mise a rovistrare nella sua borsa, per poi tirare fuori un foglio. 

«Buongiorno,» disse, guardando il pezzo di carta. 

Therese sospirò. La voce della donna era profonda ma morbida, e l'effetto che ebbe sulla ragazza era qualcosa che lei mai aveva provato prima. Non riusciva a spiegare cosa stesse succedendo, ma si sentiva completamente catturata dalla donna che le stava davanti. 

Si presentò. Disse di essere la professoressa Aird - e qui, Therese si domandò se fosse parente dell'insegnante di matematica -, di essere la supplente di filosofia, di avere appena iniziato ad insegnare e di non vedere l'ora di cominciare. Disse tutto questo con il solito tono calmo con il quale aveva salutato gli alunni, ma Therese riuscì a percepire una certa agitazione nella sua voce. La professoressa sorrideva leggermente, e mai come in quel momento Therese aveva avuto voglia di scattare una foto ad una persona: voleva ricordarsi quell'espressione, quel sorriso, quello sguardo per sempre. 

La professoressa Aird disse poi che, prima di iniziare, avrebbe dovuto fare l'appello. Iniziò a leggere i nomi dal foglio che aveva preso, e i pochi secondi che separavano il primo nome dal suo le parverò un'eternità. Voleva solo che la donna pronunciasse il suo nome. 

«Belivet... Therese,» fece, sorridendo confusa. 

Gli occhi di Therese si illuminarono, e la ragazza trattenne un sorriso a fatica mentre alzava la mano. «Presente.» 

La professoressa alzò lo sguardo, e di nuovo i loro occhi si incontrarono. Therese sentì un brivido veloce percorrerle la schiena. La bionda annuì, e poi abbassò di nuovo lo sguardo sul foglio, la bocca leggermente piegata verso l'alto. Prima di procedere con il nome successivo, però, guardò di nuovo la ragazza. Si indicò la testa e le disse qualcosa, sussurrando. 

«Mi piace il cappello.» 

In quel momento, Therese si rese conto di stare ancora indossando il cappello di Babbo Natale che aveva usato per la lezione di fotografia. Se una qualsiasi altra persona glielo avesse fatto notare, se lo sarebbe tolto subito. Ma le aveva detto "Mi piace il cappello", glielo aveva detto lei. Decise di tenerlo fino alla fine. 

 

Durante la lezione, i loro sguardi si incrociarono spesso, ed ogni volta per Therese era come la prima volta. Il suo intero corpo pulsava ad ogni singolo contatto visivo, e si rese conto che mai con la Robicheck aveva condiviso così tanti sguardi. Therese aveva scelto di stare in terza fila proprio per questo motivo: era il posto migliore per passare inosservati. Eppure, gli occhi della Aird cadevano spesso sui suoi, quasi come se si cercassero a vicenda. Therese rinunciò a prendere appunti per poterla guardare, dicendosi che li avrebbe chiesti a qualche compagno di classe a fine lezione. La voce dell'insegnante era come il miele e come una tempesta allo stesso momento. L'argomento era Kant, un ripasso delle lezioni precedenti, un argomento che Therese sapeva a memoria e che ormai la annoiava, ma il modo in cui la professoressa Aird ne parlava, le parole che usava, il tono della voce fecero pensare a Therese che avrebbe potuto ascoltarla parlare dello stesso argomento per ore senza mai stancarsi. 

La lezione finì troppo velocemente per Therese, che si ritrovò da un momento all'altro sola con la professoressa nella classe. La donna era piegata sulla sua borsa, riponendo con cura i fogli e i libri al suo interno. Therese si sentì completamente congelata, intimorita quasi. Cosa avrebbe dovuto fare? Parlare? Uscire? Alla fine, non riuscì a fare nessuna delle due cose. 

«Che razza di nome è Belivet?», chiese ad un tratto la professoressa, girando la testa verso Therese. 

La ragazza rimase sorpresa, forse dal fatto che la Aird si ricordasse il suo cognome, forse dal fatto che le avesse parlato. 

«È ceco. Originariamente-», iniziò a spiegare, alzandosi dalla sedia e mettendo in ordine il banco. 

«È molto originale,» la interruppe lei. 

«E qual è il suo, di nome?» chiese Therese, spinta da un coraggio di cui lei stessa non era a conoscenza. 

Si avvicinò alla cattedra. 

«Carol. Ti prego, non chiamarmi Carole! E a te, Therese? Come piace pronunciato il tuo nome?» 

Le sorrise. A parte loro, la stanza era vuota, questa volta davvero. Non c'erano altri rumori oltre alle loro voci. Quella sensazione si impossessò di nuovo di Therese, la sensazione che al mondo ci fossero solo loro due. 

«Come lo pronuncia lei.» 

Carol rise, e Therese pensò che la sua risata fosse il suono più bello che avesse mai sentito. Si passò di nuovo la mano tra i capelli, in un gesto che ipnotizzò la più giovane. Una volta chiusa la borsa, la donna si avviò verso la porta. Passò accanto a Therese, e la sfiorò leggermente con la spalla. La ragazza sentì la pelle sotto i vestiti bruciare nel punto in cui Carol la aveva toccata. 

«Beh, alla prossima, Therese Belivet 

Therese rimase bloccata sul posto, in piedi, le dita strette intorno alla tracolla della borsa. Non si voltò a guardare la donna. Non la seguì. Sentì però i suoi passi allontanarsi, l'odore di fumo unito al profumo farsi sempre meno percettibile, e le parve che la stanza fosse d'un tratto diventata più fredda. Stette ferma per qualche secondo, incapace di muoversi, di parlare, di pensare. Fissò la lavagna sulla quale, con una scrittura ordinata e curata, Carol aveva appuntato dei concetti importanti. Riusciva ancora a vederla davanti a lei, il pennarello nero in mano, i movimenti precisi del polso, la voce che spiegava ciò che veniva scritto. I suoi occhi caddero sulla scrivania, dove si trovavano ancora i guanti che Carol si era tolta all'inizio della lezione. Therese li guardò per qualche secondo, indecisa su cosa fare. Poi li prese con cautela, come se nelle sue mani si trovasse qualcosa di vivo, e li mise nella borsa, vicino alla macchina fotografica. Glieli avrebbe portati. L'avrebbe cercata e le avrebbe portato i guanti. Per qualche secondo, si domandò se Carol li avesse lasciati lì di proposito, in modo che Therese potesse renderglieli, ma poi sospirò e scacciò quell'idea dalla sua testa. Andiamo, Therese, pensò tra sé e sé, uscendo dall'aula e chiudendosi la porta alle spalle. 

   
 
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