Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: AriCalipso    21/12/2018    1 recensioni
-…Perciò, se ciò che mi hai appena detto è vero e ci credi fortemente, allora ti scongiuro Marianne, sii quella metà che mi completa, sii quella persona in grado di tirarmi fuori da questa pazzia, perché davvero, da solo, non ce la faccio più -mi supplicò, lasciando scorrere le gocce di pianto, depositatesi prima nella parte bassa dell’occhio, in attesa del momento opportuno per poter salpare. (Piccole correzioni apportate)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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~Promise~

 

 

 

"Il soldato Leadswood

È atteso nell'ufficio del Capitano,

urgentemente".

Colpita. Affondata.

Non l'avrei passata liscia, non stavolta, ma del resto era giusto così. Me lo meritavo.

Quella calligrafia perfetta e comprensibile parlava chiaro, le lettere definite, inequivocabilmente leggibili e precise decoravano la pergamena, senza macchiarla ulteriormente di correzioni o quant'altro. Era tutto scritto in maniera così impeccabile, da far venire i brividi.

Il messaggio era arrivato. L'ordine doveva essere eseguito.

La rilessi giusto due o tre volte, inutilmente, non sarebbe servito per mutare il contenuto del messaggio.

Un turbinio di supposizioni e pensieri invase la mia mente, potevo sentire le tempie quasi scoppiare. Era chiaro che di lì a poco avrei dovuto preparare le mie cose e lasciare il Corpo di Ricerca, buttando all'aria anni di addestramento, sacrifici fatti, sangue e sudore versato per riuscire a diventare la migliore. Il tempo passato insieme agli altri cadetti, aiutandoli nel perfezionare l'utilizzo del Movimento Tridimensionale, a ricercare la giusta combinazione tra velocità ed un buon colpo assestato, rubare con gli occhi da chi ha più esperienza di te, provare nuove strategie e comprendere se potessero essere davvero utili ed efficaci; tutto questo lo sentii svanire, solo leggendo quelle tre righe, divenne come fumo, prima denso e appariscente, ma che poi si dissolve nell'aria fino a mimetizzarsi a tal punto da divenire invisibile, irriconoscibile, dimenticato. Per non parlare poi dei legami instaurati con gli altri, i miei compagni, la famiglia che mi ero costruita, l'unica rimasta e che mi dava un motivo in più per continuare ad andare avanti ogni singolo giorno, nonostante la stanchezza si pronunciava sempre più, succhiando via qualsivoglia energia vitale, prosciugando il midollo, fino all'ultima goccia. Le perdite subite erano ormai impossibili da contare, troppi corpi mutilati e senza vita passarono davanti agli occhi, facendomi perdere un battito per ognuno di loro, obbligandoti a trattenere le lacrime per non far trasparire nessun segno di fragilità, perché non puoi permettertelo, non devi permettertelo, nonostante in quel momento la testa è pervasa di mille e mille dubbi, cerchi di trovare una motivazione valida del perché continuare questo sterminio, pensi che forse sarebbe meglio smettere e diventare preda degli eventi, affidando tutto al caso, ma poi, solo quando alzando lo sguardo vedi i visi di coloro rimasti in vita, capisci che abbiamo, tra le mani, ognuno la vita dell'altro ed è questo l'unico barlume di speranza che ti fa andare avanti.

Non volevo perdere tutto questo, ma me lo meritavo, oh sì che lo meritavo.

Ripiegai con cura il messaggio del Capitano, seguendo minuziosamente le plissettature lasciate dalla carta. La poggiai sul tavolo in legno truciolato, vicino al piatto sporco della cena, precedentemente consumata. Facendo una lieve pressione con i palmi, mi alzai e scavalcai agilmente la panca su cui sedevo. Ero consapevole di lasciare incustodita la pergamena, ma del resto tutti sapevano cosa fosse successo e, allo stesso modo, si immaginavano chi fosse il mittente della missiva; e poi non c'era nessun segreto tra me ed i miei compagni di squadra, non ve ne era motivo. La fiducia era la prima cosa insegnata da Shadis, non solo verso noi stessi, ma anche quella riposta negli altri, del resto o decidevi di fidarti, oppure potevi dire addio alla vita e, viste le circostanze, nonostante fossi in un primo tempo restia a riguardo, non ebbi scelta. Era difficile abbassare la guardia verso altri esseri umani, specie in momenti come questi, non potevi mai sapere quale male intenzionato ti si palesasse davanti all'improvviso, dal piccolo ladruncolo che necessitava di un pezzo di pane alla banda di ragazzi pronti a fare qualche bravata adolescenziale, dal maniaco in astinenza da mesi e mesi, al pauroso di turno che implora in ginocchio l'aiuto di qualcuno; ma stando ventiquattr'ore intense a contatto con gli altri cadetti, osservando i loro modi di fare, ascoltando le loro teorie sul mondo e ideali, vedendo come non esitavano a porgere la mano ad un compagno ferito, nonostante il giorno prima avessero risolto un presunto litigio con una rissa, cominciai a schiavare i lucchetti che incatenavano il mio cuore, rimuovendo un tassello del muro emotivo volta per volta, riscoprendo quella fiducia nell'essere umano, che tanto mi ero negata.

Mi avvicinai all'uscita della sala dove eravamo soliti consumare i pasti, accompagnata dagli sguardi attenti e silenziosi degli altri soldati. Li sentivo i loro pensieri, forti e chiari nella mia mente, erano spaventati, intimoriti, rabbiosi e vendicativi, insomma un miscuglio di sentimenti che entravano ed uscivano ad intermittenza, bisbigliandomi qualcosa. Mancava solo una decina di passi, poi avrei fronteggiato il mio destino da sola, come era giusto che fosse.

-Possiamo accompagnarti? -chiese Connie timido ed impaurito. La sua premura mi rasserenò il cuore, tuttavia, mi fermai sullo stipite della porta, dando loro le spalle e scossi il capo, abbastanza da far ondeggiare i capelli rosso ciliegia disegnando un visibile "no".

-Ne sei sicura? Siamo pronti a prendere le tue difese, qualsiasi cosa accada -rispose Jean, battendo violentemente un pugno sul tavolo, facendo rovesciare un bicchiere mezzo vuoto.

Mi voltai verso di loro, allungando il lato sinistro della bocca a formare un piccolo e nascosto sorriso. Avrebbero rischiato la vita, contrastato il volere di un loro superiore, tutto per tenermi lì, ma non potevo permetterlo, non avrei mai usato la loro innocenza.

-Non ce n'è bisogno, davvero, del resto non vorrà restare senza il suo miglior soldato, non trovate? -mentii, cercando di non far tremare la voce, inventando un tono deciso e convincente. Ma chi volevo prendere in giro? Di certo non loro e tantomeno me stessa. Sapevo benissimo quali fossero le conseguenze delle mie azioni azzardate e che sarei stata punita in maniera esemplare, dinanzi agli occhi di tutti i miei compagni, i quali dovevano prendere il mio castigo come monito a non disobbedire mai agli ordini di un superiore, pur se non condivisibile con le proprie idee e strategie. Nonostante lottassimo per liberare l'umanità da una razza che ci stava portando all'estinzione, uccidendo ogni singolo giorno innumerevoli vite innocenti e non, senza badare a condizioni sociali, sesso e razza, all'interno dell'Armata Ricognitiva tutte le nuove reclute dovevano sottostare a disposizioni e comandi di chi aveva un grado superiore al proprio, pur se non concordi con quanto impartito, poiché totalmente discordanti con altrui principi ed ideali. Molto spesso ci si ritrovava ad eseguire ordini scomodi, che purtroppo prevedevano il lasciar indietro chi fosse rimasto in balia delle grinfie di un gigante, per ridurre le perdite ed il numero dei feriti, talvolta era necessario continuare a cavalcare verso la meta prestabilita, udendo le grida strazianti dei tuoi , mentre venivano mutilati, amputati dei loro arti, si riusciva perfino a percepire lo scorrere incessante del caldo sangue che, di lì a breve, sarebbe divenuto l'unica traccia rimasta della vittima. In momenti come quelli capivi quanto tu potessi essere impotente dinanzi ai titani, come fosse essenziale continuare a migliorarsi, esaurire le proprie energie negli allenamenti, gettarti a terra sfinito ed esausto, con il solo scopo di essere il migliore, la spalla d'appoggio per i più deboli, con la speranza di poterne salvare almeno uno in più, nella prossima spedizione. Alcuni ordini erano davvero brutali, quasi che ti inducevano a pensare che, chi ti stesse comandando, non fosse del tutto umano e che il suo unico scopo fosse quello di utilizzarti come carne da macello, per potersi salvare la pelle. Continuare ad avere fiducia nei tuoi superiori era la parte più insidiosa e difficile da eseguire, loro non potevano capire cosa si potesse provare nell'assistere alla morte dei proprio compagni, solo perché era stato ordinato di non contrattaccare; queste erano tante supposizioni fatte, dette e ridette dagli altri soldati, i quali però si dimenticavano sempre di un piccolo particolare, ossia del passato dei nostri caposquadra. Anche loro furono delle reclute, dei cadetti, dei soldati di ordine inferiore; loro, come tutti noi, dovettero allenarsi duramente, fare sacrifici e, allo stesso modo, affrontare ed eseguire comandi impartiti dall'alto, per quanto non condivisibili alle volte, ma strettamente necessari. Tutti loro avevano subìto delle perdite importanti, alcuni anche recentemente, molti avevano esternato le proprie paure, fragilità, la stanchezza regnava quasi imperturbabile tra i veterani dell'Armata Ricognitiva, sfiniti dal susseguirsi degli eventi, mortificati per aver perso soldati che non erano riusciti a riportare alla base, nonostante avessero dato loro determinati ordini, eppure in certi casi andavano fatte delle scelte: perdere uno per riuscire, almeno, a salvarne di più; in realtà cercavano solo di proteggere tutti quanti noi.

Eppure, quel giorno fui proprio io disobbedire, a fronteggiare un mio superiore, per non aver eseguito un comando impartito e stavo andando a pagarne tutte le conseguenze. Non riuscii a tenere a freno ciò che si scatenò in me non appena udii il comando del Capitano, per quanto mi sforzassi di tenere a bada il voler prevalere dei miei pensieri e supposizioni, quella volta non potei contrastarli. Erano rimasti sopiti tanto a lungo che bramavano vendetta, desideravano affermarsi violentemente, peccato che la loro prepotenza non fece che aggravare la situazione. Nonostante fossi consapevole di aver peccato di insubordinazione, mentre mi facevo strada verso la mia condanna, continuava a rimbombarmi in testa il suo ordine e, a distanza di tempo, le mie supposizioni ed i miei principi continuavano a darmi man forte, battendomi le mani sulle spalle, in segno di aver fatto la cosa giusta.

Non era tanto la punizione che mi spaventasse in quel momento, sicuramente avrei passato il resto della settimana a rassettare l'intero casolare, facendo attenzione a non lasciare nessun briciolo di polvere, neppure sotto i tavoli della zona pranzo; in aggiunta a ciò, prevedevo un aumento delle ore di allenamento, intensificando il corpo a corpo e l'utilizzo del Movimento Tridimensionale, il tutto si sarebbe conclusione con una riduzione della razione di cena e colazione. Sebbene avessi ipotizzato di dover fare i bagagli e tornarmene dal nulla da dove provenivo, restando vittima e preda dei giganti che ormai scorrazzavano liberi nel mio villaggio, la mia parte razionale decise di dar una svegliata a quella emotiva, chiedendole bruscamente di smetterla di fantasticare in maniera melodrammatica e plateale, non c'era tempo per queste sceneggiate, lo sapevano tutti, perfino la modestia in persona ammetteva che io fossi una tra i miglior soldati del 104° Corpo di Addestramento Reclute, nonché soldato del Corpo di Ricerca.

Non era l'accettare la sentenza, ma dover fronteggiare a tu per tu chi amavo, questo mi faceva aumentare i battiti cardiaci, intensificando l'afflusso di sangue ai muscoli, visibilmente contratti ed in tensione, per non parlare poi di come sentissi un ammasso di rocce, depositarsi pesantemente all'altezza della bocca dello stomaco, suscitandomi ansia e paura allo stesso tempo.

All'inizio pensai fosse solo una piccola cotta, quelle che normalmente si prendono per i ragazzi taciturni e tenebrosi, per quelli che si celano sotto un alone di mistero per non scoprirsi agli altri e mostrarsi più accattivanti ed irraggiungibili; pensai davvero fosse solo un'infatuazione che si sarebbe risolta nel giro di qualche mese, come solitamente accade, avrei iniziato a prendere consapevolezza che una relazione del genere fosse impensabile ed allo stesso tempo impossibile, oltre al fatto che, senza ombra di dubbio, io non ero assolutamente il tipo di ragazza che potesse mai interessargli, tante ce ne erano più sensuali, intriganti e belle di me. Ero davvero sicura fosse solo un abbaglio, un momento; il fatto è che ogni giorno cominciai sempre più ad innamorarmi del modo con cui osservava i nostri allenamenti, controllando come eseguivamo gli spostamenti ed il combattimento corpo a corpo, correggendo il più delle volte, il modo con cui impugnavamo le armi, mostrandoci modi più efficaci, incisivi e mortali. Mi innamorai del suo spostarsi tra i tetti della città, del suo volare di ramo in ramo, come tutto questo fosse qualcosa che conoscesse chissà da quanto tempo ormai, sembrava lo facesse da sempre; lanciava un rampino in un punto ben preciso, per poi ritirare il cavo all'interno del marchingegno, raggiungendo una distanza tale da restare quel minuto sospeso nell'aria, per poi ripetere la stessa operazione. Conoscevo a memoria il modo con cui osservava un gigante e si preparava ad ucciderlo: solitamente piegava leggermente il ginocchio destro, prima di darsi lo slancio per raggiungere l'abominio, dopodiché recideva le caviglie del titano con dei colpi ben assestati, impedendogli la fuga, toccava poi a polsi e spalle, tagliando minuziosamente i fasci muscolari della bestia, non consentendogli altri movimenti avventati, solo allora, quando era sicuro di averlo immobilizzato, si levava nell'aria e, prendendo velocità, iniziava a roteare, tenendo le lame una come ci insegnò Shadis, mentre l'altra decorreva parallelamente al terreno, ciò gli permetteva di aumentare la rotazione, nonché di penetrare più affondo nella nuca del gigante. Tutti questi trucchi li aveva sperimentati da solo, allenandosi fino allo stremo delle sue forze, non a caso era conosciuto come il soldato più forte dell'umanità.

Il suo essere così maniaco dell'ordine e della pulizia, la meticolosità con cui ripuliva le armi con il suo fazzoletto che, prontamente si preoccupava di lavare una volta tornati alla base, l'irritabilità che suscitava in tutti noi quando riusciva ad individuare l'unico angolo rimasto sporco, per la difficoltà nel conciliare tempo e precisione, quasi fosse più difficile di combattere i giganti uno ad uno; insomma tutto questo mi fece innamorare di lui, i suoi silenzi, le parole non dette ma pensate e ripensate, gli sguardi lanciati e poi ritirati, tutto, davvero tutto.

Poggiai una mano sulla ringhiera in legno truciolato, per poi salire uno scalino per volta, con una lentezza quasi disumana. Non era da me perdere tempo, specie dopo essere stata convocata in maniera urgente dal Capitano, ma dovevo guadagnare terreno per poter frenare le emozioni, le quali se la stavano spassando al solo pensiero che di lì a poco avrei varcato la soglia dell'ufficio di Levi Ackerman. Sentii delle piccole schegge depositarsi sul palmo della mano, tanto era umido e bagnato da riuscire a catturare tutte quelle piccole particelle su di esso. Provai a sfregare le dita le une contro le altre, con la vana speranza di poterle asciugare almeno quel poco necessario, spalmandole per bene sui pantaloni della divisa; il lavoro fu pressoché inutile, dato che cominciarono a sudare ancor più di prima. Mi misi a contare i tempi di inspirazione e quelli di espirazione, cercando di incanalare tanto più ossigeno possibile per avere la mente fresca, ma soprattutto libera da qualsivoglia pensiero emotivo e sentimentale, che non vedeva l'ora di palesarsi nell'esatto momento in cui avrei varcato la porta dell'ufficio.

Nascondere i sentimenti era facile quando c'erano le mie compagne a sostenermi ed appoggiarmi. Ovviamente mentire su ciò che provassi era, in prima battuta molto stupido ed infantile, dopo tutto il tempo passato nella stessa stanza, sul campo di battaglia e d'addestramento, ognuna conosceva le debolezze e le virtù delle altre, i difetti ed i pregi, vennero accolti sebbene non sempre tollerati, i segreti e le confessioni erano ormai all'ordine del giorno, regalandoci quei momenti di relax tanto sognati durante la giornata; in secondo luogo avere il sostegno di qualcuno era sempre meglio che non averlo per niente, malgrado mi prendessero in giro tutte le volte che il Capitano passava in rassegna su ogni coppia, controllando se stessimo eseguendo i movimenti nel modo corretto, lì le risatine e gli occhiolini erano un classico, per non parlare poi dei colpetti di spalla, ricevuti mentre eravamo impegnati a tenere una riga compatta e precisa, osservandolo nel suo andare avanti ed indietro, nell'intento di spiegare su cosa si basasse l'allenamento del giorno. Le acrobazie che dovetti fare per non mostrare il rossore del viso furono a dir poco esemplari, la nonchalance con cui mi coprivo le guance grazie alla mantella verde, portata con tanta rapidità all'altezza del naso, quasi da provocare una folata di vento, divertivano e non poco le mie compagne, ma del resto avevo trovato il giusto compromesso per potermi guadagnare il loro appoggio e lealtà; ricordo ancora come risolvettero quell'episodio in cui un soldato si avvicinò a noi, borbottando ed imprecando contro Levi, colorandolo di insulti molto ambigui e riluttanti, se non fosse stato per la loro dialettica e capacità di cambiare repentinamente il discorso, probabilmente mi sarei ritrovata, in primo luogo ad essere continuamente presa in giro dagli altri per la cotta appena rivelata pubblicamente, in seconda mandata quel rompi scatole avrebbe passato i restanti sei mesi, moribondo sul letto d'ospedale.

Finii di salire la rampa di scale, arrivando finalmente al piano superiore. Da lì, imboccai il corridoio sulla destra. Era completamente deserto, quasi da far venire i brividi, un silenzio che da troppo tempo non riuscivo a percepire, visto i recenti avvenimenti ed il trambusto che regnava dentro la base; assecondai quella quiete caratteristica della zona, cominciando a spostare il peso del corpo sulle punte dei piedi, flettendo leggermente le ginocchia per facilitare i movimenti in avanti delle gambe. Sembravo un ubriacone che, a mala pena, riesce a capire dove si trova e, goffamente, ondeggia, avanzando. Ero talmente poco abituata a tutta quell'assenza di rumore, che il solo pensare di sentir il tacco dei miei stivali rimbombare sul pavimento, potesse in un certo modo risvegliare qualche belva od abominio rinchiusa e nascosta nell'androne, pronta ad assaporare la propria preda. Da dove mi trovavo, non si sentiva neppure il martellare della pioggia incessante, che cadeva copiosamente, come a voler penetrare all'interno della dimora, inondandoci della sua violenza, ripulendo ogni minima traccia di pensiero, dubbio, rimasto lievemente sulla cute. Nulla, solo io, quella porta ed il silenzio glaciale.

Feci un respiro, gonfiando a pieno i polmoni, ne avevo bisogno. Alzai la mano destra serrata in un pugno, aspettando di colpire la porta di color mogano, unico ostacolo a separarmi dal patibolo. Il cuore cominciò ad accelerare i battiti, quasi volesse uscire dal petto e scappare il più lontano possibile. Potevo sentire le vene pulsare violentemente, tanto dovevano contenere la violenza con cui stava giungendo il sangue a riempirle. Il cervello e la ragione, sua fedele alleata, misero in moto tutti i neuroni necessari, agganciando e facendo partire sinapsi tra l'uno e l'altro, per cercare di stabilire una lucidità, che non ne voleva proprio sapere di palesarsi, troppo difficile emergere in mezzo a quel vortice emotivo e sentimentale.

-Entra Leadswood -ordinò la voce ovattata dall'altra parte. Sgranai gli occhi, incredula e allo stesso tempo meravigliata. Possibile che fosse in grado di percepire i miei passi, nonostante l'impegno nel renderli il più felpati? Evidentemente ero un pessimo felino. Oppure che abbia percepito la mia inalazione? Lo trovo alquanto strano, non immaginavo di aver fatto così tanto rumore, ma del resto potevo aspettarmi di tutto dal Capitano, motivo in più che mi fece innamorare, il suo essere così fastidiosamente e maledettamente intuitivo e l'azzeccarci la maggior parte delle volte, mi provocava quella sensazione di nervoso a tal punto da mutarsi in un'ammirazione infinita, anche troppo poco razionale.

La mano alzata ricadde delicatamente sulla maniglia a forma di coda di volpe, color ottone. Feci una leggera pressione verso il basso e spinsi la porta in avanti. "Benvenuta alla forca" pensai tra me e me.

Dire che la stanza fosse meticolosamente ed impeccabilmente in ordine, era forse la cosa più ovvia che ci si potesse aspettare da Ackerman. Perfino la montagna di scartoffie che si ergeva sopra la scrivania in ebano, mostrava una precisione tale da far venire i nervi, i fogli erano disposti gli uni sopra gli altri, in maniera tale da far allineare tutti i quattro angoli, disegnando una linea perpendicolare alla superficie dello scrittoio, che nemmeno una squadra di ingegneri e scienziati sarebbe mai riuscita a disporli con così tanta accuratezza; mi fece venire i brividi, aggiungendosi a tutti gli altri motivi per cui organi interni, cute ed arti cominciassero ad accennare un lieve tremolio.

Lo trovai lì, seduto sul tavolino, intento a compilare i rapporti degli ultimi mesi. Tra l'indice destro ed il dito medio impugnava la penna d'oca di un color nero con sfumature bluastre, mentre con il pollice esercitava una leggera pressione sulla parte inferiore dell'utensile, per avere una presa più salda e decisa.

-Pensi che la porta si chiuda da sola? -chiese, facendo un cenno con la testa in direzione dell'entrata della stanza. Scossi un attimo la testa, ritornando alla realtà. Per circa mezzo secondo, o forse più, mi ero completamente estraniata dal mondo, focalizzandomi solo nel vederlo muovere elegantemente la mano sopra la pergamena. Oh beh, cominciavo proprio bene! Ackerman 1, Leadswood 0, se ci arrivavo almeno.

Gli diedi per un attimo le spalle, preoccupandomi di richiudere silenziosamente la porta e cercando di farmi passare quel visibile rossore, apparso in viso per la figuraccia appena fatta, fortuna che ero il soldato migliore!

Non appena sentii il "click" che fece la porta, andandosi ad incastrare perfettamente nella serratura, il mio cuore perse un battito. Ora ero veramente in trappola, da lì a breve il mio calvario sarebbe iniziato. Concentrai tutte le mie energie nelle gambe, cercando di tenerle più stese possibili, contrastando il loro cedere al tremolio. Era la prima volta che mi capitava di trovarmi così vicino al Capitano, c'erano sì e no dieci passi di distanza. Il vortice allo stomaco divenne sempre più largo, aumentando vertiginosamente, quasi ad inghiottire fegato, pancreas e buona parte dell'intestino; di lì a poco mi avrebbe risucchiata e forse non desideravo altro.

Ripose la penna dentro l'apposito calamaio colmo d'inchiostro, nero quanto i suoi capelli. Fece scorrere la sedia all'indietro, senza far il benché minimo rumore, quanto bastava per permettergli di liberare le gambe da sotto la scrivania. Si alzò con un'eleganza da togliere il fiato, facendo una lieve pressione con la mano sinistra sul tavolo. Indossava una camicia bianca, talmente candida e pulita che faceva quasi male alla vista fissarla, come quando, da bambini, si cerca di osservare il sole, aprendo sempre di più gli occhi per cercare di contrastare la violenza dei suoi raggi, ma poi finisci per cedere, perché senti gli occhi bruciare e chiedere pietà, chiudendosi di colpo, unico loro mezzo di difesa. Non aveva il suo solito colletto notai, magari avevo beccato proprio il momento in cui aveva deciso di lavarlo. Le gambe erano vestite con un pantalone lucido, dello stesso colore dei suoi capelli corvini, abbastanza aderenti, a tal punto da far intravedere i muscoli ben definiti delle cosce. Cominciò ad avanzare verso di me, annullando a poco a poco la distanza che ci separava. Persi un battito, o forse due, avevo perso il conto ormai di tutte le volte che mi fece mancare il respiro. Sentii il cuore risalire fino alla gola, come ad uscire dalla bocca e scappare via, troppo difficoltoso reggere quella situazione, troppo scoperte le mie emozioni. Dovevo assolutamente reagire, non potevo lasciare che i sentimenti prendessero il sopravvento, poiché sicuramente mi avrebbero portato a fare qualche follia che non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione in cui vertevo. Spremetti le meningi fino a spolparle della loro sostanza, pregai con tutta me stessa la ragione, affinché mi desse un segno, un consiglio per poter fronteggiare tutto questo, non poteva abbandonarmi, non adesso, la lucidità doveva a tutti i costi farsi strada tra i fitti rovi e nodi lasciati dalle sue rivali, furbe e meschine. Certo, era giusto che esternassi ciò che provavo, d'altronde non potevo reprimerlo per sempre, ma non così, non in quella situazione.

Ad un tratto l'adrenalina riuscì a toccare tutti i punti periferici che l'attendevano con ansia: stesi forte le ginocchia, unendo cosce e piedi tra loro, tirai indietro più che potevo l'addome,contraendo gli addominali, alzai leggermente il mento verso l'alto, con la mano destra mi diedi un pugno sul seno sinistro, talmente forte fu l'urto che dovetti soffocare un leggero lamento mugolato, la sinistra, invece, si posò dietro la schiena, sempre serrata e compatta.

-Mi avete mandato a chiamare, Capitano? -domandai, con tono risoluto e deciso. Però, di bene in meglio insomma... era ovvio che mi stesse aspettando, non avevo forse ricevuto una pergamena poco fa con su scritto che ero richiesta d'urgenza? Non aveva per caso chiamato il mio nome cinque minuti prima, quando ero ancora fuori dalla porta? Bene, Marianne, brava, stai andando alla grande!

-Che perspicacia, Leadswood -mi prese in giro, di risposta. La pessima figura si faceva sempre più strada all'interno di quell'ufficio, per non parlare poi dei rivoli di sudore, che pian piano si stavano palesando sulla fronte, intenti a cadere lungo il volto. Non potevo di certo asciugarmi con il dorso della mano, uno perché non avevo ancora ricevuto l'ordine di riposo, e in secondo luogo il Capitano non avrebbe mai tollerato un gesto così poco igienico, potevo rischiarci davvero il posto nella squadra!

-Riposo soldato -ordinò, mentre iniziava a girarmi attorno. Abbassai le braccia, mantenendole lungo il corpo, con i palmi verso le cosce. Non so bene quando ripresi a respirare a pieni polmoni, forse restai in apnea per altri dieci minuti buoni. Si muoveva lentamente, tanto da farmi intendere che non mi sarei ritirata presto da quella stanza. Teneva le mani incrociate dietro la schiena e gli occhi grigiastri, ridotti a delle fessure, puntati su di me; persi il conto di quanti cerchi fece attorno alla mia figura, ma quello che è certo è che passò sempre ed esattamente sullo stesso punto, disegnando una circonferenza talmente perfetta, che forse nemmeno un compasso sarebbe stato in grado di farlo. Faceva venire davvero i brividi, avevo quasi paura. Persi un altro battito.

Nel mentre che studiava il mio corpo impalato, come una pantera pronta ad assaggiare la propria vittima, non potei fare a meno di notare come fossero profonde e pronunciate le sue occhiaie, dipinte di un grigio tendente al violaceo, quasi livide. Da quanto non dormiva? Tra compilazioni dei rapporti da inviare al Quartier Generale, gli allenamenti e le spedizioni oltre le mura, aveva esaurito le ore a disposizione e subito un nuovo giorno non tardava a giungere. Era visibilmente esausto, stanco di tutti quegli avvenimenti che stavano accadendo troppo velocemente, senza lasciarci il tempo di respirare, di riprendere quel poco di ossigeno necessario per poter affrontare un nuovo scontro.

-E così, Leadswood, ti diverti a disobbedire, eh? -domandò sarcastico, fermandosi dinanzi a me, puntando i suoi occhi dritti nei miei azzurro-grigio, colore impartito dal temporale che si stava scatenando fuori. Istintivamente volli sfuggire a quello sguardo inquisitorio e penetrante, per cui portai il mento a contatto con il collo, salvandomi. Non potevo resistere ulteriormente, la ragione stava per cedere, troppo grande era la pressione esercitata dalle arpie.

-Sai, sei stata fortunata -continuò, accorciando la distanza che ci separava. Istintivamente cominciai ad indietreggiare. Quel pezzo di pavimento che manteneva ben lontani i nostri corpi era fondamentale e strettamente necessario, non potevo sopportare il suo viso troppo vicino al mio, non adesso, non mentre mi guardava con quegli occhi, dannatamente assottigliati ed aggressivi. Mossi dunque dei passi in direzione della porta, fino a quando, purtroppo, non sentii la schiena spalmarsi nervosamente sul legno che circondava la stanza. Ero visibilmente in trappola.

-Se solo avessi usato tutte le mie capacità e strategie, probabilmente non saresti qui a raccontarlo, oppure te la cavavi con qualche arto mozzato -terminò con un tono ancora più roco e profondo del solito. Di nuovo, persi un battito, era davvero troppo, troppo vicino, stavo per impazzire.

-Ma veniamo al dunque, Leadswood, sei consapevole di che cosa hai combinato, sì? -domandò avvicinando il suo volto al mio. Potevo avvertire il suo respiro, ardente e profondo, scaldarmi il viso. Non era molto più alto di me, ma abbastanza da costringerlo a flettere leggermente le ginocchia, per portare le sue labbra all'altezza delle mie, c'era sì e no un'unghia di distanza. Stavo tremando come un povero senza tetto, in balìa della pioggia battente, mentre cerca un riparo caldo ed asciutto; l'unica differenza era che i miei tremori si associavano a delle sudorazioni copiose, che non facevano altro che aumentare la temperatura corporea, difficile da mantenere costante. Perché doveva starmi così vicino? Che fosse questa la punizione da scontare? Provare a non baciarlo, nonostante le sue mosse?

-Sì -emisi in flebile suono, quasi impercettibile a qualsiasi orecchio umano, ma non a lui.

-Ebbene, non solo non hai fermato Mikasa Ackerman -sentenziò poggiando la mano destra leggermente sopra la mia spalla, spalmandola per bene sulla porta -ma hai anche lasciato in vita un gigante -disse, quasi digrignando i denti, incupendo il tono, come se stesse per divorarmi.

-Non è un gigante... -sussurrai flebilmente, scuotendo lentamente la testa, tenendo comunque lo sguardo puntato sulle punte dei miei stivali.

-Come dici? -chiese inarcando leggermente un sopracciglio, scandendo bene quelle parole. Oh bene, adesso sì che ero nei guai, ma del resto mi ci ero infilata lo stesso giorno in cui decisi di disobbedirgli, per cui tanto valeva portare avanti la mia teoria, ormai il danno era più che fatto.

-Non è un gigante, è Eren -affermai, alzando leggermente gli occhi, incontrando i suoi, i quali si erano appena appena aperti più del solito, nel sentirmi rispondere con quel tono fermo e risoluto. Non so come ebbi fatto a far uscire quella voce, perlopiù con quel timbro, ma forse era arrivato il momento di dire la verità, di affrontare la questione una volta per tutte. Le mie idee avevano già fatto la loro parte, portandomi a disobbedire, a questo punto non restava altro che spiegare il perché ed il percome.

-Un Eren senza controllo, totalmente privo di consapevolezza e razionalità -ribatté alzando il tono, battendo un pugno sulla porta, lasciando che il suono rimbombasse dentro al mio orecchio. Di risposta, chiusi gli occhi e strinsi i denti, il rumore sordo delle nocche sul legno perdurò per parecchi minuti.

-Cosa lo distingue da un gigante? Cosa gli evita di sterminarci tutti? -ringhiò furibondo, mostrando i denti, aumentando i respiri, assordanti ed affaticati -e ciò che è peggio, hai lasciato Ackerman in balia di quell'abominio, non era forse la tua più fedele compagna? -mi minacciò, provocandomi volontariamente.

"Ricordi quando il Capitano, tornò da una spedizione, ricoperto di sangue dal capo ai piedi? Faticava perfino a poggiare la gamba destra per terra, per le ossa rotte e martoriate. Non riuscivi a dormire la notte, volevi fare qualcosa per poter alleviare le sue pene, per permettergli di guarire più in fretta. Ti deconcentravi ad ogni allenamento, commettendo i più stupidi errori che perfino le reclute non farebbero. Mangiavi a fatica e, prima di coricarti, andavi ad origliare cosa dicessero Erwin ed Hanji sulle condizioni di Levi. Ti sentivo mentre ti giravi e rigiravi nel letto, a stento ti reggevi in piedi durante le spedizioni oltre le mura, ma era normale Marianne, quando sei innamorato l'unica cosa che desideri è che la persona che ami possa essere felice, qualsiasi cosa accada, che possa vivere una vita serena. Io ho il cuore che si ferma ogni volta che Zoe convoca Eren per sottoporlo a quegli stupidi esperimenti. Non si rendono conto di come lo stanno riducendo, Marianne, sembra un vegetale, a stento mangia, sta perdendo peso e, ciò che è peggio, è sempre più stanco e spossato, l'unica cosa che lo tiene in vita è la determinazione e l'irascibilità. Ma quanto può durare ancora? Quanto? Ci sono giorni in cui vorrebbe prendere e mollare tutto, perché non si sente all'altezza, perché ogni esperimento finisce in un totale fallimento. Fosse per lui cederebbe questo compito a qualcun altro, tanto è bassa la stima che ha di sé che, molte volte, mi ha confessato di voler raggiungere sua madre. Se solo potessi fare qualcosa, Marianne, se solo riuscissi anche solo per un istante a portarlo via, a fargli respirare un po' d'ossigeno, a fargli comprendere quanto lui sia importante, per noi, per me, ma ogni giorno che passa, non fanno altro che allontanarmi."

Le parole di Mikasa mi tornarono alla mente come un fulmine che squarcia in cielo nella notte buia e priva di stelle. Come ricordo quella sera, si era accovacciata sul mio letto, poggiando il capo corvino sulle mie ginocchia, implorandomi di aiutarla, di ascoltarla. Non era solo uno tra i soldati migliori, era la mia spalla, colei a cui avevo confessato per primo i sentimenti verso il capitano, l'unica che riuscì a dirmi "lo so, provo lo stesso". Gli anni passati insieme, tra reclutamento e Corpo di Ricerca, mi permisero di esplorare ogni sua qualità nascosta, permettendole di aprire quell'armadio e tirar fuori ogni scheletro impertinente. Ed io l'ascoltavo, mentre annotavo tutto ciò che servisse, per poter un giorno, mostrarmi utile e sdebitarmi della sua gentilezza, del suo spalleggiarmi ogni volta, sempre.

Quel giorno, nonostante l'ordine di Levi, io dovetti fare la volontà della mia amica.

-Non è un gigante... -ripetei, aggrottando le sopracciglia, alleggerendo il tono. Non c'era bisogno di aggressività, ero ferma e decisa nelle mie convinzioni, avrei detto tutto quanto, senza tralasciare nessun particolare. Avrei spiegato per filo e per segno del perché decisi di disobbedire e in quel momento, poco mi importava se decidesse di sbattermi fuori dalla squadra, già, nonostante all'inizio era una tra le mie paure più grandi, sebbene considerassi il dover eseguire gli ordini come un obbligo, a prescindere da tutto e da tutti, quel giorno decisi che regalare una possibilità ed un pizzico di libertà ai miei due compagni, fosse il comando da dover concretizzare, dettato solo ed esclusivamente dal cuore e dell'amore. Avevano bisogno di pace.

-È Eren, e lo sarà sempre, se solo voi riusciste a togliervi dalla testa di usarlo solo come una macchina da guerra -proseguii. D'un tratto, smisi di tremare, me ne resi conto quando serrai le mani in due pugni ben saldi, andando addirittura ad incastrare le unghie dentro la pelle.

-Stai attenta Leadswood, stai di nuovo peccando di insubordinazione -mi redarguì, allungando i lati della bocca in un ghigno malevolo e dannatamente sensuale. Perché stava sorridendo adesso? Perché in quel modo? Mi stava facendo impazzire!

-E voi vi state comportando in maniera disumana! -urlai allo stremo, tendendo a più non posso le corde vocali. Mi stavano stancando tutte quelle provocazioni, sebbene mi facevano ancor più innamorare di lui, ma non dovevo cedere, il suo essere così maledettamente attraente non avrebbe ostacolato l'affermarsi dei miei pensieri, del perché decisi di disobbedirgli. Sapevo che, comportandomi in quel modo, non facevo altro che diminuire le probabilità di avvicinare Levi, di mostrarmi a lui come una donna sensuale ed interessante, ma ero pur sempre un soldato e, cosa più importante, dovevo mostrargli che non ero un'assassina.

Il Capitano inclinò leggermente la testa verso destra, mantenendo sempre quel suo sorriso beffardo. Davvero quella situazione era così divertente?

-Eren Jaeger era un membro del 104° Corpo di Addestramento Reclute, nonché soldato dell'Armata Ricognitiva, proprio come Mikasa Ackerman, Armin Arelet e me -cominciai, buttando fuori quanta più aria potevo, cercando di mandar via quell'adrenalina di troppo, che imperterrita continuava ad attivare tutti i suoi centri bersaglio. Sentii, infatti, distendersi i muscoli facciali e quelli delle braccia, i denti non facevano più contatto tra di loro e neppure le ginocchia erano rimaste tirate al punto tale da fuoriuscire posteriormente; un briciolo di consapevolezza e lucidità avevano deciso di prendere la parola, ad ammorbidire il tutto ci pensò poi il bene ed il rispetto verso coloro che potevo definire "famiglia".

-Sottoporlo in maniera così incessante e ripetuta agli esperimenti, non fa altro che indebolirlo e ridurlo un ammasso di carne ed ossa, privo di linfa vitale per poter proseguire -dissi, mentre sentii gli occhi iniziare a riempirsi lateralmente di piccole lacrime, mantenendo comunque uno sguardo aggrottato e determinato. Non potevo e non dovevo piangere, avrei vanificato tutte le mie tesi e mi sarei mostrata una smidollata agli occhi di Levi, ma nel solo iniziare quel discorso, potei sentire la voce di Mikasa ringraziarmi, inginocchiandosi dinanzi a me, frapponendosi in quel misero spazio che, fortunatamente, ancora c'era tra me ed il Capitano. La vidi abbracciarmi le ginocchia e poggiarvici una guancia, ripetendo continuamente "grazie amica mia". Ormai, avevo preso la strada giusta.

-Richiudere la breccia del Wall Maria e poterci liberare dalle angherie dei Giganti, guadagnando, per non so quanto, un po' di calma e serenità, è ciò che più desidero al mondo, Capitano, proprio come lo volete voi e tutto il resto della squadra, ma non così, non martoriando un mio compagno -incalzai volutamente su queste ultime sillabe, scandendo per bene suoni e lettere, cercando di farle arrivare più nitide possibili alle orecchie di Levi, il quale, di tutta risposta, rilassò la bocca tornando con la sua tipica mimica facciale: labbra serrate in un'espressione del tutto indecifrabile ed incomprensibili, occhi ridotti a fessura, visibili solamente dai solchi di occhiaie che si presentavano poco sotto. Non riuscivo a capire cosa stesse frullando nella sua testa, quali fossero i suoi pensieri e le risposte alle mie teorie, ma del resto era famoso per essere così enigmatico, criptico e misterioso a tal punto da renderlo, ogni giorno, più bello e seducente... oh no, lo stavo facendo di nuovo! Non adesso Marianne, no!

-Continua, soldato -sussurrò a denti stretti, emettendo quasi un ruggito.

Ah, dimenticavo, persi un battito, naturalmente.

Schiarii la voce, deglutendo rumorosamente, cercando di lubrificare il più possibile il tratto orofaringeo, spingendo la saliva a bagnarne ogni singola componente. Sembravo davvero un animale in gabbia, che batte la coda incessantemente sulle sbarre, in attesa di poterle frantumare, ma dovevo proseguire, io dovevo parlare.

-Eren ha delle potenzialità, questo è sicuro, ma spesso ci dimentichiamo che è un essere umano come tutti noi -esclamai tutto d'un fiato, riprendendolo per poi proseguire. In quel breve periodo di pausa, potei notare gli occhi di Levi aprirsi leggermente, come se fosse stupito.

-Gli esperimenti del Caposquadra Zoe sono necessari per poter richiudere la breccia, ma ciò a cui non facciamo caso è che stiamo lentamente massacrando un nostro compagno -dissi, riudendo le parole di Mikasa, i suoi continui "grazie" e richieste d'aiuto.

-Costringendolo ogni singolo istante a tramutarsi in un Gigante, senza lasciargli quel minimo periodo di pausa necessario a poter ristabilire almeno le funzionalità vitali, non facciamo altro che indebolirlo, ma non solo fisicamente -premetti maggiormente su questo punto -tutte le trasformazioni fatte, dal giorno in cui rivelò il suo potere, fino ad oggi, non hanno fatto altro che ucciderlo moralmente -stoppai la frase.

-Ucciderlo moralmente? -ripeté Levi, aggiungendo un tono interrogativo. Davvero non ci arrivava? Era così difficile comprendere ciò che stessi dicendo, o forse stava solo fingendo, giusto per darmi il tempo di respirare tra una frase e l'altra? Effettivamente, mi resi conto solo dopo di aver inalato una boccata d'ossigeno bella massiccia, stavo andando in apnea e nemmeno mi rendevo conto.

-Sì Capitano. Gli esperimenti fatti fino ad ora non hanno portato a nessun risultato, Eren ancora non riesce ad indurire la sua pelle, e questo lo massacra, lo martoria dentro, come se tanti rovi lo avvolgessero ripetutamente al punto da stritolarlo e pungerlo, allo stesso tempo. Non solo il suo animo è dannatamente a terra, ma ogni giorno che passa si convince di non essere all'altezza delle nostre aspettative -stavolta non riuscii a trattenere le lacrime, ormai avevano iniziato a sgorgare copiosamente sul mio viso, solcandolo a tal punto da lasciare delle rubre rosse ben visibili. Se ne accorse, oh come se ne accorse.

-Troppe volte si condanna per non essere in grado di poter adempire al suo compito, altrettante confessa di voler farla finita, pregando che questa sua peculiarità potesse appartenere a qualcun altro, così da alleviare le nostre sofferenze e non sentirsi più un peso -cercai di non far tremare la voce, ma fu impossibile. Lo ricordo ancora, come Mikasa cercava in tutti modi di consolarlo, senza nessun risultato, tanta era la frustrazione del ragazzo da non riuscire ad ascoltare le parole di lei.

-L'irascibilità che si dipinge addosso, sono solo uno scudo per non mostrare quanto in realtà stia morendo pian piano, mordendosi incessantemente le labbra, ormai ridotte a brandelli. Pensiamo che quel suo essere così aggressivo sia sinonimo di determinazione e forza, in realtà è solo una corazza per non far vedere quanto sia stremato -proseguii, stavolta ricordandomi di prendere fiato. Il Capitano mi guardava attento, senza muovere un singolo muscolo, mantenendo immodificata la sua espressione. Forse stava capendo dove volevo andare a parare, probabilmente lo aveva capito già dal principio; magari era questa la mia espiazione, ammettere le proprie azioni e confessare la verità, denudandosi completamente di tutto ciò che si possa utilizzare per proteggersi, una volta messa alle strette...eppure, sentivo che c'era dell'altro, un qualcosa che mi sfuggiva, nascosta dietro la lettera di convocazione.

-Ecco il motivo per cui perse il controllo quella volta, il sommarsi di tutti questi avvenimenti non gli hanno permesso di affrontare la questione in maniera lucida -dichiarai, proseguendo poi con la spiegazione -la verità è che Eren ha tutte le capacità per poter richiudere quella breccia, è l'unico in grado di poterci salvare da quegli abomini, se solo gli fosse concesso del tempo, non tanto per riposare, ma per sentirsi almeno apprezzato e degno del suo compito -finii, sentendo delle braccia cingermi la vita. Istintivamente poggiai una mano all'altezza dello stomaco, ma non c'era niente, Levi era sempre nella sua solita posizione. Sorrisi, ingenuamente, capendo solo dopo aver avvertito un profumo di pesco e ciliegio inebriarmi le narici.

"Grazie amica mia", rimbombò nella mia mente.

-E come spieghi quindi... -cercò di prendere la parola, ma fu bloccato prima di poter proseguire, intuendo subito dove volesse arrivare. Ormai avevo capito il gioco, non ci cascavo più.

-Non ho condannato a morte Mikasa Ackerman, ho solo esaudito un suo desiderio -confessai, aggrottando le sopracciglia, tendendo i muscoli facciali a tal punto da farmi male.

-Desiderio? -chiese, facendo il finto tonto. Oh andiamo, Capitano, ma davvero si divertiva in questo modo?

-Nonostante sia così apprensiva nei confronti di Eren e gli stia esageratamente troppo addosso, in realtà è l'unica che può insegnargli a credere in se stesso, a regalargli quel barlume di speranza, salvandolo da quell'oscurità fitta ed ostile che grava sul ragazzo -affermai, con voce tremante e poco sicura, non tanto perché non credessi in quello che stessi dicendo, anzi ne ero ogni giorno più convinta. Il motivo principale del tentennamento era dovuto al fatto che tornano alla mente quelle parole, quella confessione così struggente e maledettamente vera.

"...se solo riuscissi anche solo per un istante a portarlo via, a fargli respirare un po' d'ossigeno, a fargli comprendere di quanto lui sia importante, per noi, per me, ma ogni giorno che passa, non fanno altro che allontanarmi."

Inutile ormai nascondere le lacrime, erano diventate routinarie, talmente copiose scendevano da modificare il colore del mio viso, accendendolo di un rosso sempre più acceso.

Levi, istintivamente, poggiò il dorso dell'altra mano vicino al mio zigomo, esercitando una lieve pressione, per frenare quel fiume in piena, misto in rabbia, tristezza e coraggio. Sussultai, sentendo il cuore risalire fino a sotto la trachea, cominciando ad accelerare i suoi battiti più del solito. Aveva le dita segnate da cicatrici e calli, al tatto si percepivano leggermente ruvide, ma ci fu qualcosa che mi colpì più di tutte: erano così calde e confortevoli, da farmi smettere di tremare.

-Non ho mandato a morire i miei compagni, ho solo cercato di dargli quel tempo necessario affinché Eren possa essere finalmente pronto e Mikasa può riuscirci, io lo so. È l'unica che sa come prenderlo, sa quale punti sopiti deve risvegliare in quel ragazzo, lei e lei soltanto è in grado di compiere questo arduo compito. È colei che può davvero fargli capire quanto sia essenziale, ma non come macchina da guerra, come essere umano, quanto sia necessario che resti in vita, quanto sia amato -dissi quest'ultima parola, spingendo spontaneamente lo zigomo contro la mano di Levi, intensificando di più il contatto, sentendo ora tutte le falangi delle dita spalmate sulla mia pelle. Forse era davvero il modo sbagliato e la situazione meno opportuna, ma mi ero scoperta a tal punto da voler rischiare il tutto per tutto, nascondendo tra i versi della mia tesi, ciò che provassi per lui.

-Non volevo trasgredire, Capitano, mi creda, ma sentivo che in quel momento dovevo salvare i miei compagni, dovevo dar loro almeno la possibilità di poter espiare quest'agonia che tanto li affligge -confessai, singhiozzando appena appena, buttando giù ogni volta un può d'aria per ristabilire il consueto ritmo. Avevo chiesto scusa, finalmente l'avevo fatto, sviscerando tutto ciò tenevo dentro, aprendomi liberamente alla persona che amavo, spiegando le mie teorie e le mie idee, cercando di disegnargli tutti i miei schemi mentali, con la speranza che potesse, non tanto condividerli, ma quantomeno comprenderli.

-Sa, ho sempre creduto, dopo anni e anni di lavoro su me stessa, che chi pensa di poter risolvere ogni avversità senza l'aiuto di nessuno, chi si ostina ad affrontare situazioni e problemi da solo, altro non ha che paura di non riuscire a trovare qualcuno che possa accompagnarlo durante il cammino -lo guardai dritto negli occhi, sentii come il mio tono si fosse addolcito, quasi ad impastarsi di miele e gentilezza; il cuore aveva rallentato i battiti, riprendendo la sua solita frequenza, quella stanza da patibolo si era trasformata in un enorme prato primaverile, pieno di fiori variopinti, soffiava una brezza fresca e leggera nell'aria, a confortare il mio animo che ormai, si stava sviscerando di tutto ciò che segretamente conteneva.

-La verità, Capitano, è che tra le tante persone che si incontrano lungo la via, ne esiste sempre una che ci accompagnerà per tutta la vita, pur se magari lontana e destinata ad altri -abbassai lo sguardo, dire quella frase mi pesò talmente tanto, che dovetti rallentare la mia parlantina -ci sarà sempre quella persona pronta a sporcarsi di fango per noi, a starci accanto nonostante il mondo ci sia completamente avverso, ad allungarci la mano per rialzarci dopo ogni battaglia. Esiste quell'essere umano pronto a sacrificare la vita per salvare la nostra, a frapporsi tra noi ed i nostri carnefici, colei che non potrà mai farci del male... -dissi, socchiudendo leggermente gli occhi di un azzurro ormai limpido, per tutte le lacrime versate.

"...che non potrà mai farci del male...".

Risuonò questa frase per non so quanto tempo nella mia mente, tanto abbastanza da far mettere in moto le sinapsi e risvegliare i neuroni curiosi e ed indiscreti, desiderosi di dover porre quella domanda, quella fatidica questione che tanto mi faceva arrovellare le meningi, dopo quella volta.

-Hai indubbiamente degli ideali molti profondi, soldato- esclamò, facendosi uscire una lieve risata all'inizio della frase. Lo guardai confusa, davvero dopo tutto quel discorso era l'unica cosa in grado di dire? Solo quella misera frase? No, indubbiamente c'era dell'altro, non stava aspettando che il momento giusto, come a farmi intendere che qualcosa si stesse nascondendo dietro quella convocazione così urgente, un qualcosa che doveva e voleva dirmi a tutti i costi, eppure continuava a restare immobile, con quella sua espressione passiva ed indifferente, la quale aveva mutato leggermente solo due o tre volte.

Non ce la feci più, quel dubbio era lì, sulla punta della lingua, pronto a prendere forma, suono e colore. Doveva chiederglielo, dovevo sapere.

-E voi? Cosa vi ha spinto a risparmiarmi la vita quel giorno? Possedete tutte le carte per potermi mettere al tappeto, eppure avete esitato... perché? -lo provocai, facendo quella domanda tutta d'un fiato. L'avevo fatto, finalmente ora mi ero svuotata di tutto ciò che si contorceva ed attanagliava dentro di me da troppo tempo.

L'intervallo che ci fu tra la domanda e la sua risposta, fu talmente lungo, da far sembrare che il tutto si fosse fermato, congelato nell'istante in cui emisi il quesito. Anche le membra si erano raggelate allo stesso modo, nemmeno si vedevano più le vene pulsare all'altezza delle tempie. Tutto completamente piatto ed immobile.

Levi decise di rompere quella quiete straziante ed anomala, non prima di aver accennato un sorriso beffardo ed irritante. Dio, se lo amavo!

-Che intuito Leadswood, vedo che tutti i tuoi ragionamenti ti hanno portato a chiederlo, finalmente - pronunciò avvicinando il suo volto, come se non lo fosse già abbastanza. Il suo respiro incalzava sempre più sulle mie labbra, quasi del tutto secche per il dialogo precedente, ma non potevo in alcun modo lubrificarle con la lingua, avrei rischiato di toccare le sue e, per quanto non vedessi l'ora di farlo, non potevo.

-Sei uno tra i migliori soldati della squadra, ridurti in pessime condizioni sarebbe davvero da idioti, nonché metterebbe ancor più in svantaggio il Corpo di Ricerca e ciò non posso permetterlo. Ma, non è questo il punto -si interruppe, mutando l'espressione sul suo volto, sostituendo a quel sorriso, con una mimica seria e concentrata, smussando gli spigoli caratteristici del suo atteggiamento, apparendo ora più mansueto e dolce del solito. Che cosa c'era ancora da sapere?

-Marianne... -fu la prima volta che udii il mio nome uscire dalle sue labbra. Persi un battito e feci un piccolo salto all'indietro, impattando sulla porta.

"Marianne...", mai lo avevo sentito pronunciare con così tanta morbidezza, premendo leggermente sulle doppie, potei notare la sua lingua incastrarsi sul palato duro, esercitando una lieve pressione, quanto bastava per farmi apprezzare il mio nome, forse per la prima volta in tutta la vita. Quasi stentavo a credere che lo sapesse, talmente abituata a sentirmi chiamata con il cognome, a tal punto da averci perso le speranze, e invece, mi sbagliavo di grosso.

-La verità è che non potrei tollerare che altri possano ferirti, figuriamoci se sia io stesso a farlo -confessò, facendo scivolare la mano, vicina allo zigomo, prima sulla mandibola, fino a toccare il collo, esitando per un po' sulla clavicola.

Un altro battito.

-Semmai ti venisse fatto del male, potrei davvero impazzire definitivamente -finì la sentenza, proseguendo il suo percorso, sfiorando ora il tessuto bianco della camicia che ricopriva un seno, contando minuziosamente tutta la fila di coste appena sotto, raggiungendo la cresta iliaca, dove si posò. Da lì, fece scorrere il braccio lungo il fianco, cingendomi tutta la vita. Con delicatezza mi staccò dalla porta, quasi a sollevarmi, e fece aderire il suo corpo con il mio, permettendomi di adagiare il mento sulla spalla. L'altra mano la incastrò tra le fitte increspature dei capelli, quasi a volersi nascondere dalla vista altrui. Il suo pallore spiccava in mezzo a quel rosso vivo, sapeva di essere scoperto, ma allo stesso tempo si sentiva quasi protetto da quel mare agitato ed irrequieto. I suoi polpastrelli esercitavano una pressione delicata, ma al contempo decisa, come a voler entrare nella mia testa e carezzare il sistema nervoso.

Inutile dire quale fu la reazione al suo gesto. Penso che mai prima di allora, sentii un calore così forte e penetrante, da pervadermi ogni singolo tessuto, organo e legamento, infiammandoli di un misto tra passione, confusione e sorpresa. Restai con gli occhi sgranati per non so quanti secondi, le braccia lungo il corpo, completamente immobile, mentre mi lasciavo abbracciare, potendo percepire la contrazione dei suoi muscoli. Da quanto tempo lo desiderassi era cosa scontata, ma è superfluo confessare che mai avrei voluto staccarmi da quella presa. Mai.

-Non credere che sia facile stare da questa parte, non lo è per niente -disse con il suo timbro roco e scuro, leggermente pizzicato da un udibile tremolio -vedersi cadere davanti agli occhi i propri soldati, i propri compagni, è una condanna che non augurerei mai a nessuno -si fermò, emettendo un piccolo colpo di tosse, quasi a soffocare qualcosa che stesse nascondendo. Sentii il mio collo leggermente umidiccio, al che sgranai ancora di più gli occhi. Levi stava davvero piangendo?

-Ogni giorno provo ad elaborare la strategia più consona per porre fine a questo massacro, passando le notti a studiare allenamenti, schemi, testando in primis su di me quanto possano essere efficaci, e puntualmente ogni stramaledetto giorno vedo gente cadere sotto il mio comando, persone che vengono mutilate da quegli abomini, compagni fidati perdere la vita -stavolta emise un singhiozzo, chiaro e nitido -e in tutto questo non hai nemmeno tempo per compiangerli, che subito devi rimetterti all'opera e calcolare tutto, da capo -urlò questa ultima parola, stringendomi più a sé, come ad inglobarmi. Aveva bisogno di conforto, stava semplicemente chiedendo aiuto, a me. D'istinto appoggiai i palmi sulle sue scapole, sentendo la definizione dei dorsali, incassando i gomiti leggermente sotto le coste fluttuanti, come ad incastrarmi ancor di più quell'abbraccio.

-Non chiudo occhio da non so quanto tempo, sento le forze venire sempre di meno, quasi da non meritare più l'appellativo "soldato più forte dell'umanità", tanta è la stanchezza che mi sta risucchiando via -continuò a buttare fuori confessioni su confessioni, stati d'animo, verità nascoste e mai dette a nessuno. Mi allontanò leggermente da quella stretta, permettendomi di potergli ammirare il viso. I suoi occhi grigi erano completamente fradici, potevo vedere la rima palpebrale colma di lacrime; le occhiaie era diventate traslucide, mentre le guance erano graffiate da striature rossastre, mischiate alle tante piccole cicatrici, datate e recenti, segni di battaglie amare, spedizioni fallite e perdite non volute, non dovute.

-L'unica ragione che mi tiene ancora in vita, siete tutti voi, sei tu Marianne -pronunciò tutto ciò quasi in un sussurro, incollando la frangia corvina contro la mia fronte pallida, leggermente sudata. Non potevo guardare da nessun'altra parte, se non i suoi occhi e forse, era tutto ciò che avessi mai desiderato fino a quel momento, poter stare così vicino a lui, ascoltarlo ed accogliendo ogni suo peccato.

-Potervi salvare da tutta questa carneficina, permettervi di sopravvivere, lasciarti vivere, è tutto ciò che mi salva dall'oblio e dalla pazzia. Sono appeso ad un filo, basta solo un passo per farmi sprofondare, perciò... -esitò un attimo, provando a smettere di tremare. Lo sentii così fragile, a tal punto che cuore e ragione si commossero insieme, cercando di darmi tutta la forza necessaria per poter reggere i suoi dolori, le sue sofferenze. Cercai di tranquillizzare i suoi spasmi, massaggiandogli delicatamente il dorso, divaricando quanto più mi fosse possibile le dita, per poter toccare ogni singolo centimetro di pelle.

-...Perciò, se ciò che mi hai appena detto è vero e ci credi fortemente, allora ti scongiuro Marianne, sii quella metà che mi completa, sii quella persona in grado di tirarmi fuori da questa pazzia, perché davvero, da solo, non ce la faccio più -mi supplicò, lasciando scorrere le gocce di pianto, depositatesi prima nella parte bassa dell'occhio, in attesa del momento opportuno per poter salpare.

Rimasi inerme dinanzi a quella proposta e mi ci volle un po' per interpretarla. Un brivido percosse la schiena, toccando ogni singola vertebra, dalle lombari fino ad arrivare a quelle dorsali, dandomi come una scossa. A quella richiesta disperata, sentii una morsa talmente tanto stretta al cuore, quasi da lasciarsi frantumare in mille piccoli pezzi. Mi stava affidando la sua vita, voleva che curassi quell'animo martoriato, che lo salvassi da quella tremenda apatia. Aveva bisogno che lo aiutassi a ritrovare la fierezza di un tempo, la pace perduta e tanto agognata. Il pianto colpì anche me, era misto ad emozione e sofferenza, non sapevo decifrare dove tendesse realmente, l'unica cosa certa è che finalmente ebbi delle risposte che cercavo da non so quanto tempo.

-Capitano, avete la mia parola -giurai, accennando un debole sorriso, mentre, mossa da non so quale istinto primordiale, avvicinai le mie labbra alle sue, colpendole con un soffice bacio. Aveva la bocca così morbida, nonostante fosse estremamente sottile. Sapeva di tante cose: battaglia, coraggio, sofferenza, amore e virtù, proprio come me lo ero sempre immaginato.

Feci in tempo a riaprire gli occhi, che subito mi staccai, prendendo consapevolezza del gesto appena compiuto. Da quando ero così audace? Forse stavo correndo troppo, magari andava fatto tutto con molta più calma, gradualmente, come è solito muoversi in questi casi, eppure sentii qualcosa consigliarmi di farlo, di buttarmi e permettergli di fidarsi di me, accettando la sua supplica, promettendogli la mia presenza.

Levi mi guardò sorpreso, quasi dispiaciuto nell'aver interrotto quel momento, ma si raddolcì subito, distendendo le labbra in un sorriso pacato e sincero.

-Mi perdoni Capit..-fui interrotta da due dita che mi serrarono delicatamente la bocca.

-D'ora in avanti, sono Levi -affermò in un timbro caldo e rassicurante, con un velo di sensualità che lo contraddistingueva. Mi sentii sciogliere di tutto punto, a fatica mantenevo ancora le ginocchia distese, ogni muscolo si stava abbandonando al suono della sua voce, era la mia melodia preferita.

Riprese da dove avevo interrotto, baciandomi con convinzione e passione. Premette le sue labbra a tal punto da schiudere ancor di più le mie, assaggiandole con la lingua, che passò lentamente sopra le screpolature, fino a lambire i denti, come se chiedesse il permesso di entrare. Lo accolsi, presentandogli la mia, lasciando che la esplorasse, mordesse e la facesse sua.

Fece scivolare le sue braccia fino a sotto i glutei e, contraendo addominali e bicipiti, mi sollevò da terra, restando con la bocca unita alla mia. Allacciai le gambe dietro la sua schiena, avvicinando i nostri bacini, sentendo la sua eccitazione sempre più presente, facendomi visibilmente arrossire. Mi adagiò sul divano in pelle nera, lucido e ben tenuto, spostando fugacemente i cuscini per farsi spazio e guadagnare terreno. Dalla bocca, passò ad assaggiare le guance, gli zigomi, fino ad arrivare ai lobi dell'orecchio, suggendoli appena appena, quanto bastava per inumidirli. Scese poi lungo il collo, baciando il decorso della giugulare, mordendo la cute attorno.

Iniziai, molto lentamente, a slacciare i bottoni della sua camicia, assaporando il gusto della sua pelle, sapeva di zolfo e biancospino, un connubio decisamente bizzarro, ma maledettamente attraente. Lo assaggiai ancora, baciandolo con più passione e curiosità, scoprendolo pian piano. Non appena feci scivolare le maniche dell'indumento lungo le braccia, le notai, facendomi mancare il respiro:

Erd

Gunther

Auruo

Petra

Ogni cicatrice aveva un nome ben inciso, che si incastonava tra i muscoli definiti di Ackerman. Lasciai un bacio su ciascuna di esse, in segno di preghiera, raccogliendo la pelle tra le labbra. Sentii Levi sussultare ad ogni tocco, mugolando gemiti di piacere, misti a commozione, grato per quello che stessi facendo.

Non tardò a privarmi della camicia anche lui, slacciandola con molta più foga, lambendo ogni centimetro di cute, pervadendola di brividi prima sconosciuti. Aveva un modo di baciare così delicato ed attento che mai mi sarei aspettata, tanta era la fermezza con cui affrontava le battaglie, quasi mostruosa la brutalità che sprigionava nell'uccidere i Giganti, che il solo sentirlo così fragile e passionale, fu davvero una sorpresa. Pizzicava la pelle del seno attento a non esercitare troppa pressione, prendendola con tutta la mano, premendo e poi rilasciando subito dopo. Un calore divampò in me, pervadendomi tutta, sentii il fuoco ribollire, specialmente all'altezza del basso ventre, dove risiedeva il fiore della mia essenza, non ancora violato da nessuno.

Levi continuò a privarmi degli indumenti, preoccupandosi di scoprire i miei seni, piccoli e rotondi. Non resistette alla tentazione di assaggiarli, carezzando i capezzoli con la punta della lingua, compiendo dei movimenti rotatori, fino a renderli turgidi ed appuntiti, come uno spillo. Inarcai la schiena di rimando, come a facilitargli il lavoro, facendo leva sulla nuca che premeva contro il bracciolo del divano. Presi allora a calargli i pantaloni di velluto, accompagnandoli nella discesa, carezzando i muscoli della coscia, le ginocchia, fino ad arrivare ai polpacci. Lasciai dei piccoli pizzichi, nel mentre che tastavo la sua pelle soda e martoriata dai segni di innumerevoli scontri. Quel corpo non era nient'altro che il connubio perfetto tra la precisione e la sofferenza, si poteva leggere la storia della sua vita: tutti i sacrifici, i duri allenamenti, le morti scampate, i colpi presi e quelli assestati, c'era scritto tutto quanto e mi innamorai di ogni singolo centimetro, di ogni sfregio, promettendogli, ad ogni tocco, di guarirli e impedirne di nuovi.

Il Capitano risalì verso il mio viso, guardandomi dolce, lasciandomi nuovi baci in punti già toccati, ma completamente diversi rispetto ai primi. Fece scendere le mani all'altezza dei fianchi, poggiandole sul bordo dei pantaloni che non tardò a sfilarli. Allora fu la volta dei glutei, li massaggiò a dovere, per poi passare alle cosce, fino a risalire lassù, dove solo un piccolo lembo di stoffa lo separava. Trattenni a sento dei sospiri, tanto era il piacere che mi provocava quel tocco che era difficile da non esternare.

Si mise seduto sulle ginocchia, guardandomi con uno sguardo che mi fece mozzare il fiato. Non avevo mai visto il suo viso così rilassato ed appagato, mai prima d'ora e ciò mi riempiva davvero il cuore.

Poggiò una mano sul bracciolo del divano, mentre con l'altra iniziò a tirar giù gli slip, agganciandoli con l'indice. Ero completamente nuda ed inerme dinanzi a lui, mai mi ero ritrovata in queste circostanze con un uomo, ma tanto avevo desiderato che fosse lui il primo ad averne la possibilità, a concedergli di prendermi in tutto e per tutto, di affidargli il mio corpo e la mia anima, perché avrebbe trovato senza dubbio il giusto modo per costudirli ed amarli, senza far loro del male, senza farmi del male.

Si chinò a baciarmi la fronte, poi la punta del naso, fino a riprendere le labbra, mentre con le dita, carezzava l'interno coscia, solleticando i punti più sensibili. Del resto, sapeva perfettamente come prendere una donna, quale zona stuzzicare, per quanto tempo e in che modo, ma ciò non mi importava, perché quello che davvero mi interessava era che, finalmente, sotto il suo corpo c'era il mio.

Decise allora di voler indagare più a fondo, andando ad esplorare quel mare ignoto ed incontaminato, infilando prima un dito, delicatamente, senza arrecarmi troppo dolore. Il primo impatto non fu piacevole, dovetti ammetterlo, infatti mi sfuggì un leggero urlo, che poi lasciò spazio ad ansimi e piacere, facendomi divenire il respiro più profondo e rumoroso. Con fare audace, decise allora di intensificare l'esplorazione, mettendomi sempre a mio agio in prima battuta. Forse stavo finalmente per conoscere cosa significasse raggiungere il punto massimo dell'appagamento, sentivo le fiamme bruciare ogni singolo organo, il sangue ribollire vorticosamente dentro i vasi, pulsare con maggior violenza ed indignazione. Fu proprio in quel momento che smise, ritraendo le dita e lasciandomi un veloce bacio sulla fronte.

Mi aveva lasciata così, appesa, se solo abbassavo lo sguardo, potevo intravedere il vuoto assoluto, pronto a risucchiarmi e portarmi via con sé. Che cosa gli stava passando per la testa? Forse si stava pentendo di tutto?

Levi si sdraiò su di me, facendo ben leva sulle braccia, per evitare di darmi troppo peso, così di permettere alla cassa toracica di espandersi per bene. Avvicinò le labbra al mio orecchio, leccando fugacemente il lobo.

-Promettimi, Marianne, di diventare colei che mi ripoterà sempre in vita, ora e sempre -pregò, guardandomi dritta negli occhi, come a sprofondarci. C'era sincerità in quella richiesta, trapelava ora più che mai la necessità di poter ricominciare a vivere con almeno quel poco di serenità, che si meritava, anche se ardua in tempi come questi. Stava ricercando il suo spazio nella mia vita, desideroso di cominciare a muovere i passi verso in futuro indubbiamente incerto, ma purché fossero fatti insieme. Nel suo modo, così enigmatico e criptico, mi stava semplicemente chiedendo di amarlo.

-Te lo prometto, Levi -giurai, con una mano sul cuore, come se stessi facendo il nostro saluto usuale. Scandii tutte le lettere del suo nome, come quando si impara a parlare per la prima volta, e non nascondo che mi vennero dei brividi nel sentirmelo pronunciare. Ci avrei fatto l'abitudine, con il tempo.

Egli sorrise di rimando alla promessa appena concordata e, con una mano si abbassò i boxer, strofinando delicatamente la sua ardente erezione contro la mia parte più sensibile, bollente. Chiusi gli occhi, non appena ricevetti un primo affondo, piano, senza troppa fretta, lasciandomi abituare a quella novità. Avanzò con calma, ponendo una mano sotto la nuca, per avere una presa più salda. Si mosse ancora, stavolta incalzando di più la presa, facendosi più presente. Emisi un piccolo vagito, e poi ancora un altro ed un altro ancora. Presi il suo ritmo, cercando di andare a tempo e non provocare sbavature a quell'autentica melodia che era solo ed esclusivamente nostra, colorandola con i nostri respiri, con le vibrazioni degli ansimi, bagnandola del nostro sudore e liquidi vitali, un connubio perfetto.

Ma quella notte non solo feci per la prima volta l'amore, no, c'è dell'altro, di gran lunga più importante.

Quella notte mi scoprii, non solo dei miei vestiti; rivelai tutte le mie paure, ansie e timori ed egli promise di trasformarli in coraggio e determinazione. Gli raccontai i miei progetti, i viaggi e lui giurò di tenermi la mano mentre esploravo l'ignoto. Spiegai quali fossero i principi a cui credevo, gli ideali insegnati e, anche stavolta decise di accogliere e farli suoi, a modo suo, ma non finisce qui, no, c'è dell'altro: quella notte il Capitano si spogliò di tutte le sue debolezze, tirandole fuori una ad una, con fatica, ma ci riuscì, promettendo di insegnarli a conviverci ed accettarle, in quanto esseri umani; confessò le sue colpe, i peccati commessi ed io li perdonai, accompagnandolo nella loro espiazione. Si liberò delle tante corazze e maschere, obbligato a dover tenere per non mostrare segni di cedimento, le adagiò insieme ai suoi vestiti e decise di far respirare, seppur per poco, la sua pelle, regalandole puro ossigeno. Mi disegnò il mondo, il suo mondo, pieno di speranza, contornato da un alone di quiete e serenità, le cose che più gli mancavano, terribilmente. Tratteggiò i volti di quella gente, spensierati e felici, ne delineò figure amministrative, capaci di far prevalere onestà e rispetto reciproco. Mi piaceva quel suo universo, e ciò che mi piacque di più, fu quando mi chiese di viverci, insieme a lui, finché il tempo ce lo avrebbe concesso.

Dunque, non solo facemmo l'amore, mostrando i nostri corpi, ci confessammo ogni singolo segreto, custodito gelosamente nei meandri delle nostre menti, schiavando il lucchetto che li teneva segregati, permettendoci dunque di studiarci quanto più a fondo fosse possibile, apprezzando vizi e convivendo con i difetti.

Quella notte, capii per la prima volta chi fosse davvero Levi Ackerman, e lui, cominciò a conoscere, a poco a poco, Marianne.

 

 

 

The End.

Angolo Autrice:
Beh, dopo tanto tempo, volevo cimentarmi con questa nuova creazione.
Sono entrata in questo mondo di AOT da poco più di un mese, ma mi è entrato dentro abbastanza da far risvegliare la fantasia e la voglia di scrivere,
Spero che la lettura sia stata di vostro gradimento.
Un ringraziamento particolare va alla mia coinquilina, dolce ed impaziente, che si è dedicata nella realizzazione dell'immagine.
Grazie a chiunque leggerà, rencensirà o semplicemente si soffermerà a curiosare.
  
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