~Promise~
"Il
soldato Leadswood
È
atteso nell'ufficio del Capitano,
urgentemente".
Colpita.
Affondata.
Non
l'avrei passata liscia, non stavolta, ma del resto era giusto
così. Me lo
meritavo.
Quella
calligrafia perfetta e comprensibile parlava chiaro, le lettere
definite,
inequivocabilmente leggibili e precise decoravano la pergamena, senza
macchiarla ulteriormente di correzioni o quant'altro. Era tutto scritto
in
maniera così impeccabile, da far venire i brividi.
Il
messaggio era arrivato. L'ordine doveva essere eseguito.
La
rilessi giusto due o tre volte, inutilmente, non sarebbe servito per
mutare il
contenuto del messaggio.
Un
turbinio di supposizioni e pensieri invase la mia mente, potevo sentire
le
tempie quasi scoppiare. Era chiaro che di lì a poco avrei
dovuto preparare le
mie cose e lasciare il Corpo di Ricerca, buttando all'aria anni di
addestramento, sacrifici fatti, sangue e sudore versato per riuscire a
diventare la migliore. Il tempo passato insieme agli altri cadetti,
aiutandoli
nel perfezionare l'utilizzo del Movimento Tridimensionale, a ricercare
la
giusta combinazione tra velocità ed un buon colpo assestato,
rubare con gli
occhi da chi ha più esperienza di te, provare nuove
strategie e comprendere se
potessero essere davvero utili ed efficaci; tutto questo lo sentii
svanire,
solo leggendo quelle tre righe, divenne come fumo, prima denso e
appariscente,
ma che poi si dissolve nell'aria fino a mimetizzarsi a tal punto da
divenire
invisibile, irriconoscibile, dimenticato. Per non parlare poi dei
legami
instaurati con gli altri, i miei compagni, la famiglia che mi ero
costruita,
l'unica rimasta e che mi dava un motivo in più per
continuare ad andare avanti
ogni singolo giorno, nonostante la stanchezza si pronunciava sempre
più, succhiando
via qualsivoglia energia vitale, prosciugando il midollo, fino
all'ultima
goccia. Le perdite subite erano ormai impossibili da contare, troppi
corpi
mutilati e senza vita passarono davanti agli occhi, facendomi perdere
un
battito per ognuno di loro, obbligandoti a trattenere le lacrime per
non far
trasparire nessun segno di fragilità, perché non
puoi permettertelo, non devi
permettertelo, nonostante in quel momento la testa è pervasa
di mille e mille
dubbi, cerchi di trovare una motivazione valida del perché
continuare questo
sterminio, pensi che forse sarebbe meglio smettere e diventare preda
degli
eventi, affidando tutto al caso, ma poi, solo quando alzando lo sguardo
vedi i
visi di coloro rimasti in vita, capisci che abbiamo, tra le mani,
ognuno la vita
dell'altro ed è questo l'unico barlume di speranza che ti fa
andare avanti.
Non
volevo perdere tutto questo, ma me lo meritavo, oh sì che lo
meritavo.
Ripiegai
con cura il messaggio del Capitano, seguendo minuziosamente le
plissettature
lasciate dalla carta. La poggiai sul tavolo in legno truciolato, vicino
al
piatto sporco della cena, precedentemente consumata. Facendo una lieve
pressione con i palmi, mi alzai e scavalcai agilmente la panca su cui
sedevo.
Ero consapevole di lasciare incustodita la pergamena, ma del resto
tutti
sapevano cosa fosse successo e, allo stesso modo, si immaginavano chi
fosse il
mittente della missiva; e poi non c'era nessun segreto tra me ed i miei
compagni di squadra, non ve ne era motivo. La fiducia era la prima cosa
insegnata
da Shadis, non solo verso noi stessi, ma anche quella riposta negli
altri, del
resto o decidevi di fidarti, oppure potevi dire addio alla vita e,
viste le
circostanze, nonostante fossi in un primo tempo restia a riguardo, non
ebbi
scelta. Era difficile abbassare la guardia verso altri esseri umani,
specie in
momenti come questi, non potevi mai sapere quale male intenzionato ti
si
palesasse davanti all'improvviso, dal piccolo ladruncolo che
necessitava di un
pezzo di pane alla banda di ragazzi pronti a fare qualche bravata
adolescenziale, dal maniaco in astinenza da mesi e mesi, al pauroso di
turno
che implora in ginocchio l'aiuto di qualcuno; ma stando ventiquattr'ore
intense
a contatto con gli altri cadetti, osservando i loro modi di fare,
ascoltando le
loro teorie sul mondo e ideali, vedendo come non esitavano a porgere la
mano ad
un compagno ferito, nonostante il giorno prima avessero risolto un
presunto
litigio con una rissa, cominciai a schiavare i lucchetti che
incatenavano il
mio cuore, rimuovendo un tassello del muro emotivo volta per volta,
riscoprendo
quella fiducia nell'essere umano, che tanto mi ero negata.
Mi
avvicinai all'uscita della sala dove eravamo soliti consumare i pasti,
accompagnata dagli sguardi attenti e silenziosi degli altri soldati. Li
sentivo
i loro pensieri, forti e chiari nella mia mente, erano spaventati,
intimoriti,
rabbiosi e vendicativi, insomma un miscuglio di sentimenti che
entravano ed
uscivano ad intermittenza, bisbigliandomi qualcosa. Mancava solo una
decina di
passi, poi avrei fronteggiato il mio destino da sola, come era giusto
che
fosse.
-Possiamo
accompagnarti? -chiese Connie timido ed impaurito. La sua premura mi
rasserenò
il cuore, tuttavia, mi fermai sullo stipite della porta, dando loro le
spalle e
scossi il capo, abbastanza da far ondeggiare i capelli rosso ciliegia
disegnando un visibile "no".
-Ne
sei sicura? Siamo pronti a prendere le tue difese, qualsiasi cosa
accada
-rispose Jean, battendo violentemente un pugno sul tavolo, facendo
rovesciare
un bicchiere mezzo vuoto.
Mi
voltai verso di loro, allungando il lato sinistro della bocca a formare
un
piccolo e nascosto sorriso. Avrebbero rischiato la vita, contrastato il
volere
di un loro superiore, tutto per tenermi lì, ma non potevo
permetterlo, non
avrei mai usato la loro innocenza.
-Non
ce n'è bisogno, davvero, del resto non vorrà
restare senza il suo miglior
soldato, non trovate? -mentii, cercando di non far tremare la voce,
inventando
un tono deciso e convincente. Ma chi volevo prendere in giro? Di certo
non loro
e tantomeno me stessa. Sapevo benissimo quali fossero le conseguenze
delle mie
azioni azzardate e che sarei stata punita in maniera esemplare, dinanzi
agli
occhi di tutti i miei compagni, i quali dovevano prendere il mio
castigo come
monito a non disobbedire mai agli ordini di un superiore, pur se non
condivisibile con le proprie idee e strategie. Nonostante lottassimo
per
liberare l'umanità da una razza che ci stava portando
all'estinzione, uccidendo
ogni singolo giorno innumerevoli vite innocenti e non, senza badare a
condizioni sociali, sesso e razza, all'interno dell'Armata Ricognitiva
tutte le
nuove reclute dovevano sottostare a disposizioni e comandi di chi aveva
un
grado superiore al proprio, pur se non concordi con quanto impartito,
poiché
totalmente discordanti con altrui principi ed ideali. Molto spesso ci
si
ritrovava ad eseguire ordini scomodi, che purtroppo prevedevano il
lasciar
indietro chi fosse rimasto in balia delle grinfie di un gigante, per
ridurre le
perdite ed il numero dei feriti, talvolta era necessario continuare a
cavalcare
verso la meta prestabilita, udendo le grida strazianti dei tuoi ,
mentre
venivano mutilati, amputati dei loro arti, si riusciva perfino a
percepire lo
scorrere incessante del caldo sangue che, di lì a breve,
sarebbe divenuto
l'unica traccia rimasta della vittima. In momenti come quelli capivi
quanto tu
potessi essere impotente dinanzi ai titani, come fosse essenziale
continuare a
migliorarsi, esaurire le proprie energie negli allenamenti, gettarti a
terra
sfinito ed esausto, con il solo scopo di essere il migliore, la spalla
d'appoggio per i più deboli, con la speranza di poterne
salvare almeno uno in
più, nella prossima spedizione. Alcuni ordini erano davvero
brutali, quasi che
ti inducevano a pensare che, chi ti stesse comandando, non fosse del
tutto
umano e che il suo unico scopo fosse quello di utilizzarti come carne
da
macello, per potersi salvare la pelle. Continuare ad avere fiducia nei
tuoi
superiori era la parte più insidiosa e difficile da
eseguire, loro non potevano
capire cosa si potesse provare nell'assistere alla morte dei proprio
compagni,
solo perché era stato ordinato di non contrattaccare; queste
erano tante
supposizioni fatte, dette e ridette dagli altri soldati, i quali
però si
dimenticavano sempre di un piccolo particolare, ossia del passato dei
nostri
caposquadra. Anche loro furono delle reclute, dei cadetti, dei soldati
di
ordine inferiore; loro, come tutti noi, dovettero allenarsi duramente,
fare
sacrifici e, allo stesso modo, affrontare ed eseguire comandi impartiti
dall'alto, per quanto non condivisibili alle volte, ma strettamente
necessari.
Tutti loro avevano subìto delle perdite importanti, alcuni
anche recentemente,
molti avevano esternato le proprie paure, fragilità, la
stanchezza regnava quasi
imperturbabile tra i veterani dell'Armata Ricognitiva, sfiniti dal
susseguirsi
degli eventi, mortificati per aver perso soldati che non erano riusciti
a
riportare alla base, nonostante avessero dato loro determinati ordini,
eppure
in certi casi andavano fatte delle scelte: perdere uno per riuscire,
almeno, a
salvarne di più; in realtà cercavano solo di
proteggere tutti quanti noi.
Eppure,
quel giorno fui proprio io disobbedire, a fronteggiare un mio
superiore, per
non aver eseguito un comando impartito e stavo andando a pagarne tutte
le
conseguenze. Non riuscii a tenere a freno ciò che si
scatenò in me non appena
udii il comando del Capitano, per quanto mi sforzassi di tenere a bada
il voler
prevalere dei miei pensieri e supposizioni, quella volta non potei
contrastarli. Erano rimasti sopiti tanto a lungo che bramavano
vendetta,
desideravano affermarsi violentemente, peccato che la loro prepotenza
non fece
che aggravare la situazione. Nonostante fossi consapevole di aver
peccato di
insubordinazione, mentre mi facevo strada verso la mia condanna,
continuava a
rimbombarmi in testa il suo ordine e, a distanza di tempo, le mie
supposizioni
ed i miei principi continuavano a darmi man forte, battendomi le mani
sulle
spalle, in segno di aver fatto la cosa giusta.
Non
era tanto la punizione che mi spaventasse in quel momento, sicuramente
avrei
passato il resto della settimana a rassettare l'intero casolare,
facendo
attenzione a non lasciare nessun briciolo di polvere, neppure sotto i
tavoli
della zona pranzo; in aggiunta a ciò, prevedevo un aumento
delle ore di
allenamento, intensificando il corpo a corpo e l'utilizzo del Movimento
Tridimensionale, il tutto si sarebbe conclusione con una riduzione
della
razione di cena e colazione. Sebbene avessi ipotizzato di dover fare i
bagagli
e tornarmene dal nulla da dove provenivo, restando vittima e preda dei
giganti
che ormai scorrazzavano liberi nel mio villaggio, la mia parte
razionale decise
di dar una svegliata a quella emotiva, chiedendole bruscamente di
smetterla di fantasticare
in maniera melodrammatica e plateale, non c'era tempo per queste
sceneggiate,
lo sapevano tutti, perfino la modestia in persona ammetteva che io
fossi una
tra i miglior soldati del 104° Corpo di Addestramento Reclute,
nonché soldato
del Corpo di Ricerca.
Non
era l'accettare la sentenza, ma dover fronteggiare a tu per tu chi
amavo,
questo mi faceva aumentare i battiti cardiaci, intensificando
l'afflusso di
sangue ai muscoli, visibilmente contratti ed in tensione, per non
parlare poi
di come sentissi un ammasso di rocce, depositarsi pesantemente
all'altezza
della bocca dello stomaco, suscitandomi ansia e paura allo stesso tempo.
All'inizio
pensai fosse solo una piccola cotta, quelle che normalmente si prendono
per i
ragazzi taciturni e tenebrosi, per quelli che si celano sotto un alone
di
mistero per non scoprirsi agli altri e mostrarsi più
accattivanti ed
irraggiungibili; pensai davvero fosse solo un'infatuazione che si
sarebbe
risolta nel giro di qualche mese, come solitamente accade, avrei
iniziato a
prendere consapevolezza che una relazione del genere fosse impensabile
ed allo
stesso tempo impossibile, oltre al fatto che, senza ombra di dubbio, io
non ero
assolutamente il tipo di ragazza che potesse mai interessargli, tante
ce ne
erano più sensuali, intriganti e belle di me. Ero davvero
sicura fosse solo un
abbaglio, un momento; il fatto è che ogni giorno cominciai
sempre più ad
innamorarmi del modo con cui osservava i nostri allenamenti,
controllando come
eseguivamo gli spostamenti ed il combattimento corpo a corpo,
correggendo il
più delle volte, il modo con cui impugnavamo le armi,
mostrandoci modi più
efficaci, incisivi e mortali. Mi innamorai del suo spostarsi tra i
tetti della
città, del suo volare di ramo in ramo, come tutto questo
fosse qualcosa che
conoscesse chissà da quanto tempo ormai, sembrava lo facesse
da sempre;
lanciava un rampino in un punto ben preciso, per poi ritirare il cavo
all'interno del marchingegno, raggiungendo una distanza tale da restare
quel
minuto sospeso nell'aria, per poi ripetere la stessa operazione.
Conoscevo a
memoria il modo con cui osservava un gigante e si preparava ad
ucciderlo:
solitamente piegava leggermente il ginocchio destro, prima di darsi lo
slancio
per raggiungere l'abominio, dopodiché recideva le caviglie
del titano con dei
colpi ben assestati, impedendogli la fuga, toccava poi a polsi e
spalle,
tagliando minuziosamente i fasci muscolari della bestia, non
consentendogli
altri movimenti avventati, solo allora, quando era sicuro di averlo
immobilizzato,
si levava nell'aria e, prendendo velocità, iniziava a
roteare, tenendo le lame
una come ci insegnò Shadis, mentre l'altra decorreva
parallelamente al terreno,
ciò gli permetteva di aumentare la rotazione,
nonché di penetrare più affondo
nella nuca del gigante. Tutti questi trucchi li aveva sperimentati da
solo,
allenandosi fino allo stremo delle sue forze, non a caso era conosciuto
come il
soldato più forte dell'umanità.
Il
suo essere così maniaco dell'ordine e della pulizia, la
meticolosità con cui ripuliva
le armi con il suo fazzoletto che, prontamente si preoccupava di lavare
una
volta tornati alla base, l'irritabilità che suscitava in
tutti noi quando
riusciva ad individuare l'unico angolo rimasto sporco, per la
difficoltà nel
conciliare tempo e precisione, quasi fosse più difficile di
combattere i
giganti uno ad uno; insomma tutto questo mi fece innamorare di lui, i
suoi
silenzi, le parole non dette ma pensate e ripensate, gli sguardi
lanciati e poi
ritirati, tutto, davvero tutto.
Poggiai
una mano sulla ringhiera in legno truciolato, per poi salire uno
scalino per
volta, con una lentezza quasi disumana. Non era da me perdere tempo,
specie
dopo essere stata convocata in maniera urgente dal Capitano, ma dovevo
guadagnare terreno per poter frenare le emozioni, le quali se la
stavano
spassando al solo pensiero che di lì a poco avrei varcato la
soglia
dell'ufficio di Levi Ackerman. Sentii delle piccole schegge depositarsi
sul
palmo della mano, tanto era umido e bagnato da riuscire a catturare
tutte quelle
piccole particelle su di esso. Provai a sfregare le dita le une contro
le
altre, con la vana speranza di poterle asciugare almeno quel poco
necessario,
spalmandole per bene sui pantaloni della divisa; il lavoro fu
pressoché
inutile, dato che cominciarono a sudare ancor più di prima.
Mi misi a contare i
tempi di inspirazione e quelli di espirazione, cercando di incanalare
tanto più
ossigeno possibile per avere la mente fresca, ma soprattutto libera da
qualsivoglia pensiero emotivo e sentimentale, che non vedeva l'ora di
palesarsi
nell'esatto momento in cui avrei varcato la porta dell'ufficio.
Nascondere
i sentimenti era facile quando c'erano le mie compagne a sostenermi ed
appoggiarmi. Ovviamente mentire su ciò che provassi era, in
prima battuta molto
stupido ed infantile, dopo tutto il tempo passato nella stessa stanza,
sul
campo di battaglia e d'addestramento, ognuna conosceva le debolezze e
le virtù
delle altre, i difetti ed i pregi, vennero accolti sebbene non sempre
tollerati, i segreti e le confessioni erano ormai all'ordine del
giorno,
regalandoci quei momenti di relax tanto sognati durante la giornata; in
secondo
luogo avere il sostegno di qualcuno era sempre meglio che non averlo
per
niente, malgrado mi prendessero in giro tutte le volte che il Capitano
passava
in rassegna su ogni coppia, controllando se stessimo eseguendo i
movimenti nel
modo corretto, lì le risatine e gli occhiolini erano un
classico, per non
parlare poi dei colpetti di spalla, ricevuti mentre eravamo impegnati a
tenere
una riga compatta e precisa, osservandolo nel suo andare avanti ed
indietro,
nell'intento di spiegare su cosa si basasse l'allenamento del giorno.
Le
acrobazie che dovetti fare per non mostrare il rossore del viso furono
a dir
poco esemplari, la nonchalance con cui mi coprivo le guance grazie alla
mantella verde, portata con tanta rapidità all'altezza del
naso, quasi da
provocare una folata di vento, divertivano e non poco le mie compagne,
ma del
resto avevo trovato il giusto compromesso per potermi guadagnare il
loro appoggio
e lealtà; ricordo ancora come risolvettero quell'episodio in
cui un soldato si
avvicinò a noi, borbottando ed imprecando contro Levi,
colorandolo di insulti
molto ambigui e riluttanti, se non fosse stato per la loro dialettica e
capacità di cambiare repentinamente il discorso,
probabilmente mi sarei
ritrovata, in primo luogo ad essere continuamente presa in giro dagli
altri per
la cotta appena rivelata pubblicamente, in seconda mandata quel rompi
scatole
avrebbe passato i restanti sei mesi, moribondo sul letto d'ospedale.
Finii
di salire la rampa di scale, arrivando finalmente al piano superiore.
Da lì,
imboccai il corridoio sulla destra. Era completamente deserto, quasi da
far
venire i brividi, un silenzio che da troppo tempo non riuscivo a
percepire,
visto i recenti avvenimenti ed il trambusto che regnava dentro la base;
assecondai quella quiete caratteristica della zona, cominciando a
spostare il
peso del corpo sulle punte dei piedi, flettendo leggermente le
ginocchia per
facilitare i movimenti in avanti delle gambe. Sembravo un ubriacone
che, a mala
pena, riesce a capire dove si trova e, goffamente, ondeggia, avanzando.
Ero
talmente poco abituata a tutta quell'assenza di rumore, che il solo
pensare di
sentir il tacco dei miei stivali rimbombare sul pavimento, potesse in
un certo
modo risvegliare qualche belva od abominio rinchiusa e nascosta
nell'androne,
pronta ad assaporare la propria preda. Da dove mi trovavo, non si
sentiva
neppure il martellare della pioggia incessante, che cadeva
copiosamente, come a
voler penetrare all'interno della dimora, inondandoci della sua
violenza,
ripulendo ogni minima traccia di pensiero, dubbio, rimasto lievemente
sulla
cute. Nulla, solo io, quella porta ed il silenzio glaciale.
Feci
un respiro, gonfiando a pieno i polmoni, ne avevo bisogno. Alzai la
mano destra
serrata in un pugno, aspettando di colpire la porta di color mogano,
unico
ostacolo a separarmi dal patibolo. Il cuore cominciò ad
accelerare i battiti,
quasi volesse uscire dal petto e scappare il più lontano
possibile. Potevo
sentire le vene pulsare violentemente, tanto dovevano contenere la
violenza con
cui stava giungendo il sangue a riempirle. Il cervello e la ragione,
sua fedele
alleata, misero in moto tutti i neuroni necessari, agganciando e
facendo partire
sinapsi tra l'uno e l'altro, per cercare di stabilire una
lucidità, che non ne
voleva proprio sapere di palesarsi, troppo difficile emergere in mezzo
a quel
vortice emotivo e sentimentale.
-Entra
Leadswood -ordinò la voce ovattata dall'altra parte. Sgranai
gli occhi,
incredula e allo stesso tempo meravigliata. Possibile che fosse in
grado di
percepire i miei passi, nonostante l'impegno nel renderli il
più felpati?
Evidentemente ero un pessimo felino. Oppure che abbia percepito la mia
inalazione? Lo trovo alquanto strano, non immaginavo di aver fatto
così tanto
rumore, ma del resto potevo aspettarmi di tutto dal Capitano, motivo in
più che
mi fece innamorare, il suo essere così fastidiosamente e
maledettamente
intuitivo e l'azzeccarci la maggior parte delle volte, mi provocava
quella
sensazione di nervoso a tal punto da mutarsi in un'ammirazione
infinita, anche
troppo poco razionale.
La
mano alzata ricadde delicatamente sulla maniglia a forma di coda di
volpe,
color ottone. Feci una leggera pressione verso il basso e spinsi la
porta in
avanti. "Benvenuta alla forca" pensai tra me e me.
Dire
che la stanza fosse meticolosamente ed impeccabilmente in ordine, era
forse la
cosa più ovvia che ci si potesse aspettare da Ackerman.
Perfino la montagna di
scartoffie che si ergeva sopra la scrivania in ebano, mostrava una
precisione
tale da far venire i nervi, i fogli erano disposti gli uni sopra gli
altri, in
maniera tale da far allineare tutti i quattro angoli, disegnando una
linea
perpendicolare alla superficie dello scrittoio, che nemmeno una squadra
di
ingegneri e scienziati sarebbe mai riuscita a disporli con
così tanta
accuratezza; mi fece venire i brividi, aggiungendosi a tutti gli altri
motivi
per cui organi interni, cute ed arti cominciassero ad accennare un
lieve
tremolio.
Lo
trovai lì, seduto sul tavolino, intento a compilare i
rapporti degli ultimi
mesi. Tra l'indice destro ed il dito medio impugnava la penna d'oca di
un color
nero con sfumature bluastre, mentre con il pollice esercitava una
leggera
pressione sulla parte inferiore dell'utensile, per avere una presa
più salda e
decisa.
-Pensi
che la porta si chiuda da sola? -chiese, facendo un cenno con la testa
in
direzione dell'entrata della stanza. Scossi un attimo la testa,
ritornando alla
realtà. Per circa mezzo secondo, o forse più, mi
ero completamente estraniata
dal mondo, focalizzandomi solo nel vederlo muovere elegantemente la
mano sopra
la pergamena. Oh beh, cominciavo proprio bene! Ackerman 1, Leadswood 0,
se ci
arrivavo almeno.
Gli
diedi per un attimo le spalle, preoccupandomi di richiudere
silenziosamente la
porta e cercando di farmi passare quel visibile rossore, apparso in
viso per la
figuraccia appena fatta, fortuna che ero il soldato migliore!
Non
appena sentii il "click" che fece la porta, andandosi ad incastrare
perfettamente nella serratura, il mio cuore perse un battito. Ora ero
veramente
in trappola, da lì a breve il mio calvario sarebbe iniziato.
Concentrai tutte
le mie energie nelle gambe, cercando di tenerle più stese
possibili, contrastando
il loro cedere al tremolio. Era la prima volta che mi capitava di
trovarmi così
vicino al Capitano, c'erano sì e no dieci passi di distanza.
Il vortice allo
stomaco divenne sempre più largo, aumentando
vertiginosamente, quasi ad
inghiottire fegato, pancreas e buona parte dell'intestino; di
lì a poco mi
avrebbe risucchiata e forse non desideravo altro.
Ripose
la penna dentro l'apposito calamaio colmo d'inchiostro, nero quanto i
suoi
capelli. Fece scorrere la sedia all'indietro, senza far il
benché minimo
rumore, quanto bastava per permettergli di liberare le gambe da sotto
la
scrivania. Si alzò con un'eleganza da togliere il fiato,
facendo una lieve
pressione con la mano sinistra sul tavolo. Indossava una camicia
bianca,
talmente candida e pulita che faceva quasi male alla vista fissarla,
come
quando, da bambini, si cerca di osservare il sole, aprendo sempre di
più gli
occhi per cercare di contrastare la violenza dei suoi raggi, ma poi
finisci per
cedere, perché senti gli occhi bruciare e chiedere
pietà, chiudendosi di colpo,
unico loro mezzo di difesa. Non aveva il suo solito colletto notai,
magari
avevo beccato proprio il momento in cui aveva deciso di lavarlo. Le
gambe erano
vestite con un pantalone lucido, dello stesso colore dei suoi capelli
corvini, abbastanza
aderenti, a tal punto da far intravedere i muscoli ben definiti delle
cosce.
Cominciò ad avanzare verso di me, annullando a poco a poco
la distanza che ci
separava. Persi un battito, o forse due, avevo perso il conto ormai di
tutte le
volte che mi fece mancare il respiro. Sentii il cuore risalire fino
alla gola,
come ad uscire dalla bocca e scappare via, troppo difficoltoso reggere
quella
situazione, troppo scoperte le mie emozioni. Dovevo assolutamente
reagire, non
potevo lasciare che i sentimenti prendessero il sopravvento,
poiché sicuramente
mi avrebbero portato a fare qualche follia che non avrebbe fatto altro
che
peggiorare la situazione in cui vertevo. Spremetti le meningi fino a
spolparle
della loro sostanza, pregai con tutta me stessa la ragione,
affinché mi desse
un segno, un consiglio per poter fronteggiare tutto questo, non poteva
abbandonarmi, non adesso, la lucidità doveva a tutti i costi
farsi strada tra i
fitti rovi e nodi lasciati dalle sue rivali, furbe e meschine. Certo,
era giusto
che esternassi ciò che provavo, d'altronde non potevo
reprimerlo per sempre, ma
non così, non in quella situazione.
Ad
un tratto l'adrenalina riuscì a toccare tutti i punti
periferici che
l'attendevano con ansia: stesi forte le ginocchia, unendo cosce e piedi
tra
loro, tirai indietro più che potevo l'addome,contraendo gli
addominali, alzai
leggermente il mento verso l'alto, con la mano destra mi diedi un pugno
sul
seno sinistro, talmente forte fu l'urto che dovetti soffocare un
leggero
lamento mugolato, la sinistra, invece, si posò dietro la
schiena, sempre
serrata e compatta.
-Mi
avete mandato a chiamare, Capitano? -domandai, con tono risoluto e
deciso.
Però, di bene in meglio insomma... era ovvio che mi stesse
aspettando, non
avevo forse ricevuto una pergamena poco fa con su scritto che ero
richiesta
d'urgenza? Non aveva per caso chiamato il mio nome cinque minuti prima,
quando
ero ancora fuori dalla porta? Bene, Marianne, brava, stai andando alla
grande!
-Che
perspicacia, Leadswood -mi prese in giro, di risposta. La pessima
figura si
faceva sempre più strada all'interno di quell'ufficio, per
non parlare poi dei
rivoli di sudore, che pian piano si stavano palesando sulla fronte,
intenti a
cadere lungo il volto. Non potevo di certo asciugarmi con il dorso
della mano,
uno perché non avevo ancora ricevuto l'ordine di riposo, e
in secondo luogo il
Capitano non avrebbe mai tollerato un gesto così poco
igienico, potevo
rischiarci davvero il posto nella squadra!
-Riposo
soldato -ordinò, mentre iniziava a girarmi attorno. Abbassai
le braccia,
mantenendole lungo il corpo, con i palmi verso le cosce. Non so bene
quando
ripresi a respirare a pieni polmoni, forse restai in apnea per altri
dieci
minuti buoni. Si muoveva lentamente, tanto da farmi intendere che non
mi sarei
ritirata presto da quella stanza. Teneva le mani incrociate dietro la
schiena e
gli occhi grigiastri, ridotti a delle fessure, puntati su di me; persi
il conto
di quanti cerchi fece attorno alla mia figura, ma quello che
è certo è che
passò sempre ed esattamente sullo stesso punto, disegnando
una circonferenza
talmente perfetta, che forse nemmeno un compasso sarebbe stato in grado
di
farlo. Faceva venire davvero i brividi, avevo quasi paura. Persi un
altro
battito.
Nel
mentre che studiava il mio corpo impalato, come una pantera pronta ad
assaggiare la propria vittima, non potei fare a meno di notare come
fossero
profonde e pronunciate le sue occhiaie, dipinte di un grigio tendente
al
violaceo, quasi livide. Da quanto non dormiva? Tra compilazioni dei
rapporti da
inviare al Quartier Generale, gli allenamenti e le spedizioni oltre le
mura,
aveva esaurito le ore a disposizione e subito un nuovo giorno non
tardava a
giungere. Era visibilmente esausto, stanco di tutti quegli avvenimenti
che
stavano accadendo troppo velocemente, senza lasciarci il tempo di
respirare, di
riprendere quel poco di ossigeno necessario per poter affrontare un
nuovo
scontro.
-E
così, Leadswood, ti diverti a disobbedire, eh?
-domandò sarcastico, fermandosi
dinanzi a me, puntando i suoi occhi dritti nei miei azzurro-grigio,
colore
impartito dal temporale che si stava scatenando fuori. Istintivamente
volli
sfuggire a quello sguardo inquisitorio e penetrante, per cui portai il
mento a
contatto con il collo, salvandomi. Non potevo resistere ulteriormente,
la
ragione stava per cedere, troppo grande era la pressione esercitata
dalle
arpie.
-Sai,
sei stata fortunata -continuò, accorciando la distanza che
ci separava.
Istintivamente cominciai ad indietreggiare. Quel pezzo di pavimento che
manteneva
ben lontani i nostri corpi era fondamentale e strettamente necessario,
non
potevo sopportare il suo viso troppo vicino al mio, non adesso, non
mentre mi
guardava con quegli occhi, dannatamente assottigliati ed aggressivi.
Mossi
dunque dei passi in direzione della porta, fino a quando, purtroppo,
non sentii
la schiena spalmarsi nervosamente sul legno che circondava la stanza.
Ero
visibilmente in trappola.
-Se
solo avessi usato tutte le mie capacità e strategie,
probabilmente non saresti
qui a raccontarlo, oppure te la cavavi con qualche arto mozzato
-terminò con un
tono ancora più roco e profondo del solito. Di nuovo, persi
un battito, era
davvero troppo, troppo vicino, stavo per impazzire.
-Ma
veniamo al dunque, Leadswood, sei consapevole di che cosa hai
combinato, sì?
-domandò avvicinando il suo volto al mio. Potevo avvertire
il suo respiro,
ardente e profondo, scaldarmi il viso. Non era molto più
alto di me, ma
abbastanza da costringerlo a flettere leggermente le ginocchia, per
portare le
sue labbra all'altezza delle mie, c'era sì e no un'unghia di
distanza. Stavo
tremando come un povero senza tetto, in balìa della pioggia
battente, mentre
cerca un riparo caldo ed asciutto; l'unica differenza era che i miei
tremori si
associavano a delle sudorazioni copiose, che non facevano altro che
aumentare
la temperatura corporea, difficile da mantenere costante.
Perché doveva starmi
così vicino? Che fosse questa la punizione da scontare?
Provare a non baciarlo,
nonostante le sue mosse?
-Sì
-emisi in flebile suono, quasi impercettibile a qualsiasi orecchio
umano, ma
non a lui.
-Ebbene,
non solo non hai fermato Mikasa Ackerman -sentenziò
poggiando la mano destra
leggermente sopra la mia spalla, spalmandola per bene sulla porta -ma
hai anche
lasciato in vita un gigante -disse, quasi digrignando i denti,
incupendo il
tono, come se stesse per divorarmi.
-Non
è un gigante... -sussurrai flebilmente, scuotendo lentamente
la testa, tenendo
comunque lo sguardo puntato sulle punte dei miei stivali.
-Come
dici? -chiese inarcando leggermente un sopracciglio, scandendo bene
quelle
parole. Oh bene, adesso sì che ero nei guai, ma del resto mi
ci ero infilata lo
stesso giorno in cui decisi di disobbedirgli, per cui tanto valeva
portare
avanti la mia teoria, ormai il danno era più che fatto.
-Non
è un gigante, è Eren -affermai, alzando
leggermente gli occhi, incontrando i
suoi, i quali si erano appena appena aperti più del solito,
nel sentirmi
rispondere con quel tono fermo e risoluto. Non so come ebbi fatto a far
uscire
quella voce, perlopiù con quel timbro, ma forse era arrivato
il momento di dire
la verità, di affrontare la questione una volta per tutte.
Le mie idee avevano
già fatto la loro parte, portandomi a disobbedire, a questo
punto non restava
altro che spiegare il perché ed il percome.
-Un
Eren senza controllo, totalmente privo di consapevolezza e
razionalità -ribatté
alzando il tono, battendo un pugno sulla porta, lasciando che il suono
rimbombasse dentro al mio orecchio. Di risposta, chiusi gli occhi e
strinsi i
denti, il rumore sordo delle nocche sul legno perdurò per
parecchi minuti.
-Cosa
lo distingue da un gigante? Cosa gli evita di sterminarci tutti?
-ringhiò
furibondo, mostrando i denti, aumentando i respiri, assordanti ed
affaticati -e
ciò che è peggio, hai lasciato Ackerman in balia
di quell'abominio, non era
forse la tua più fedele compagna? -mi minacciò,
provocandomi volontariamente.
"Ricordi
quando il Capitano, tornò da una spedizione, ricoperto di
sangue dal capo ai
piedi? Faticava perfino a poggiare la gamba destra per terra, per le
ossa rotte
e martoriate. Non riuscivi a dormire la notte, volevi
fare qualcosa
per poter alleviare le sue pene, per permettergli di guarire
più in fretta.
Ti deconcentravi ad ogni allenamento, commettendo i
più stupidi
errori che perfino le reclute non
farebbero. Mangiavi a fatica e,
prima di coricarti, andavi ad origliare cosa
dicessero Erwin
ed Hanji sulle condizioni di Levi. Ti sentivo mentre
ti giravi e rigiravi nel letto, a
stento
ti reggevi in piedi durante le spedizioni oltre le
mura, ma era
normale Marianne, quando sei innamorato l'unica cosa che desideri
è che la
persona che ami possa essere felice, qualsiasi cosa accada, che possa
vivere
una vita serena. Io ho il cuore che si ferma ogni volta che Zoe
convoca Eren per sottoporlo a quegli stupidi
esperimenti. Non si
rendono conto di come lo stanno riducendo, Marianne, sembra un
vegetale, a
stento mangia, sta perdendo peso e, ciò che è
peggio, è sempre più stanco e
spossato, l'unica cosa che lo tiene in vita è la
determinazione e
l'irascibilità. Ma quanto può durare ancora?
Quanto? Ci sono giorni in cui
vorrebbe prendere e mollare tutto, perché non si sente
all'altezza, perché ogni
esperimento finisce in un totale fallimento. Fosse per lui cederebbe
questo
compito a qualcun altro, tanto è bassa la stima che ha di
sé che, molte volte,
mi ha confessato di voler raggiungere sua madre. Se solo potessi fare
qualcosa,
Marianne, se solo riuscissi anche solo per un istante a portarlo via, a
fargli
respirare un po' d'ossigeno, a fargli comprendere quanto lui sia
importante,
per noi, per me, ma ogni giorno che passa, non fanno altro
che allontanarmi."
Le
parole di Mikasa mi tornarono alla mente come un fulmine che squarcia
in cielo
nella notte buia e priva di stelle. Come ricordo quella sera, si era
accovacciata sul mio letto, poggiando il capo corvino sulle mie
ginocchia,
implorandomi di aiutarla, di ascoltarla. Non era solo uno tra i soldati
migliori, era la mia spalla, colei a cui avevo confessato per primo i
sentimenti verso il capitano, l'unica che riuscì a dirmi "lo
so, provo lo
stesso". Gli anni passati insieme, tra reclutamento e Corpo di Ricerca,
mi
permisero di esplorare ogni sua qualità nascosta,
permettendole di aprire
quell'armadio e tirar fuori ogni scheletro impertinente. Ed io
l'ascoltavo,
mentre annotavo tutto ciò che servisse, per poter un giorno,
mostrarmi utile e
sdebitarmi della sua gentilezza, del suo spalleggiarmi ogni volta,
sempre.
Quel
giorno, nonostante l'ordine di Levi, io dovetti fare la
volontà della mia
amica.
-Non
è un gigante... -ripetei, aggrottando le sopracciglia,
alleggerendo il tono.
Non c'era bisogno di aggressività, ero ferma e decisa nelle
mie convinzioni,
avrei detto tutto quanto, senza tralasciare nessun particolare. Avrei
spiegato
per filo e per segno del perché decisi di disobbedire e in
quel momento, poco
mi importava se decidesse di sbattermi fuori dalla squadra,
già, nonostante
all'inizio era una tra le mie paure più grandi, sebbene
considerassi il dover
eseguire gli ordini come un obbligo, a prescindere da tutto e da tutti,
quel
giorno decisi che regalare una possibilità ed un pizzico di
libertà ai miei due
compagni, fosse il comando da dover concretizzare, dettato solo ed
esclusivamente dal cuore e dell'amore. Avevano bisogno di pace.
-È
Eren, e lo sarà sempre, se solo voi riusciste a togliervi
dalla testa di usarlo
solo come una macchina da guerra -proseguii. D'un tratto, smisi di
tremare, me
ne resi conto quando serrai le mani in due pugni ben saldi, andando
addirittura
ad incastrare le unghie dentro la pelle.
-Stai
attenta Leadswood, stai di nuovo peccando di insubordinazione -mi
redarguì,
allungando i lati della bocca in un ghigno malevolo e dannatamente
sensuale.
Perché stava sorridendo adesso? Perché in quel
modo? Mi stava facendo impazzire!
-E
voi vi state comportando in maniera disumana! -urlai allo stremo,
tendendo a
più non posso le corde vocali. Mi stavano stancando tutte
quelle provocazioni,
sebbene mi facevano ancor più innamorare di lui, ma non
dovevo cedere, il suo
essere così maledettamente attraente non avrebbe ostacolato
l'affermarsi dei
miei pensieri, del perché decisi di disobbedirgli. Sapevo
che, comportandomi in
quel modo, non facevo altro che diminuire le probabilità di
avvicinare Levi, di
mostrarmi a lui come una donna sensuale ed interessante, ma ero pur
sempre un
soldato e, cosa più importante, dovevo mostrargli che non
ero un'assassina.
Il
Capitano inclinò leggermente la testa verso destra,
mantenendo sempre quel suo
sorriso beffardo. Davvero quella situazione era così
divertente?
-Eren
Jaeger era un membro del 104° Corpo di Addestramento Reclute,
nonché soldato
dell'Armata Ricognitiva, proprio come Mikasa Ackerman, Armin Arelet e
me
-cominciai, buttando fuori quanta più aria potevo, cercando
di mandar via
quell'adrenalina di troppo, che imperterrita continuava ad attivare
tutti i
suoi centri bersaglio. Sentii, infatti, distendersi i muscoli facciali
e quelli
delle braccia, i denti non facevano più contatto tra di loro
e neppure le
ginocchia erano rimaste tirate al punto tale da fuoriuscire
posteriormente; un
briciolo di consapevolezza e lucidità avevano deciso di
prendere la parola, ad
ammorbidire il tutto ci pensò poi il bene ed il rispetto
verso coloro che
potevo definire "famiglia".
-Sottoporlo
in maniera così incessante e ripetuta agli esperimenti, non
fa altro che
indebolirlo e ridurlo un ammasso di carne ed ossa, privo di linfa
vitale per
poter proseguire -dissi, mentre sentii gli occhi iniziare a riempirsi
lateralmente di piccole lacrime, mantenendo comunque uno sguardo
aggrottato e
determinato. Non potevo e non dovevo piangere, avrei vanificato tutte
le mie
tesi e mi sarei mostrata una smidollata agli occhi di Levi, ma nel solo
iniziare quel discorso, potei sentire la voce di Mikasa ringraziarmi,
inginocchiandosi dinanzi a me, frapponendosi in quel misero spazio che,
fortunatamente, ancora c'era tra me ed il Capitano. La vidi
abbracciarmi le
ginocchia e poggiarvici una guancia, ripetendo continuamente "grazie
amica
mia". Ormai, avevo preso la strada giusta.
-Richiudere
la breccia del Wall Maria e poterci liberare dalle angherie dei
Giganti,
guadagnando, per non so quanto, un po' di calma e serenità,
è ciò che più
desidero al mondo, Capitano, proprio come lo volete voi e tutto il
resto della
squadra, ma non così, non martoriando un mio compagno
-incalzai volutamente su
queste ultime sillabe, scandendo per bene suoni e lettere, cercando di
farle
arrivare più nitide possibili alle orecchie di Levi, il
quale, di tutta
risposta, rilassò la bocca tornando con la sua tipica mimica
facciale: labbra
serrate in un'espressione del tutto indecifrabile ed incomprensibili,
occhi
ridotti a fessura, visibili solamente dai solchi di occhiaie che si
presentavano poco sotto. Non riuscivo a capire cosa stesse frullando
nella sua
testa, quali fossero i suoi pensieri e le risposte alle mie teorie, ma
del
resto era famoso per essere così enigmatico, criptico e
misterioso a tal punto
da renderlo, ogni giorno, più bello e seducente... oh no, lo
stavo facendo di
nuovo! Non adesso Marianne, no!
-Continua,
soldato -sussurrò a denti stretti, emettendo quasi un
ruggito.
Ah,
dimenticavo, persi un battito, naturalmente.
Schiarii
la voce, deglutendo rumorosamente, cercando di lubrificare il
più possibile il
tratto orofaringeo, spingendo la saliva a bagnarne ogni singola
componente.
Sembravo davvero un animale in gabbia, che batte la coda
incessantemente sulle
sbarre, in attesa di poterle frantumare, ma dovevo proseguire, io
dovevo
parlare.
-Eren
ha delle potenzialità, questo è sicuro, ma spesso
ci dimentichiamo che è un
essere umano come tutti noi -esclamai tutto d'un fiato, riprendendolo
per poi
proseguire. In quel breve periodo di pausa, potei notare gli occhi di
Levi
aprirsi leggermente, come se fosse stupito.
-Gli
esperimenti del Caposquadra Zoe sono necessari per poter richiudere la
breccia,
ma ciò a cui non facciamo caso è che stiamo
lentamente massacrando un nostro
compagno -dissi, riudendo le parole di Mikasa, i suoi continui
"grazie" e richieste d'aiuto.
-Costringendolo
ogni singolo istante a tramutarsi in un Gigante, senza lasciargli quel
minimo
periodo di pausa necessario a poter ristabilire almeno le
funzionalità vitali,
non facciamo altro che indebolirlo, ma non solo fisicamente -premetti
maggiormente su questo punto -tutte le trasformazioni fatte, dal giorno
in cui
rivelò il suo potere, fino ad oggi, non hanno fatto altro
che ucciderlo
moralmente -stoppai la frase.
-Ucciderlo
moralmente? -ripeté Levi, aggiungendo un tono interrogativo.
Davvero non ci
arrivava? Era così difficile comprendere ciò che
stessi dicendo, o forse stava
solo fingendo, giusto per darmi il tempo di respirare tra una frase e
l'altra?
Effettivamente, mi resi conto solo dopo di aver inalato una boccata
d'ossigeno
bella massiccia, stavo andando in apnea e nemmeno mi rendevo conto.
-Sì
Capitano. Gli esperimenti fatti fino ad ora non hanno portato a nessun
risultato, Eren ancora non riesce ad indurire la sua pelle, e questo lo
massacra, lo martoria dentro, come se tanti rovi lo avvolgessero
ripetutamente
al punto da stritolarlo e pungerlo, allo stesso tempo. Non solo il suo
animo è
dannatamente a terra, ma ogni giorno che passa si convince di non
essere
all'altezza delle nostre aspettative -stavolta non riuscii a trattenere
le
lacrime, ormai avevano iniziato a sgorgare copiosamente sul mio viso,
solcandolo a tal punto da lasciare delle rubre rosse ben visibili. Se
ne
accorse, oh come se ne accorse.
-Troppe
volte si condanna per non essere in grado di poter adempire al suo
compito,
altrettante confessa di voler farla finita, pregando che questa sua
peculiarità
potesse appartenere a qualcun altro, così da alleviare le
nostre sofferenze e
non sentirsi più un peso -cercai di non far tremare la voce,
ma fu impossibile.
Lo ricordo ancora, come Mikasa cercava in tutti modi di consolarlo,
senza
nessun risultato, tanta era la frustrazione del ragazzo da non riuscire
ad
ascoltare le parole di lei.
-L'irascibilità
che si dipinge addosso, sono solo uno scudo per non mostrare quanto in
realtà
stia morendo pian piano, mordendosi incessantemente le labbra, ormai
ridotte a
brandelli. Pensiamo che quel suo essere così aggressivo sia
sinonimo di
determinazione e forza, in realtà è solo una
corazza per non far vedere quanto
sia stremato -proseguii, stavolta ricordandomi di prendere fiato. Il
Capitano
mi guardava attento, senza muovere un singolo muscolo, mantenendo
immodificata
la sua espressione. Forse stava capendo dove volevo andare a parare,
probabilmente lo aveva capito già dal principio; magari era
questa la mia
espiazione, ammettere le proprie azioni e confessare la
verità, denudandosi
completamente di tutto ciò che si possa utilizzare per
proteggersi, una volta
messa alle strette...eppure, sentivo che c'era dell'altro, un qualcosa
che mi
sfuggiva, nascosta dietro la lettera di convocazione.
-Ecco
il motivo per cui perse il controllo quella volta, il sommarsi di tutti
questi
avvenimenti non gli hanno permesso di affrontare la questione in
maniera lucida
-dichiarai, proseguendo poi con la spiegazione -la verità
è che Eren ha tutte
le capacità per poter richiudere quella breccia,
è l'unico in grado di poterci
salvare da quegli abomini, se solo gli fosse concesso del tempo, non
tanto per
riposare, ma per sentirsi almeno apprezzato e degno del suo compito
-finii,
sentendo delle braccia cingermi la vita. Istintivamente poggiai una
mano
all'altezza dello stomaco, ma non c'era niente, Levi era sempre nella
sua
solita posizione. Sorrisi, ingenuamente, capendo solo dopo aver
avvertito un
profumo di pesco e ciliegio inebriarmi le narici.
"Grazie
amica mia", rimbombò nella mia mente.
-E
come spieghi quindi... -cercò di prendere la parola, ma fu
bloccato prima di
poter proseguire, intuendo subito dove volesse arrivare. Ormai avevo
capito il
gioco, non ci cascavo più.
-Non
ho condannato a morte Mikasa Ackerman, ho solo esaudito un suo
desiderio
-confessai, aggrottando le sopracciglia, tendendo i muscoli facciali a
tal
punto da farmi male.
-Desiderio?
-chiese, facendo il finto tonto. Oh andiamo, Capitano, ma davvero si
divertiva
in questo modo?
-Nonostante
sia così apprensiva nei confronti di Eren e gli stia
esageratamente troppo
addosso, in realtà è l'unica che può
insegnargli a credere in se stesso, a
regalargli quel barlume di speranza, salvandolo da
quell'oscurità fitta ed
ostile che grava sul ragazzo -affermai, con voce tremante e poco
sicura, non
tanto perché non credessi in quello che stessi dicendo, anzi
ne ero ogni giorno
più convinta. Il motivo principale del tentennamento era
dovuto al fatto che
tornano alla mente quelle parole, quella confessione così
struggente e
maledettamente vera.
"...se
solo riuscissi anche solo per un istante a portarlo via, a fargli
respirare un
po' d'ossigeno, a fargli comprendere di quanto lui sia importante, per
noi, per
me, ma ogni giorno che passa, non fanno altro
che allontanarmi."
Inutile
ormai nascondere le lacrime, erano diventate routinarie, talmente
copiose
scendevano da modificare il colore del mio viso, accendendolo di un
rosso
sempre più acceso.
Levi,
istintivamente, poggiò il dorso dell'altra mano vicino al
mio zigomo,
esercitando una lieve pressione, per frenare quel fiume in piena, misto
in
rabbia, tristezza e coraggio. Sussultai, sentendo il cuore risalire
fino a
sotto la trachea, cominciando ad accelerare i suoi battiti
più del solito.
Aveva le dita segnate da cicatrici e calli, al tatto si percepivano
leggermente
ruvide, ma ci fu qualcosa che mi colpì più di
tutte: erano così calde e
confortevoli, da farmi smettere di tremare.
-Non
ho mandato a morire i miei compagni, ho solo cercato di dargli quel
tempo necessario
affinché Eren possa essere finalmente pronto e Mikasa
può riuscirci, io lo so.
È l'unica che sa come prenderlo, sa quale punti sopiti deve
risvegliare in quel
ragazzo, lei e lei soltanto è in grado di compiere questo
arduo compito. È
colei che può davvero fargli capire quanto sia essenziale,
ma non come macchina
da guerra, come essere umano, quanto sia necessario che resti in vita,
quanto
sia amato -dissi quest'ultima parola, spingendo spontaneamente lo
zigomo contro
la mano di Levi, intensificando di più il contatto, sentendo
ora tutte le
falangi delle dita spalmate sulla mia pelle. Forse era davvero il modo
sbagliato e la situazione meno opportuna, ma mi ero scoperta a tal
punto da
voler rischiare il tutto per tutto, nascondendo tra i versi della mia
tesi, ciò
che provassi per lui.
-Non
volevo trasgredire, Capitano, mi creda, ma sentivo che in quel momento
dovevo
salvare i miei compagni, dovevo dar loro almeno la
possibilità di poter espiare
quest'agonia che tanto li affligge -confessai, singhiozzando appena
appena,
buttando giù ogni volta un può d'aria per
ristabilire il consueto ritmo. Avevo
chiesto scusa, finalmente l'avevo fatto, sviscerando tutto
ciò tenevo dentro,
aprendomi liberamente alla persona che amavo, spiegando le mie teorie e
le mie
idee, cercando di disegnargli tutti i miei schemi mentali, con la
speranza che
potesse, non tanto condividerli, ma quantomeno comprenderli.
-Sa,
ho sempre creduto, dopo anni e anni di lavoro su me stessa, che chi
pensa di
poter risolvere ogni avversità senza l'aiuto di nessuno, chi
si ostina ad
affrontare situazioni e problemi da solo, altro non ha che paura di non
riuscire a trovare qualcuno che possa accompagnarlo durante il cammino
-lo
guardai dritto negli occhi, sentii come il mio tono si fosse addolcito,
quasi
ad impastarsi di miele e gentilezza; il cuore aveva rallentato i
battiti,
riprendendo la sua solita frequenza, quella stanza da patibolo si era
trasformata in un enorme prato primaverile, pieno di fiori variopinti,
soffiava
una brezza fresca e leggera nell'aria, a confortare il mio animo che
ormai, si
stava sviscerando di tutto ciò che segretamente conteneva.
-La
verità, Capitano, è che tra le tante persone che
si incontrano lungo la via, ne
esiste sempre una che ci accompagnerà per tutta la vita, pur
se magari lontana
e destinata ad altri -abbassai lo sguardo, dire quella frase mi
pesò talmente
tanto, che dovetti rallentare la mia parlantina -ci sarà
sempre quella persona
pronta a sporcarsi di fango per noi, a starci accanto nonostante il
mondo ci
sia completamente avverso, ad allungarci la mano per rialzarci dopo
ogni
battaglia. Esiste quell'essere umano pronto a sacrificare la vita per
salvare
la nostra, a frapporsi tra noi ed i nostri carnefici, colei che non
potrà mai
farci del male... -dissi, socchiudendo leggermente gli occhi di un
azzurro
ormai limpido, per tutte le lacrime versate.
"...che
non potrà mai farci del male...".
Risuonò
questa frase per non so quanto tempo nella mia mente, tanto abbastanza
da far
mettere in moto le sinapsi e risvegliare i neuroni curiosi e ed
indiscreti,
desiderosi di dover porre quella domanda, quella fatidica questione che
tanto
mi faceva arrovellare le meningi, dopo quella volta.
-Hai
indubbiamente degli ideali molti profondi, soldato- esclamò,
facendosi uscire
una lieve risata all'inizio della frase. Lo guardai confusa, davvero
dopo tutto
quel discorso era l'unica cosa in grado di dire? Solo quella misera
frase? No,
indubbiamente c'era dell'altro, non stava aspettando che il momento
giusto,
come a farmi intendere che qualcosa si stesse nascondendo dietro quella
convocazione così urgente, un qualcosa che doveva e voleva
dirmi a tutti i
costi, eppure continuava a restare immobile, con quella sua espressione
passiva
ed indifferente, la quale aveva mutato leggermente solo due o tre volte.
Non
ce la feci più, quel dubbio era lì, sulla punta
della lingua, pronto a prendere
forma, suono e colore. Doveva chiederglielo, dovevo sapere.
-E
voi? Cosa vi ha spinto a risparmiarmi la vita quel giorno? Possedete
tutte le
carte per potermi mettere al tappeto, eppure avete esitato...
perché? -lo
provocai, facendo quella domanda tutta d'un fiato. L'avevo fatto,
finalmente
ora mi ero svuotata di tutto ciò che si contorceva ed
attanagliava dentro di me
da troppo tempo.
L'intervallo
che ci fu tra la domanda e la sua risposta, fu talmente lungo, da far
sembrare
che il tutto si fosse fermato, congelato nell'istante in cui emisi il
quesito.
Anche le membra si erano raggelate allo stesso modo, nemmeno si
vedevano più le
vene pulsare all'altezza delle tempie. Tutto completamente piatto ed
immobile.
Levi
decise di rompere quella quiete straziante ed anomala, non prima di
aver
accennato un sorriso beffardo ed irritante. Dio, se lo amavo!
-Che
intuito Leadswood, vedo che tutti i tuoi ragionamenti ti hanno portato
a
chiederlo, finalmente - pronunciò avvicinando il suo volto,
come se non lo
fosse già abbastanza. Il suo respiro incalzava sempre
più sulle mie labbra,
quasi del tutto secche per il dialogo precedente, ma non potevo in
alcun modo lubrificarle
con la lingua, avrei rischiato di toccare le sue e, per quanto non
vedessi
l'ora di farlo, non potevo.
-Sei
uno tra i migliori soldati della squadra, ridurti in pessime condizioni
sarebbe
davvero da idioti, nonché metterebbe ancor più in
svantaggio il Corpo di
Ricerca e ciò non posso permetterlo. Ma, non è
questo il punto -si interruppe,
mutando l'espressione sul suo volto, sostituendo a quel sorriso, con
una mimica
seria e concentrata, smussando gli spigoli caratteristici del suo
atteggiamento,
apparendo ora più mansueto e dolce del solito. Che cosa
c'era ancora da sapere?
-Marianne...
-fu la prima volta che udii il mio nome uscire dalle sue labbra. Persi
un
battito e feci un piccolo salto all'indietro, impattando sulla porta.
"Marianne...",
mai lo avevo sentito pronunciare con
così tanta morbidezza, premendo leggermente sulle doppie,
potei notare la sua
lingua incastrarsi sul palato duro, esercitando una lieve pressione,
quanto
bastava per farmi apprezzare il mio nome, forse per la prima volta in
tutta la
vita. Quasi stentavo a credere che lo sapesse, talmente abituata a
sentirmi
chiamata con il cognome, a tal punto da averci perso le speranze, e
invece, mi
sbagliavo di grosso.
-La
verità è che non potrei tollerare che altri
possano ferirti, figuriamoci se sia
io stesso a farlo -confessò, facendo scivolare la mano,
vicina allo zigomo,
prima sulla mandibola, fino a toccare il collo, esitando per un po'
sulla
clavicola.
Un
altro battito.
-Semmai
ti venisse fatto del male, potrei davvero impazzire definitivamente
-finì la
sentenza, proseguendo il suo percorso, sfiorando ora il tessuto bianco
della
camicia che ricopriva un seno, contando minuziosamente tutta la fila di
coste
appena sotto, raggiungendo la cresta iliaca, dove si posò.
Da lì, fece scorrere
il braccio lungo il fianco, cingendomi tutta la vita. Con delicatezza
mi staccò
dalla porta, quasi a sollevarmi, e fece aderire il suo corpo con il
mio,
permettendomi di adagiare il mento sulla spalla. L'altra mano la
incastrò tra
le fitte increspature dei capelli, quasi a volersi nascondere dalla
vista
altrui. Il suo pallore spiccava in mezzo a quel rosso vivo, sapeva di
essere
scoperto, ma allo stesso tempo si sentiva quasi protetto da quel mare
agitato
ed irrequieto. I suoi polpastrelli esercitavano una pressione delicata,
ma al
contempo decisa, come a voler entrare nella mia testa e carezzare il
sistema
nervoso.
Inutile
dire quale fu la reazione al suo gesto. Penso che mai prima di allora,
sentii
un calore così forte e penetrante, da pervadermi ogni
singolo tessuto, organo e
legamento, infiammandoli di un misto tra passione, confusione e
sorpresa.
Restai con gli occhi sgranati per non so quanti secondi, le braccia
lungo il
corpo, completamente immobile, mentre mi lasciavo abbracciare, potendo
percepire la contrazione dei suoi muscoli. Da quanto tempo lo
desiderassi era
cosa scontata, ma è superfluo confessare che mai avrei
voluto staccarmi da
quella presa. Mai.
-Non
credere che sia facile stare da questa parte, non lo è per
niente -disse con il
suo timbro roco e scuro, leggermente pizzicato da un udibile tremolio
-vedersi
cadere davanti agli occhi i propri soldati, i propri compagni,
è una condanna
che non augurerei mai a nessuno -si fermò, emettendo un
piccolo colpo di tosse,
quasi a soffocare qualcosa che stesse nascondendo. Sentii il mio collo
leggermente umidiccio, al che sgranai ancora di più gli
occhi. Levi stava
davvero piangendo?
-Ogni
giorno provo ad elaborare la strategia più consona per porre
fine a questo
massacro, passando le notti a studiare allenamenti, schemi, testando in
primis
su di me quanto possano essere efficaci, e puntualmente ogni
stramaledetto
giorno vedo gente cadere sotto il mio comando, persone che vengono
mutilate da
quegli abomini, compagni fidati perdere la vita -stavolta emise un
singhiozzo,
chiaro e nitido -e in tutto questo non hai nemmeno tempo per
compiangerli, che
subito devi rimetterti all'opera e calcolare tutto, da capo
-urlò questa ultima
parola, stringendomi più a sé, come ad
inglobarmi. Aveva bisogno di conforto,
stava semplicemente chiedendo aiuto, a me. D'istinto appoggiai i palmi
sulle
sue scapole, sentendo la definizione dei dorsali, incassando i gomiti
leggermente sotto le coste fluttuanti, come ad incastrarmi ancor di
più
quell'abbraccio.
-Non
chiudo occhio da non so quanto tempo, sento le forze venire sempre di
meno,
quasi da non meritare più l'appellativo "soldato
più forte
dell'umanità", tanta è la stanchezza che mi sta
risucchiando via -continuò
a buttare fuori confessioni su confessioni, stati d'animo,
verità nascoste e
mai dette a nessuno. Mi allontanò leggermente da quella
stretta, permettendomi
di potergli ammirare il viso. I suoi occhi grigi erano completamente
fradici,
potevo vedere la rima palpebrale colma di lacrime; le occhiaie era
diventate
traslucide, mentre le guance erano graffiate da striature rossastre,
mischiate
alle tante piccole cicatrici, datate e recenti, segni di battaglie
amare,
spedizioni fallite e perdite non volute, non dovute.
-L'unica
ragione che mi tiene ancora in vita, siete tutti voi, sei tu Marianne
-pronunciò tutto ciò quasi in un sussurro,
incollando la frangia corvina contro
la mia fronte pallida, leggermente sudata. Non potevo guardare da
nessun'altra
parte, se non i suoi occhi e forse, era tutto ciò che avessi
mai desiderato
fino a quel momento, poter stare così vicino a lui,
ascoltarlo ed accogliendo
ogni suo peccato.
-Potervi
salvare da tutta questa carneficina, permettervi di sopravvivere,
lasciarti
vivere, è tutto ciò che mi salva dall'oblio e
dalla pazzia. Sono appeso ad un
filo, basta solo un passo per farmi sprofondare, perciò...
-esitò un attimo,
provando a smettere di tremare. Lo sentii così fragile, a
tal punto che cuore e
ragione si commossero insieme, cercando di darmi tutta la forza
necessaria per
poter reggere i suoi dolori, le sue sofferenze. Cercai di
tranquillizzare i
suoi spasmi, massaggiandogli delicatamente il dorso, divaricando quanto
più mi
fosse possibile le dita, per poter toccare ogni singolo centimetro di
pelle.
-...Perciò,
se ciò che mi hai appena detto è vero e ci credi
fortemente, allora ti
scongiuro Marianne, sii quella metà che mi completa, sii
quella persona in
grado di tirarmi fuori da questa pazzia, perché davvero, da
solo, non ce la
faccio più -mi supplicò, lasciando scorrere le
gocce di pianto, depositatesi
prima nella parte bassa dell'occhio, in attesa del momento opportuno
per poter
salpare.
Rimasi
inerme dinanzi a quella proposta e mi ci volle un po' per
interpretarla. Un
brivido percosse la schiena, toccando ogni singola vertebra, dalle
lombari fino
ad arrivare a quelle dorsali, dandomi come una scossa. A quella
richiesta
disperata, sentii una morsa talmente tanto stretta al cuore, quasi da
lasciarsi
frantumare in mille piccoli pezzi. Mi stava affidando la sua vita,
voleva che
curassi quell'animo martoriato, che lo salvassi da quella tremenda
apatia.
Aveva bisogno che lo aiutassi a ritrovare la fierezza di un tempo, la
pace
perduta e tanto agognata. Il pianto colpì anche me, era
misto ad emozione e
sofferenza, non sapevo decifrare dove tendesse realmente, l'unica cosa
certa è
che finalmente ebbi delle risposte che cercavo da non so quanto tempo.
-Capitano,
avete la mia parola -giurai, accennando un debole sorriso, mentre,
mossa da non
so quale istinto primordiale, avvicinai le mie labbra alle sue,
colpendole con
un soffice bacio. Aveva la bocca così morbida, nonostante
fosse estremamente
sottile. Sapeva di tante cose: battaglia, coraggio, sofferenza, amore e
virtù,
proprio come me lo ero sempre immaginato.
Feci
in tempo a riaprire gli occhi, che subito mi staccai, prendendo
consapevolezza
del gesto appena compiuto. Da quando ero così audace? Forse
stavo correndo
troppo, magari andava fatto tutto con molta più calma,
gradualmente, come è
solito muoversi in questi casi, eppure sentii qualcosa consigliarmi di
farlo,
di buttarmi e permettergli di fidarsi di me, accettando la sua
supplica,
promettendogli la mia presenza.
Levi
mi guardò sorpreso, quasi dispiaciuto nell'aver interrotto
quel momento, ma si
raddolcì subito, distendendo le labbra in un sorriso pacato
e sincero.
-Mi
perdoni Capit..-fui interrotta da due dita che mi serrarono
delicatamente la
bocca.
-D'ora
in avanti, sono Levi -affermò in un timbro caldo e
rassicurante, con un velo di
sensualità che lo contraddistingueva. Mi sentii sciogliere
di tutto punto, a
fatica mantenevo ancora le ginocchia distese, ogni muscolo si stava
abbandonando al suono della sua voce, era la mia melodia preferita.
Riprese
da dove avevo interrotto, baciandomi con convinzione e passione.
Premette le
sue labbra a tal punto da schiudere ancor di più le mie,
assaggiandole con la
lingua, che passò lentamente sopra le screpolature, fino a
lambire i denti,
come se chiedesse il permesso di entrare. Lo accolsi, presentandogli la
mia,
lasciando che la esplorasse, mordesse e la facesse sua.
Fece
scivolare le sue braccia fino a sotto i glutei e, contraendo addominali
e
bicipiti, mi sollevò da terra, restando con la bocca unita
alla mia. Allacciai
le gambe dietro la sua schiena, avvicinando i nostri bacini, sentendo
la sua
eccitazione sempre più presente, facendomi visibilmente
arrossire. Mi adagiò
sul divano in pelle nera, lucido e ben tenuto, spostando fugacemente i
cuscini
per farsi spazio e guadagnare terreno. Dalla bocca, passò ad
assaggiare le
guance, gli zigomi, fino ad arrivare ai lobi dell'orecchio, suggendoli
appena
appena, quanto bastava per inumidirli. Scese poi lungo il collo,
baciando il
decorso della giugulare, mordendo la cute attorno.
Iniziai,
molto lentamente, a slacciare i bottoni della sua camicia, assaporando
il gusto
della sua pelle, sapeva di zolfo e biancospino, un connubio decisamente
bizzarro, ma maledettamente attraente. Lo assaggiai ancora, baciandolo
con più
passione e curiosità, scoprendolo pian piano. Non appena
feci scivolare le
maniche dell'indumento lungo le braccia, le notai, facendomi mancare il
respiro:
Erd
Gunther
Auruo
Petra
Ogni
cicatrice aveva un nome ben inciso, che si incastonava tra i muscoli
definiti
di Ackerman. Lasciai un bacio su ciascuna di esse, in segno di
preghiera,
raccogliendo la pelle tra le labbra. Sentii Levi sussultare ad ogni
tocco,
mugolando gemiti di piacere, misti a commozione, grato per quello che
stessi
facendo.
Non
tardò a privarmi della camicia anche lui, slacciandola con
molta più foga,
lambendo ogni centimetro di cute, pervadendola di brividi prima
sconosciuti.
Aveva un modo di baciare così delicato ed attento che mai mi
sarei aspettata,
tanta era la fermezza con cui affrontava le battaglie, quasi mostruosa
la
brutalità che sprigionava nell'uccidere i Giganti, che il
solo sentirlo così
fragile e passionale, fu davvero una sorpresa. Pizzicava la pelle del
seno
attento a non esercitare troppa pressione, prendendola con tutta la
mano,
premendo e poi rilasciando subito dopo. Un calore divampò in
me, pervadendomi tutta,
sentii il fuoco ribollire, specialmente all'altezza del basso ventre,
dove
risiedeva il fiore della mia essenza, non ancora violato da nessuno.
Levi
continuò a privarmi degli indumenti, preoccupandosi di
scoprire i miei seni,
piccoli e rotondi. Non resistette alla tentazione di assaggiarli,
carezzando i
capezzoli con la punta della lingua, compiendo dei movimenti rotatori,
fino a
renderli turgidi ed appuntiti, come uno spillo. Inarcai la schiena di
rimando,
come a facilitargli il lavoro, facendo leva sulla nuca che premeva
contro il
bracciolo del divano. Presi allora a calargli i pantaloni di velluto,
accompagnandoli nella discesa, carezzando i muscoli della coscia, le
ginocchia,
fino ad arrivare ai polpacci. Lasciai dei piccoli pizzichi, nel mentre
che tastavo
la sua pelle soda e martoriata dai segni di innumerevoli scontri. Quel
corpo
non era nient'altro che il connubio perfetto tra la precisione e la
sofferenza,
si poteva leggere la storia della sua vita: tutti i sacrifici, i duri
allenamenti, le morti scampate, i colpi presi e quelli assestati, c'era
scritto
tutto quanto e mi innamorai di ogni singolo centimetro, di ogni
sfregio,
promettendogli, ad ogni tocco, di guarirli e impedirne di nuovi.
Il
Capitano risalì verso il mio viso, guardandomi dolce,
lasciandomi nuovi baci in
punti già toccati, ma completamente diversi rispetto ai
primi. Fece scendere le
mani all'altezza dei fianchi, poggiandole sul bordo dei pantaloni che
non tardò
a sfilarli. Allora fu la volta dei glutei, li massaggiò a
dovere, per poi
passare alle cosce, fino a risalire lassù, dove solo un
piccolo lembo di stoffa
lo separava. Trattenni a sento dei sospiri, tanto era il piacere che mi
provocava quel tocco che era difficile da non esternare.
Si
mise seduto sulle ginocchia, guardandomi con uno sguardo che mi fece
mozzare il
fiato. Non avevo mai visto il suo viso così rilassato ed
appagato, mai prima
d'ora e ciò mi riempiva davvero il cuore.
Poggiò
una mano sul bracciolo del divano, mentre con l'altra iniziò
a tirar giù gli
slip, agganciandoli con l'indice. Ero completamente nuda ed inerme
dinanzi a
lui, mai mi ero ritrovata in queste circostanze con un uomo, ma tanto
avevo
desiderato che fosse lui il primo ad averne la possibilità,
a concedergli di
prendermi in tutto e per tutto, di affidargli il mio corpo e la mia
anima,
perché avrebbe trovato senza dubbio il giusto modo per
costudirli ed amarli,
senza far loro del male, senza farmi del male.
Si
chinò a baciarmi la fronte, poi la punta del naso, fino a
riprendere le labbra,
mentre con le dita, carezzava l'interno coscia, solleticando i punti
più
sensibili. Del resto, sapeva perfettamente come prendere una donna,
quale zona
stuzzicare, per quanto tempo e in che modo, ma ciò non mi
importava, perché
quello che davvero mi interessava era che, finalmente, sotto il suo
corpo c'era
il mio.
Decise
allora di voler indagare più a fondo, andando ad esplorare
quel mare ignoto ed
incontaminato, infilando prima un dito, delicatamente, senza arrecarmi
troppo
dolore. Il primo impatto non fu piacevole, dovetti ammetterlo, infatti
mi
sfuggì un leggero urlo, che poi lasciò spazio ad
ansimi e piacere, facendomi
divenire il respiro più profondo e rumoroso. Con fare
audace, decise allora di
intensificare l'esplorazione, mettendomi sempre a mio agio in prima
battuta.
Forse stavo finalmente per conoscere cosa significasse raggiungere il
punto
massimo dell'appagamento, sentivo le fiamme bruciare ogni singolo
organo, il
sangue ribollire vorticosamente dentro i vasi, pulsare con maggior
violenza ed
indignazione. Fu proprio in quel momento che smise, ritraendo le dita e
lasciandomi un veloce bacio sulla fronte.
Mi
aveva lasciata così, appesa, se solo abbassavo lo sguardo,
potevo intravedere
il vuoto assoluto, pronto a risucchiarmi e portarmi via con
sé. Che cosa gli
stava passando per la testa? Forse si stava pentendo di tutto?
Levi
si sdraiò su di me, facendo ben leva sulle braccia, per
evitare di darmi troppo
peso, così di permettere alla cassa toracica di espandersi
per bene. Avvicinò
le labbra al mio orecchio, leccando fugacemente il lobo.
-Promettimi,
Marianne, di diventare colei che mi ripoterà sempre in vita,
ora e sempre
-pregò, guardandomi dritta negli occhi, come a sprofondarci.
C'era sincerità in
quella richiesta, trapelava ora più che mai la
necessità di poter ricominciare
a vivere con almeno quel poco di serenità, che si meritava,
anche se ardua in
tempi come questi. Stava ricercando il suo spazio nella mia vita,
desideroso di
cominciare a muovere i passi verso in futuro indubbiamente incerto, ma
purché
fossero fatti insieme. Nel suo modo, così enigmatico e
criptico, mi stava
semplicemente chiedendo di amarlo.
-Te
lo prometto, Levi -giurai, con una mano sul cuore, come se stessi
facendo il
nostro saluto usuale. Scandii tutte le lettere del suo nome, come
quando si
impara a parlare per la prima volta, e non nascondo che mi vennero dei
brividi
nel sentirmelo pronunciare. Ci avrei fatto l'abitudine, con il tempo.
Egli
sorrise di rimando alla promessa appena concordata e, con una mano si
abbassò i
boxer, strofinando delicatamente la sua ardente erezione contro la mia
parte
più sensibile, bollente. Chiusi gli occhi, non appena
ricevetti un primo
affondo, piano, senza troppa fretta, lasciandomi abituare a quella
novità.
Avanzò con calma, ponendo una mano sotto la nuca, per avere
una presa più
salda. Si mosse ancora, stavolta incalzando di più la presa,
facendosi più
presente. Emisi un piccolo vagito, e poi ancora un altro ed un altro
ancora.
Presi il suo ritmo, cercando di andare a tempo e non provocare
sbavature a
quell'autentica melodia che era solo ed esclusivamente nostra,
colorandola con
i nostri respiri, con le vibrazioni degli ansimi, bagnandola del nostro
sudore
e liquidi vitali, un connubio perfetto.
Ma
quella notte non solo feci per la prima volta l'amore, no,
c'è dell'altro, di
gran lunga più importante.
Quella
notte mi scoprii, non solo dei miei vestiti; rivelai tutte le mie
paure, ansie
e timori ed egli promise di trasformarli in coraggio e determinazione.
Gli
raccontai i miei progetti, i viaggi e lui giurò di tenermi
la mano mentre
esploravo l'ignoto. Spiegai quali fossero i principi a cui credevo, gli
ideali
insegnati e, anche stavolta decise di accogliere e farli suoi, a modo
suo, ma
non finisce qui, no, c'è dell'altro: quella notte il
Capitano si spogliò di
tutte le sue debolezze, tirandole fuori una ad una, con fatica, ma ci
riuscì,
promettendo di insegnarli a conviverci ed accettarle, in quanto esseri
umani;
confessò le sue colpe, i peccati commessi ed io li perdonai,
accompagnandolo
nella loro espiazione. Si liberò delle tante corazze e
maschere, obbligato a
dover tenere per non mostrare segni di cedimento, le adagiò
insieme ai suoi
vestiti e decise di far respirare, seppur per poco, la sua pelle,
regalandole
puro ossigeno. Mi disegnò il mondo, il suo mondo, pieno di
speranza, contornato
da un alone di quiete e serenità, le cose che più
gli mancavano, terribilmente.
Tratteggiò i volti di quella gente, spensierati e felici, ne
delineò figure
amministrative, capaci di far prevalere onestà e rispetto
reciproco. Mi piaceva
quel suo universo, e ciò che mi piacque di più,
fu quando mi chiese di viverci,
insieme a lui, finché il tempo ce lo avrebbe concesso.
Dunque,
non solo facemmo l'amore, mostrando i nostri corpi, ci confessammo ogni
singolo
segreto, custodito gelosamente nei meandri delle nostre menti,
schiavando il
lucchetto che li teneva segregati, permettendoci dunque di studiarci
quanto più
a fondo fosse possibile, apprezzando vizi e convivendo con i difetti.
Quella
notte, capii per la prima volta chi fosse davvero Levi Ackerman, e lui,
cominciò a conoscere, a poco a poco, Marianne.
The End.
Beh, dopo tanto tempo, volevo cimentarmi con questa nuova creazione.
Sono entrata in questo mondo di AOT da poco più di un mese, ma mi è entrato dentro abbastanza da far risvegliare la fantasia e la voglia di scrivere,
Spero che la lettura sia stata di vostro gradimento.
Un ringraziamento particolare va alla mia coinquilina, dolce ed impaziente, che si è dedicata nella realizzazione dell'immagine.
Grazie a chiunque leggerà, rencensirà o semplicemente si soffermerà a curiosare.