Sotto
quali cieli ci ritroveremo
In
sleep he sang to me
In dreams he came
That voice which calls to me
And speaks my name
And do I dream again?
For now I find
The Phantom of the Opera is there
Inside my mind
(The
Phantom of the Opera, Nightwish)
L’ho
lasciato andare. È
qualcosa di cui mi pento ogni giorno.
Apro gli occhi,
sbatto le
palpebre e cerco di ricordare se l’ho sognato o meno.
M’infilo sotto le coperte,
raccontandomi la storia che si stenderà al mio fianco come
nella notte lontana
alla stazione di posta. La neve aveva ricoperto ogni cosa
d’un bianco mantello
e nell’irrealtà di quel paesaggio di sogno, fuori
dal tempo, ci incontrammo.
Thomas mi lanciò un’occhiata; per una sera, una
soltanto, dimenticò il passato
e i molti peccati a cui era incatenato e fu mio – fui sua.
Vivo
nell’illusione di un
suo ritorno, circondata da carte che parlano di lui e di quello che
è stato. Un
assassino, un mostro, il degno complice di una donna fuori di
sé – eppure
com’era bella, Lucille, in tutta la sua follia. Possedeva il
fascino e la
grazia di certi insetti nati per uccidere.
Anche le mie
mani sono
rosse, adesso. La chiamano autodifesa, dicono che non potevo fare
altro.
Stordita dai medicinali e zoppicante, non mi restò altro da
fare che fermare la
sua furia e salvarmi. Mento, ovviamente. Invento. Sono una scrittrice,
è la
cosa che mi riesce meglio raccontare storie. Lo faccio da sempre, da
quand’ero
bambina: intreccio cupe trame piene zeppe di fantasmi e lascio che il
filo si
srotoli svelando l’intrigo, l’inganno,
l’oscura magia che ha fatto nascere la
maledizione che si spezzerà solo all’ultimo
capitolo. Se solo la vita fosse un
romanzo! Se ne possedesse la linearità, la perfezione, la
struttura che alla
fine si ordina in uno schema preciso, ogni cosa sarebbe più
semplice, credo.
Invece quest’esistenza è un continuo sperare e
mentire e provare a dimenticare.
Se dovessi usare una metafora, direi che è un sentiero buio
e tortuoso, dove
spesso, nonostante tutti i nostri sforzi, siamo costretti a tornare
pieni di
sgomento sui nostri passi. Io, più di tutti, passo notti
intere a scrivere e a
riscrivere la stessa storia regalandole ogni volta un finale diverso,
ma
ugualmente tragico. Lo scopo è cancellare qualsiasi traccia,
perpetuare la
finzione, camuffare la realtà dietro la fantasia.
Le persone che
hanno letto il mio primo successo credono che
Crimson Peak sia autobiografico. Solo perché ho usato la
prima persona e
chiamato la protagonista col mio stesso nome, ritengono che ogni
evento,
battuta, nefandezza, sia reale. Sarebbero disposti a mettere la mano
sul fuoco
e a giurare che il libro non sia solo un romanzo, ma una testimonianza.
Io e il
mio editore abbiamo deciso di non smentirli. Fa bene alle vendite
alimentare
quest’aura di mistero e dipingere me come l’eroina
che sono stata, sì, ma solo
in parte. Il punto è che la letteratura è
finzione. È la valvola di sfogo di
uno spirito particolarmente sensibile, la versione edulcorata e
corretta dei sogni
e delle speranze che animano il nostro cuore, ma anche delle paure,
degli odi,
delle incomprensioni. Un gioco dove i ruoli si invertono o si
confondono,
arrivando fino a sparire. Ecco perché, forse, non dovreste
credere a tutto
quello che ho scritto.
Ho permesso che
fuggisse rinunciando
ad averlo al mio fianco perché nemmeno il mio patrimonio
avrebbe potuto
impedire che un tribunale lo condannasse a pendere da una forca.
È stata una
scelta presa in fretta, suggerita da Alan che aveva tutto
l’interesse di questo
mondo affinché lui se ne andasse, ma che non poteva certo
lasciarlo ferito
com’era[1].
Gli occhi di Thomas erano
blu e mi chiedevano muti dove fosse lei, Lucille. L’aveva
affrontata
confessandole di amarmi? La reazione di mia cognata, l’odio
che le illuminava
lo sguardo mentre mi inseguiva, mi suggerivano di sì, che le
avevo rubato
Thomas definitivamente, per sempre. Ma come poteva non essere
così?
Lei
rappresentava il
passato da dimenticare: era l’ombra di una madre troppo
severa, di un padre
brutale e violento. Nella piega serrata delle sue labbra che raramente
si curvavano
in un vero sorriso, c’era il lento e umiliante peregrinare
per l’Europa e il
mondo in cerca di una dote, di un finanziamento, di
un’occasione che, essendo
sempre negata, andava creata, conquistata. Predata. Io, invece, ero il
futuro.
La possibilità di essere qualcosa di diverso dal vessato
rampollo aristocratico
costretto a vivere in una casa che, degli antichi fasti, possedeva solo
una
vaga traccia. La speranza.
Sì,
gliel’ho portato via, alla fine. Solo che ho dovuto
rinunciare al suo sguardo blu che mi fissava come se potesse leggere
fin dentro
il mio cuore, alle labbra sottili che ho baciato troppo poco,
all’odore della
sua pelle. Colpa degli infiniti peccati di cui si era macchiato. Alla
gente del
paese e agli investigatori che ce l’hanno chiesto, io e Alan
abbiamo risposto
di comune accordo che il corpo di Thomas era rimasto nella soffitta di
Allerdale Hall. Coloro che hanno alzato lo sguardo, si sono trovati
davanti a
un immenso rogo.
Nel mio romanzo,
Allerdale Hall non si è accartocciata sotto
il fuoco, ma è rimasta lì
dov’è, imponente e terribile. Continuava a essere
ciò
che è sempre stata: l’ultimo rifugio di spiriti
senza tempo, la dimora delle
anime perdute, la casa di Thomas e Lucille, prigionieri della loro
follia
perché, in fondo, i fantasmi sono questo, eventi destinati
alla fissità del
loro ripetersi come fossero insetti rinchiusi nell’ambra. Mia
cognata avrebbe
continuato a suonare le sue ninne nanne tristi al pianoforte e Thomas
si
sarebbe consumato nella speranza vuota di inventare qualcosa di utile.
E così avrebbero
trascorso l’eternità intera. Questo ho raccontato
a voce e su carta e, come
molte cose, l’inchiostro ha posto un sigillo sulle mie parole
donando loro
un’autenticità che, in verità, non
possedevano affatto. La menzogna è diventata
in tal modo reale e Crimson Peak è stato preso per un
romanzo autobiografico
perché, in mezzo alla finzione, c’è una
traccia flebile di realtà.
Sir Thomas
Sharpe era il
mio baronetto inglese dagli occhi d’un blu chiarissimo il cui
spirito
appassionato comprendeva il mio in una maniera totale, assoluta. Ho
raccontato
di come fosse morto per salvarmi, del modo in cui, vinto
dall’amore, abbia
deciso di abbandonare il vortice di follia in cui era immerso assieme a
Lucille
per salvare la vita a me e Alan. Può un’azione
sola cancellarne mille altre
nefande? In un romanzo sì, senz’altro. Il
sacrificio d’amore estremo si lega al
pentimento e l’antagonista spietato si trasforma, nel momento
supremo della
morte, in un veicolo di grazia, in un antieroe sfortunato dal sorriso
triste.
Che finale meraviglioso è stato, per il libro!
I miei lettori
hanno
amato Sir Sharpe e la sua anima annerita, ma in un certo qual modo,
pura. E
sono rimasti altresì colpiti dal fascino della sua fiera
sorella, perduta, fino
all’ultimo respiro emesso su questa terra, in una gelosia e
in un rancore
troppo profondi per essere spiegati a dovere persino da me, che passo
le
giornate a raccontare d’altri mondi e di storie. Cosa
succederebbe, però, se
conoscessero la verità? Se raccontassi che il mio bel marito
inglese è da
qualche parte, nel mondo? Sarebbero altrettanto indulgenti con lui, o
invocherebbero a gran voce la forca? E io, io come potrei giustificare
ai miei
lettori e alla gente di amarlo ancora e sempre, nonostante tutto?
Perdonare no,
non è
possibile. L’immagine dell’obitorio di Buffalo mi
tormenta ogni giorno,
ricordandomi come la mia anima, quanto a purezza, non sia da meno dei
fratelli
inglesi.
In che modo
atroce agisce
il cuore, se non riesco a smettere di desiderarlo al mio fianco, se
quella
notte nella neve mi perseguita ancora? Ho fissato su carta mille volte
le
emozioni provate quell’unica volta, eppure non sono riuscita
a liberarmene mai,
nemmeno per un istante. Pare sia impossibile, per me, esorcizzare
l’amore,
rinchiuderlo dentro un quaderno assieme a paure, speranze, desideri,
ricordi.
Rimane lì, nel mio petto e, quando sono molto fortunata o
troppo disperata, a
seconda del lato da cui si voglia guardare la cosa, Thomas
mi fa visita mentre dormo e canta il suo amore per me, abita i
miei sogni, promette e giura che ci incontreremo ancora. Ho
sempre pensato
si trattasse di una speranza ingiusta e vana, ma ieri sera qualcosa
è cambiato.
♦
Non ho
più voluto avere
una casa, dopo Crimson Peak.
Sostengo di
preferire
l’impersonalità degli alberghi, il placido ritmo
dettato dalle cameriere che
rifanno la stanza senza guardarmi. Ridendo dico che desidero girare il
mondo e
conoscere storie nuove e l’unico modo per farlo, temo,
è viaggiare e incontrare
quante più persone possibili. È per questo che
Alan mi ha lasciata andare, alla
fine. Una vita da nomade non era ciò che faceva per lui,
perché l’amore va
curato come un giardino. Vivere senza radici, cambiare città
ogni stagione,
trascorrere le serate nei salotti letterari dando scandalo come
Colette, non
era ciò che il mio solido spasimante e amico di una vita
desiderava per sé, per
noi. L’ultima volta che ci siamo visti, anzi, mi ha
rimproverata per la vacuità
delle mie amicizie, fatte d’artisti sconsiderati che eccedono
con le sigarette
e l’alcool. In verità, io credo che Alan sappia
molto bene perché voglio vivere
libera e senza legami: non sono mai riuscita a sciogliermi da quelli
che ho
stretto e sento, dentro di me, che se andassi avanti, se ci provassi
davvero e
m’incanalassi in quella che dovrebbe essere
l’esistenza di una brava donna del
Novecento, Lucille in qualche modo avrebbe vinto. Invece,
l’ho sconfitta.
Ho preso il
cuore di
Thomas e le ho tolto la possibilità di rimanergli accanto
come presenza impalpabile
perché lui è da qualche parte nel mondo con un
altro nome e lei, invece, vaga
nella brughiera e urla disperata in quella parte del Cumberland dove,
una
volta, si ergeva Allerdale Hall che si tingeva di rosso. A unirmi a
Lucille,
tuttavia, è anche altro. Nessuna delle due può e
vuole dimenticare lo sguardo
quasi trasparente di Thomas, ma se lei è un’ombra
fatta di ricordi impressi
come immagini su un dagherrotipo, io cerco di ingannare i miei giorni
ubriacandomi di parole, libri, discorsi. Non ho mai amato le occasioni
sociali:
balli e feste non destano in me che ilarità e incentivano un
senso di
superiorità senz’altro ingiusto e scorretto, ma
terribilmente umano. No, non
sono perfetta: come tutti gli scrittori – come tutte le
persone, non sono
esente da meschinità e bassezze e, spesso, pecco di
superbia.
L’Opéra[2],
però, è diversa e quella di Parigi ha un che di
eccezionale. Merito del suo
teatro, presumo. Lo spettacolo era di quelli che avrebbero sciolto
qualsiasi
cuore in un mare di lacrime e parlava d’un amore tormentato
musicato da quel
compositore italiano tanto acclamato, Verdi. Avrei dovuto piangere per
l’amore
infelice di Alfredo e Violetta[3];
forse l’ho fatto e quel
magone che mi stringeva il petto si è davvero risolto in
stille salate che mi
hanno rigato le guance. Non lo ricordo. Forse ho tolto gli occhiali e
ho
scoperto di avere le ciglia umide, forse ora il mio cuore batte troppo
forte
per ricordare con chiarezza ciò che è stato dopo.
È possibile anche che, a
forza di raccontare della sua morte, l’immagine di Thomas sia
per me sbiadita a
tal punto da essere diventata comunque un fantasma. Fantasticare che si
trovi
nelle Indie Occidentali o a Singapore, figurarmelo a San Pietroburgo o
a Oslo o
in Australia non vuol dire forse sfumare la sua figura in luoghi che
per me
sono solo nomi? Il mio viaggiare di città in
città, ostinandomi nel mio
pellegrinaggio, non ha la medesima funzione di una sua ricerca senza
sosta? Io
e Lucille continuiamo ad avere più cose in comune di quanto
non sarebbe lecito
possedere. È la mia nemesi e per questo la comprendo: provo
pietà per la sua
mente sfaldata, per l’amore stritolante e venefico in cui ha
costretto il mio
baronetto dal viso affilato e bello. Credo di averlo rivisto, dopo
l’Opéra.
I boulevard di
Parigi luccicavano per la pioggia insistente
che si era abbattuta sulla città fino a pochi minuti prima,
la Tour Eiffel troneggiava sulla
Senna
incuneandosi nel cielo come una promessa di libertà e
progresso. Fissandola, mi
sono chiesta che ne sarà delle mie storie di fantasmi e
mostri, quando la
superstizione abbandonerà per sempre le nostre menti e ogni
cosa dovrà essere
spiegata con una formula matematica. Allerdale Hall è una
rovina tetra che si
staglia nella brughiera inglese, i suoi fantasmi vagano disperati in
mezzo
all’erica e al vento. Chi crederà alle mie storie?
Chi crederà che ho rivisto
Thomas Sharpe, l’altra notte? Indossava una maschera che gli
copriva metà del
volto, ma identico era il modo di stringere la mano, troppo simile la
voce
arrochita, distinguibile la lieve cadenza inglese che si sforzava
invano di
camuffare con un francese perfetto. Mi ha chiesto di ballare un valzer
e io
l’ho fatto. Un ballo in maschera è uno di quei
divertimenti a cui in genere
rifiuto caldamente di partecipare, ma l’invito veniva dal
suocero del mio
editore parigino in persona. Manifestare un’improvvisa
emicrania dopo l’Opéra
sarebbe stato certamente
plausibile, ma poco cortese. In verità, è una
scusa che avrei potuto inventare
benissimo, ma nel palco vicino al mio avevo intravisto
un’ombra nota,
conosciuta. Fisico alto e slanciato, capelli neri, viso nascosto
dall’oscurità.
La mia memoria si è improvvisamente risvegliata, o forse
è stata
l’immaginazione, a tradirmi. A pochi metri da me
c’era un uomo dalle movenze
eleganti e note. La mia schiena si è tesa, il respiro
è diventato rapido.
La scrittura
è finzione, inganno. È l’ipotesi
plausibile e
verosimile di quello che potrebbe essere, ma non è. Per
inseguire un’ombra, mi
sono stretta nel collo di volpe che copriva la scollatura del mio abito
e sono
andata a un ricevimento di cui, altrimenti, non mi sarebbe importato
nulla. La
strada scintillava per la pioggia appena caduta e, nella mia testa,
sono
tornata a Buffalo. Ricordo che sir Thomas Sharpe venne a prendermi a
casa. Era
all’ingresso, seduto su un divano; tra le mani stringeva il
cappello a
cilindro, l’ultimo fregio d’una passata ricchezza,
di una vecchia eleganza. Mi
convinse a seguirlo, afferrò il mio cuore increspando le
labbra sottili in un
sorriso accennato. Il mondo si sciolse e così le mie
resistenze.
L’abito
che stasera ho
indossato per andare all’Opéra
non assomigliava
affatto a quello che sfoggiai allora. È diverso per tessuto,
foggia, colore
persino. Mi chiese di ballare e io accettai la mano che mi porgeva
sotto gli
occhi sorpresi della madre e della sorella di Alan, di mio padre, della
Buffalo
che contava. Danzammo reggendo una candela accesa. Vorrei dire che
quello fu il
momento in cui m’innamorai dell’inglese dallo
sguardo blu quasi trasparente, ma
mentirei, se lo facessi. Era avvenuto prima: quando, alzando appena gli
occhi chiari
dai miei fogli dattiloscritti, mi aveva chiesto serio se fossero
un’opera di
finzione. Le nostre anime si allinearono; il destino che ci avrebbe
condotto
fino a questa notte era appena stato deciso.
Di quel romanzo,
il primo che scrissi, non rimane che qualche
appunto. Alcuni capitoli vennero gettati nel camino da Lucille. Prima
di
uccidermi, desiderava piegarmi e umiliarmi: i miei sforzi artistici ne
pagarono
il prezzo. Una parte del testo, tuttavia, si salvò dalla
furia omicida di mia
cognata: conservo ancora con religiosa premura le bozze superstiti che
portai
via in fretta da Allerdale Hall, mentre Alan appiccava il fuoco alla
dimora per
celare ogni traccia del nostro inganno. Non ero certa che
l’incendio si sarebbe
propagato con la dovuta furia. C’era stata la tempesta di
neve e Crimson Peak
era davvero una dimora immensa. Eppure, questo è quello che
avvenne. Il fuoco
mangiò ogni cosa attecchendo in ognuna delle stanze marce e
grondanti argilla.
Dentro di me, ho sempre pensato che i fantasmi ci abbiano aiutati a
rendere
cenere quella dimora. Forse erano stanchi di rimanere imprigionati al
suo
interno; meglio vagare liberi per la brughiera, che rincorrersi nei
corridoi
tetri di quella casa ormai morta.
Il suocero del
mio editore è un uomo stravagante, eclettico,
dai gusti raffinati. È sempre in cerca della meraviglia, di
qualcosa che sia in
grado di stupirlo e sorprenderlo. Viaggia molto – persino
più di me – e
intrattiene una fitta corrispondenza con molte delle
personalità più in vista
della nostra società. Tempo fa, mi presentò un
medico viennese che mi parlò a
lungo di come, nell’animo di ognuno di noi, si celino impulsi
separati che
interagiscono l’uno con l’altro nei sogni; questi
ultimi non significano sempre
ciò che sembrano, tutt’altro: hanno una parte
latente e una manifesta[4].
Il suocero del mio
editore ama la scienza e le invenzioni, ma è affascinato
anche da ciò che gli
uomini non possono ancora spiegare: i fantasmi di cui scrivo, per
esempio. Ecco
perché ritiene che sia un’ospite che arricchisce
il suo salotto. La festa in
maschera dopo l’Opéra
è stata
l’ennesima dimostrazione del suo spirito appassionato,
istrionico, vivace. E io
ho partecipato per inseguire un’ombra, solo per questo.
L’ho
cercata in mezzo
alla folla ciarlante, l’ho inseguita tra i bicchieri colmi di
champagne e le
risate. Fisico asciutto, postura elegante, capelli neri e una maschera
a
coprirgli il viso. Poteva essere semplicemente un uomo che gli
assomigliava –
dicono che ognuno di noi ha un doppio, da qualche parte – ma
il modo in cui
stringeva il bicchiere e il sorriso laterale che gli increspava la
mascella
affilata erano i suoi, di sicuro. Ho descritto ogni suo gesto in troppe
pagine
perché potessi dimenticarmene, ma scrivere equivale a
sognare, alle volte. A
costruire un mondo immaginario che sopperisce o amplifica la
realtà in cui
viviamo. Potrei avergli regalato quelle movenze determinate solo nella
mia
testa, inventandole di fatto o, peggio ancora, le mie osservazioni
potrebbero essere
falsate dalla volontà inconscia, come dice quel medico
austriaco, di
rintracciare un collegamento, un nesso.
Sir Thomas
Sharpe era di
nuovo davanti a me.
Mi guardava
reggendo un
bicchiere, ma i suoi occhi erano celati dalla maschera che indossava.
Se non
l’avesse portata, avrei potuto avere la conferma dei miei
sospetti, osservando
l’inevitabile cicatrice che Lucille gli aveva lasciato sulla
guancia, ma così
non è stato e lui non l’ha tolta. Era in disparte
e osservava l’imponente
pianoforte a coda che troneggiava nella sala, forse domandandosi se le
dita da
lady di Lucille avrebbero saputo creare armonie belle come quelle del
pianista
che stava suonando quel momento. Mi sono avvicinata per guardarlo
meglio, per
scoprire la linea affilata e decisa della mascella, per rintracciare un
segno
che mi indicasse la sua vita di esule fuggiasco, scappato grazie
all’intercessione mia e di Alan.
Durante questi
anni, ho pensato molte volte al fatto che,
forse, il mio baronetto era morto da qualche parte. La vita solitaria
del
fuggiasco si adatta bene a uno degli eroi romantici dei miei romanzi o
dei
grandi narratori che mi hanno preceduta e che mi seguiranno, ma non
necessariamente è la condizione ideale per tutti gli uomini.
Thomas era uno
spirito sensibile e appassionato, un inventore visionario stritolato in
una
situazione che detestava, ma da cui non poteva né riusciva a
fuggire. A volte
parlo di lui al presente, perché sono convinta che sia
ancora vivo da qualche
parte, altre, invece, al passato. In fondo, la magnificenza del
personaggio che
ho creato sta proprio in questo: nella sua morte nobile, da eroe, che
redime,
nel suo unico e ultimo gesto estremo, i crimini orrendi che ha
compiuto.
Vedete, Thomas
Sharpe era colpevole come sua sorella. Era lui
che ingannava e seduceva ereditiere dalla bellezza sfiorita promettendo
loro un
amore eterno e romantico; era sempre lui che consentiva a Lucille di
servire
loro il tè avvelenato che le avrebbe condotte a una morte
lenta e
insospettabile. Il pentimento e il successivo sacrificio della vita
avrebbero
nettato l’anima scura di mio marito da ogni
impurità e peccato, ma sfuggire
alla forca e alla giustizia lo ha reso simile ai fantasmi che abitavano
Crimson
Peak: eventi destinati a ripetersi,
insetti intrappolati nell’ambra. Ma ora, quale
chimera o sogno avrebbe
dovuto inseguire, il mio inventore geniale? Risparmiandogli
l’impiccagione, a
cosa lo avevamo condannato? Senza Allerdale Hall da salvare e Lucille,
Thomas
sarebbe diventato un uomo inquieto in cerca di uno scopo.
La prima volta
che danzai
con Sir Sharpe, indossavo un abito d’un rosa chiarissimo.
Quello che portavo
l’altra sera, invece, aveva la stessa sfumatura del sole al
tramonto, perché
anche la mia anima è tormentata, adesso. Mi sveglio la notte
e sono lì, nella
neve, a guardare le mie dita macchiate di sangue, i capelli sciolti sul
viso,
le lacrime che offuscano ancora di più la mia vista
già incerta. Avrei dovuto
odiarlo, quell’uomo elegante in disparte accanto al
pianoforte e, invece, mi
sono avvicinata a lui approfittando della confusione che aleggiava
nella sala,
come una farfalla attirata da un fiore. L’amore ci costringe
davvero a compiere
gesti terribili, Thomas.
Abbiamo ballato
e io ero
certa fosse lui, a stringermi. Gli ho chiesto sotto quali cieli avesse
trovato
rifugio, in questi anni in cui ci siamo cercati, inseguiti. Non mi ha
risposto,
il valzer è stato troppo breve e, quando la musica si
è interrotta per
permettere alle coppie di sciogliersi e riformarsi, sono stata
distratta dalle
domande di un ammiratore e l’ho perso.
Forse avete
sentito anche
voi la voce secondo cui io sia pazza. C’è chi
sostiene che il mio continuo
viaggiare senza sosta per le città d’Europa sia
una caccia a un fantasma spirato
da anni che cerco in altri volti, sorrisi, sguardi. A volte, lo penso
anch’io.
Ci sono giorni in cui credo che sir Thomas Sharpe è morto
chissà dove – e
allora, che la terra ti sia lieve, amore
mio – altri, invece, in cui la diceria, spesso
quasi senza fondamento,
dell’esistenza di un uomo sfregiato dai modi da aristocratico
e dal passato
oscuro mi raggiunge e mi spinge a fare i bagagli e a partire. Il mio
editore
sostiene che alla festa ho ballato con un uomo d’incredibile
intelligenza e
arguzia che aveva conosciuto proprio lì, al palco
dell’Opéra.
Colpito dalla profondità di certe sue considerazioni su La Traviata, lo aveva invitato al ballo
in casa del suocero. Ma il mio amore perduto e maledetto gli ha
lasciato un
nome falso e un indirizzo che non corrisponde a nulla e ora sono qui, a
struggermi di nostalgia, a cercarlo in ogni angolo di Parigi.
Ho spedito la
mia
domestica personale in tutti gli alberghi della città, per
raccogliere
informazioni su un uomo sfregiato e gli occhi blu dai modi eleganti,
distinti.
Ho allertato le stazioni di posta e quelle del metrò[5].
Io stessa sono uscita,
nonostante la pioggia, per cercarlo. Desidero solo toccare le sue mani,
baciare
le sue labbra, ascoltare la sua voce. La sua anima è
macchiata, ma la mia non è
da meno. Posso perdonare quello che mi ha fatto? No, mai, ma lo amo
ugualmente
e il tempo, che dovrebbe lenire il mio cuore e far sfumare il suo
ricordo,
anziché concedermi la grazia dell’oblio, lo
alimenta in modo feroce.
♦
Ogni giorno
passato senza
di te, Thomas, è sprecato, è vano. Desidero
aprire gli occhi e trovarti accanto
a me al mattino, addormentarmi sul tuo
petto ascoltando il tuo respiro.
Fondermi
in te, con te.
Ti inseguo in ogni pagina che scrivo, ti cerco in ogni sguardo
che incrocio. Piove di nuovo, e io chiedo all’autista di
raggiungere la
stazione in fretta, perché ti hanno visto aggirarti con un
bagaglio leggero
nell’atrio, poco meno di un’ora fa. È
sotto
questo cielo che ci ritroveremo?
In molti sanno
della mia
ossessione: le cospicue mance che lascio in giro per la
città, mi permettono di
avere occhi e orecchie dappertutto. Thomas,
sto arrivando.
Una scena simile
si è già
verificata, e non solo nella mia testa. A Napoli e a Dublino mi sono
ritrovata
a correre a perdifiato per inseguire una figura che ti assomigliava, ma
stavolta, ne sono certa, sarà diverso – deve
esserlo! – o il mio cuore si spezzerà
ancora. L’atrio della stazione è
gremito di persone, il treno è in partenza. Potrei essere
arrivata troppo
tardi. Il pensiero lacerante mi attraversa la mente, lo stomaco si
contrae in
uno spasmo violento e improvviso. Non posso perderti ancora, Thomas. Ti
inseguii anche a Buffalo, ricordi? Corsi nell’albergo che
ospitava te e Lucille
e trovai le vostre stanze vuote, ma quella era una magnifica trappola
che
avevate allestito solo per me, mentre adesso la nostra partita
è contro il
fato, la ragione, il tempo. Ti cerco e non ti vedo e intanto il
capotreno
invita i viaggiatori a prendere i loro posti, ad accomiatarsi dal cielo
grigio
di Parigi. Attorno a me la gente si dice addio o arrivederci
sfiorandosi le
labbra in baci dolci o passionali, mentre io giro come impazzita nel
tentativo
di scorgere la tua figura altera ed elegante tra la folla. Potresti
essere su
un altro treno o già seduto nel tuo vagone. Il vapore
avvolge i binari, la
notte è scesa su questa città magnifica e
romantica divisa dalla Senna e, a un
tratto, ti vedo, Thomas.
Cappotto scuro
con il
bavero alzato a nasconderti il viso, capelli neri leggermente
arricciati, ombra
slanciata fatta di contorni e buio contro la luce grigia dei lampioni
della
banchina, un piede quasi sul predellino del treno. Urlo il tuo nome
– quello
vero – corro verso di te. Thomas,
Thomas!
Esiti, incerto
se salire
sul vagone e sparire nell’ennesimo viaggio che ti
porterà lontano da me,
oppure, finalmente, svelarti, fare pace col tuo passato pieno di ombre.
Sarebbe
il momento giusto per voltarti, amore mio. Ho il respiro corto, sollevo
con le
mani i lembi della gonna per raggiungerti prima che il vapore del treno
in
partenza e gli altri passeggeri ci separino. Vedo la tua ombra
slanciata e
diritta bloccarsi, fare spazio ad altri viaggiatori che, a differenza
di noi,
non hanno alcun conto in sospeso.
Eppure, potresti
ancora non essere tu. Te l’ho detto, questa
scena si è già verificata: conosco il peso della
delusione, il dolore che
spezza il cuore. Vorrei che oggi fosse diverso, lo spero con ogni fibra
del mio
corpo. Thomas. Ti raggiungo, sotto
le
mie dita sento la lana robusta del paltò nero. Ti afferro il
bavero sollevato,
ti costringo a guardarmi.
Alle volte, il
tempo si ferma, si cristallizza. Siamo come
insetti intrappolati nell’ambra desiderosi di ripetere eventi
passati,
innamorati in cerca dell’altra metà del nostro
cielo, e non importa quanto
questo possa essere oscuro e tetro.
“Edith…”
Come sono blu i
tuoi occhi! Mi fanno dimenticare lo sfregio
che ti segna lo zigomo affilato, offuscano la tua voce che mi ha
chiamata e,
sebbene sia poco meno che un sussurro, sovrasta il rumore amplificato
della
stazione. Il treno sta partendo, l’ultimo squillo nervoso
avvisa i viaggiatori
che occorre partire, ma io sfioro le tue guance e anche tu mi stringi.
Sei
tornato da me! Ci baciamo e le rotaie iniziano a muoversi lentamente,
la folla
forse ci guarda, forse s’allontana. Ci baciamo, e non
è un sogno né un
miraggio. Le tue labbra sfiorano le mie e sono dolci, ma
c’è una disperazione
assoluta nel modo in cui ci cerchiamo, tocchiamo, consoliamo.
L’incertezza del
primo, esitante contatto – siamo davvero noi? –
lascia spazio alla nostalgia
che ci ha graffiato il cuore, alla mancanza che ha dilaniato il nostro
spirito,
ai sogni che abbiamo inseguito per anni in cui uno era lo spettro
irraggiungibile dell’altra.
Ci separiamo per
un breve istante, ma siamo ancora
avvinghiati in un abbraccio serrato da cui non vogliamo né
riusciamo a
scioglierci.
“Avevi
promesso che non mi avresti mai cercato,” dici, e con
una mano mi sfiori i capelli come se fossi una cosa preziosa perduta e
ritrovata.
Sorrido, mi
metto in punta di piedi per cercarti di nuovo le
labbra e assaggiarle, assaporarle, sentirne il gusto. Hai davvero
creduto che
potessi dimenticarti e mantenere fede a una promessa così
ingiusta? Non ne sono
stata capace, amore mio. Mai.
Un altro bacio.
“Lo so, ma è successo.”
Fine
Note Autore:
Cari Lettori,
Questa shot
ispirata al Fantasma
dell’Opera parte da un what
if
megagalattico: cosa sarebbe successo se il colpo inferto da Lucille a
Thomas
non fosse stato letale. Ho immaginato che Alan e Edith avrebbero
permesso a
Thomas di fuggire e nascondersi. Per occultare ogni traccia, Allerdale
Hall
sarebbe stata bruciata e sir Sharpe avrebbe potuto nascondersi in mezzo
ai
paesani imbacuccati che vengono in soccorso dei due americani.
Qualunque
tribunale in qualsiasi tempo avrebbe condannato a morte sir Sharpe per
i
molteplici omicidi commessi/consentiti (e non pensiate che i nobili,
specie se
poveri in canna come gli Sharpini,
fossero immuni dal potere legislativo: ho fior di testi a casa che
smentiscono
questa idea romantica). Dunque, per avere un Thomas in carne e ossa,
era conditio necessaria che questi
fosse
creduto morto. Il resto è raccontato nella shot che spero
sia di tuo
gradimento, o lettore.
Ho scelto di
ambientare la scena a Parigi per creare un
collegamento con l’originale romanzo Il
fantasma dell’opera, che ha ispirato le
ambientazioni gotiche della shot e,
soprattutto, era alla base dei prompt affidatimi per la stesura della
storia
(colore blu, frase della canzone dei Nightwish citata in apertura e
tradotta
nel testo e la maschera iconica del personaggio). Altre
curiosità sono presenti
nelle note sparse. Gli spettacoli all’Opéra
Garnier iniziano sovente alle 19,30
e finiscono intorno alle 22,30. Basandomi anche sui romanzi
ottocenteschi
letti, ho supposto che la gente ricca, che non doveva andare a lavorare
alle
cinque del mattino, avrebbe potuto tranquillamente organizzare un ballo
dopo
l’Opera o un altro tipo di spettacolo (cfr. a tal proposito,
Dumas ne “La dama delle
camelie”). Nel testo sono
presenti dei richiami al film: in particolare, il dialogo tra Thomas e
Edith
ricalca l’ultimo, tragico, tra il baronetto e la sorella.
Sullo stile. La voce
di Edith cambia interlocutore durante la storia, dividendosi
idealmente: nella
prima parte, che ripercorre gli eventi fino a quel momento, il racconto
è fatto
a degli immaginari ascoltatori/lettori; nella seconda, per rendere
l’inseguimento di Edith più cupo e disperato, ho
preferito che lei si riferisse
direttamente a Thomas perché tutto scompare, attorno a lei.
Nel testo, affinché
fosse più enfatico, ho volutamente lasciato delle
ripetizioni (ogni/ogni,
forse/forse, tua/tua/tua) volte a suggerire l’effetto
dell’ossessione che Edith
nutre per il marito. Spero che questi barbatrucchi vi siano piaciuti.
Le parole
sono meno di cinquemila.
Shilyss
[1]
Una voluta forzatura al canone: la ferita che Lucille infligge a Thomas
è
mortale. Qui si suppone che sia stata grave, ma non letale.
[2]
Ho scelto di adottare la dicitura francese e quindi non Opera ma
Opéra: L’Opéra
Garnier fu costruita dall’omonimo architetto e inaugurata nel
1875. Qui è
ambientato il famoso romanzo Il fantasma
dell’Opera di Leroux.
[3]
Il riferimento è a La Traviata di Verdi, basata a sua volta
su un romanzo di
Dumas. Nei prossimi giorni (Natale 2018 per pura casualità
all’Opéra faranno
proprio La Traviata.
[4]
Il medico viennese è ovviamente Sigmund Freud.
La teoria citata da Edith è quella espressa ne L’interpretazione dei sogni, che
uscì
nel 1899.
[5]
La metropolitana di Parigi venne inaugurata nel 1904. Le vicende di
Crimson
Peak si svolgono tra il 1899 e il 1901, mentre la collocazione
temporale di
questa shot è databile intorno al 1908 (prevede che Edith
Cushing sia già
un’affermata scrittrice).