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Autore: MUTSUMIIT    02/01/2019    4 recensioni
Eravamo l’uno di fronte all’altro. I tuoi occhi nei miei, i miei occhi nei tuoi. Stavamo fluttuando in un mare di nuvole sommerse dalla notte, calpestavamo le stelle senza nemmeno rendercene conto. Lì, lontano da chiunque altro, inglobati nella bolla dei nostri respiri, io ti baciai.
Taehyung è muto, Jimin è follemente innamorato di lui. La loro storia d’amore si dirama in una concatenazione di eventi che porteranno alla morte di un girasole.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi, Slash | Personaggi: Kim Taehyung/ V, Park Jimin
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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PREMESSA: scrissi questa os per un concorso su wattpad qualche mese fa e, dal momento che è terminato, ho pensato di condividerla anche qui su efp. per chi non lo sapesse, mi sono spostata ufficialmente sull'altra piattaforma, che reputo più comoda e controllabile; mi trovate con l'username di @porchcrawler. spero possa piacervi!



 
§§§
 
PROFUMO DI RICORDI
 

Esistono emozioni che non riusciamo a spiegarci. Penetrano nelle pareti sottili del cranio e cozzano contro tutte le sicurezze che ostentiamo con orgoglio, dando il via al lento deterioramento di tutto ciò di cui non abbiamo mai dubitato. Ci tormentano, ci inseguono e poi si beffano di noi. Sentimenti assopiti che si risvegliano e ci colgono impreparati, o sentimenti che non c’hanno manco mai sfiorato l’anticamera del cervello. Il cuore batte, percorre strade tortuose e giunge allo strapiombo più alto che tu abbia mai visto, unico spettatore del lento sgretolarsi della tua esistenza, e imparziale, con la placidità d’un vecchio rospo, ci chiede se siamo pronti a buttarci.


 

-


 

La biblioteca non m’era mai piaciuta. Vigeva quel tipo di silenzio che t’entrava nelle orecchie e ti fracassava i timpani ed era così fastidio che ne avrei piacevolmente fatto a meno se i miei voti a letteratura non avessero rasentato lo schifo più totale. Hoseok, al mio fianco, non smetteva di mormorare a bassa voce mentre leggeva e il suo contributo mi spingeva ad odiare ulteriormente quelle quattro pareti insudiciate dalla puzza di libri vecchi.

La prima volta che misi piede in biblioteca fu anche la prima volta che ti vidi.

Te ne stavi con la schiena ricurva su di un tomo che sarà pesato più di te, gli occhi grandi guizzavano fra le pagine e gli angoli della bocca piena erano rivolti dolcemente verso l’alto. C’era entusiasmo sul tuo viso e il sole faceva brillare i tuoi capelli bruni.

«Ho trovato qualcosa con cui divertirmi».

«Jimin, niente cazzate—» e a niente servirono le proteste sussurrate da Hoseok. Abbandonai il libro sul tavolo e quando ti raggiunsi, tu non sollevasti lo sguardo, nemmeno quando – per attirare la tua attenzione – coprii il sole col mio corpo. Gettai ombra sul tuo bel viso e tu non distolsi l’attenzione. Quasi sbattei indispettito i piedi a terra, prima di fare il giro del tavolo, strusciare la sedia sul pavimento e buttarmici sopra. Tu non mi guardasti, nemmeno un’emozione ti attraversò.

«Ehi».

Niente. Il tuo volto era una maschera di ghiaccio.

«Scusa?».

Mi sentivo un fallito ad essere ignorato così brutalmente, eppure volevo continuare.

«Sono Park Jimin».

Sapevo mi stessi ascoltando, sarebbe stato impossibile il contrario. Ormai ti avevo preso come una sfida.

«E’ un piacere conoscerti, Mr. Silenzio. Vieni qui tutti i giorni?».

Mi sorprendesti quando ti alzasti senza dire niente. I tuoi occhi s’ostinarono a non incontrare i miei; raccogliesti tutto quanto e te ne andasti con la stessa velocità con cui io ti avevo raggiunto.

Osservai le tue spalle larghe e le tue gambe lunghe avviarsi verso l’uscita; la bibliotecaria ti salutò con un sorriso dolce e tu lo ricambiasti.


 


 

«Sei pazzo? Quello è Kim Taehyung!».

Hoseok mi accolse così quando, sconfitto, mi sedetti accanto a lui. Io scrollai le spalle, «E allora?».

«E’ muto, Jimin!».

Oh.

Fu una sensazione strana, simile alla delusione, simile all’imbarazzo. Sperai che le mie guance non divennero rosse dalla figuraccia che avevo appena fatto. Mi guardai le mani, evitai lo sguardo accusatorio del mio migliore amico.


 


 

Il giorno dopo quasi ci corsi in biblioteca e ti trovai sempre lì. Indossavi una camicia celeste che si sposava armoniosamente col colore ambrato della tua pelle. Chino sui tuoi libri, eri più affascinante del giorno prima. Le dita affusolate della mancina tenevano il segno, quelle della destra ti sorreggevano il capo. Eri bello.

«Ehi».

Forse avrei dovuto cambiare modalità d’approccio.

«Volevo scusarmi per ieri. L’ultima delle mie intenzioni era apparire… Indelicato, ecco».

Finalmente i tuoi occhi incontrarono i miei e nel mio cuore si scatenò una vera e propria rivoluzione. Ti vidi afferrare un blocco note, impugnare la penna e scriverci velocemente qualcosa.

Sono muto, mica deficiente”.

Immediatamente scossi il capo, «No!» lo urlai e ricevetti decine di sssh come risposta. Abbassai la voce, protendendomi leggermente verso di te, «Non intendevo questo. È che non ho mai approcciato una persona...» il tuo sguardo mi spronò a continuare, «Una persona muta, ecco».

Avevi un’espressione indecifrabile. Chissà cosa ti passava per la testa.

Riprendesti a scrivere, io soffocai l’istinto di sbirciare.

La approcci come una persona qualunque e se quello è il tuo metodo, amico, sappi che stai sbagliando”.

Un sorrisetto si muoveva sulle tue belle labbra. Io scossi la testa e gonfiai le guance.

«Salutare e presentarsi è passato di moda? La prossima volta proverò con una pickup line».

Alzasti le spalle, i tuoi occhi luccicavano di divertimento. Eri così bello da farmi star male, uccidevi la mia sicurezza e nel mentre sghignazzavi maliziosamente. Ciò ti rendeva ancora più bello e io diventavo ancora più sdolcinato.

Sai come rimorchiavano gli antichi greci?”

Scossi la testa, prima di buttar fuori uno strozzato «Cosa ti fa pensare che io ti voglia rimorchiare?» a cui ricevetti solo un’alzata di sopracciglia scettica e saccente.

Mi mostrasti il blocco note, di nuovo, e la tua calligrafia era chiara ed elegante. I caratteri ben distanti fra di loro, come se fossi abituato a cercare comprensione col tuo interlocutore. Come se non ti piacesse ripetere.

Fra uomini si corteggiavano regalando polli, conigli o piccoli doni di questo genere. Ma non solo”.

«Mi lasci in sospeso così?», borbottai e ti vidi reprimere un piccolo sorriso. Mi presi un po’ di tempo per osservare il tuo viso chino sul blocco, le lunghe dita che armeggiavano con la penna o le folte ciglia che nascondevano le iridi scure.

Alcibiade provò a sedurre Socrate con cenette a lume di candela e persino frasette spinte. Le tue odierne pickup lines. Vuoi provarci?”.

Ero disorientato. Deglutii a fatica: «Mi stai anche chiedendo di portarti ad un appuntamento?».

Mi sorridesti, prima di scuotere la testa. «Come no! E allora? Ti sembro sul serio tipo da pickup lines?».

Vederti scrollare le spalle fu un duro colpo, che incassai con tanto di mani sul petto ed espressione sofferente. «Questo ferisce il mio orgoglio di uomo», aprii un occhio, giusto per spiare la tua espressione. Un sorriso a labbra strette si affacciava sul tuo viso. «Quindi… Un appuntamento me lo concedi?».

Fingesti di pensarci su, lo notai dal modo in cui i tuoi occhi si sollevarono verso il soffitto e le tue labbra si incresparono. Da quella prospettiva potevo ammirare il tuo bel collo, il pomo d’Adamo pronunciato e le clavicole che s’intravedevano dallo scorcio della camicia.

I tuoi occhi incontrarono nuovamente i miei, prima di appuntare qualcosa sul tuo taccuino. Me lo mostrasti con lo sguardo carica d’aspettativa.

E’ ancora un no”.


 


 

«Sono ancora qui, ti dispiace?».

Annuisti e io alzai le spalle con noncuranza. «Era una domanda retorica: so che non ti dispiace».

Mi sedetti a quello che di lì a poco sarebbe diventato il mio posto fisso. «Tranquillo, oggi studierò e non ti infastidirò. Parola di lupetto».

Dallo zaino estrassi qualche libro di cui conoscevo a malapena il titolo, ne aprii uno e finsi di leggere. Inutile dire che quello era solo un pretesto per poterti scoccare occhiate furtive e ammirarti da vicino. Era affascinante il modo in cui le tue labbra mordicchiavano l’estremità della matita, la stessa con cui sottolineavi i concetti più importanti su dei tomi che le mie spalle non avrebbero sopportato. Era misterioso il modo in cui avevi evitato di confessarmi il tuo nome, che era già impresso nella mia memoria—come avrei potuto dimenticare una parola bella come Taehyung?—ed era imbarazzante come sbuffi divertiti abbandonavano la tua bocca ogni qualvolta mi beccavi a spiarti.

Io mi ritrovavo ad arrossire come un ragazzino di cinque anni, mi stringevo su me stesso e affondavo nella mia bolla di timidezza. Timidezza, poi, un sentimento che non mi aveva mai sfiorato, una parola che non mi era appartenuta nemmeno quando avevo avanzato quel tentativo maldestro di rubarti un appuntamento la prima volta.

Ti studiavo e tu fingevi di non capirlo, ma qualche volta cedevi, perché ti sentivo sospirare e le mie orecchie si tingevano di rosso.

Nel mio campo visivo entrò un foglietto strappato e quello divenne il mio più grande tesoro.

Fissi spesso la gente?”.

Sollevai lo sguardo su di te, ma non parlai. Piuttosto, impugnai la penna e anche io scrissi qualcosa.

Posso tenerlo?”.

Lo leggesti con un cipiglio incuriosito.

Il foglio? Questo?”

Nella tua calligrafia riuscivo a distinguere incredulità. Ti lanciai un sorriso e ma tu non abbandonasti l’espressione incuriosita.

Hai una bella calligrafia, mi piace”.

Allora roteasti gli occhi al cielo e quel sorrisetto malandrino si affacciò sulle tue labbra.

Fai come ti pare”.


 


 

Divenne naturale riempire i miei pomeriggi con i tuoi sorrisi. Chiamarli sorrisi, poi, che parolone! Piccole increspature delle tue belle labbra rosse, i tuoi occhi mi sorridevano e la tua bocca si sforzava di non farlo. Ti stavi forse trattenendo per me, Taehyung? O era il tuo istinto di sopravvivenza, che ti sussurrava di non concederti?

Le presentazioni non avvennero in quella biblioteca, nemmeno dopo interi pomeriggi a stuzzicarci tramite un fogliettino di carta.

Te ne stavi andando e non mi avevi mai chiesto il nome; non che io non te lo avessi già ripetuto decine di volte – con la taciuta speranza di ricercarmi sui social – ma mi sarebbe piaciuto vederti chiedermelo.

Ti seguii. Diamine, se lo feci! Acciuffai in tempo tutte le mie cose, prima di inoltrarmi in una corsa all’ultimo secondo per raggiungerti. Avevo quasi il fiatone e tu ti girasti a guardarmi con i tuoi occhioni incuriositi, così grandi e così belli che per un attimo, tutta la sicurezza che credevo di avere, scomparve del tutto.

Nell’atrio della nostra biblioteca, della culla del nostro amore, col silenzio addensato nell’aria e l’odore di vecchi libri, tu mi sorridesti. Nessuna smorfia, nessuno sbuffo divertito, nessuna mano a coprirti le labbra. Un sorriso così grande e così luminoso che credetti di diventare cieco. La tua bocca assunse un’adorabile forma quadrata e oscurasti tutto.

Tu non potevi parlare, ma io riuscivo a capirti. Ti vidi muoverti, probabilmente per afferrare il blocco note, ma io allungai una mano e te la poggiai sul braccio. Quando mi scoccasti un’occhiata indecifrabile, avvampai come un ragazzino e le mani, quella volta, me le infilai nelle tasche.

So cosa volevi chiedermi: cosa c’è? Oppure perché devi sempre essere così strano?

«Voglio portarti ad un appuntamento» e temevo una tua risposta, un tuo rifiuto, quindi mi affrettai ad aggiungere, senza guardarti negli occhi: «Domani alle otto, fatti trovare qui. Ti verrò a prendere» e ti farò passare la serata più bella della tua vita.


 


 

Ero stato un codardo a scappare.

Lo sapevo e me ne vergognavo, ma se non avessi accettato? Pensavo di preferire un tuo rifiuto indiretto, arrivare davanti alla biblioteca e non trovarti, secondo la mia mente deviata, sarebbe stato meno doloroso.

Mi vestii meglio del solito, abbandonai le magliette dalle scritte imbarazzanti e finalmente, dopo mesi e mesi, indossai una camicia—avevo imparato a capire che a te, le camicie, facevano proprio impazzire: non esisteva giorno in cui non ne indossavi una.

Non smettevo di torturarmi le labbra mentre raggiungevo la biblioteca. Mi tremavano le gambe e mi chiesi che razza di figura ci avrei fatto a presentarmi senza una macchina.

Il mondo si tinse di decine di colori sconosciuti quando intravidi la tua figura, alle otto meno un quarto, agitarsi davanti alla biblioteca. Fra le dita stringevi un libro, ma i tuoi occhioni scattavano da una parte all’altra. Sobbalzammo entrambi quando i nostri sguardi s’incrociarono.

E poi mi sorridesti. Di nuovo.


 


 

«Ti assicuro che nella mia testa sembrava più figo».

Rigido come un tronco, sostavamo all’entrata del luna park. Che idea orribile avevo avuto! Ti scoccai uno sguardo e tu lo ricambiasti incuriosito; tra le dita, ovviamente, il tuo immancabile taccuino.

Ti vidi scrivere qualcosa.

Non ci sono mai venuto”.

Ti guardai come si guarda un alieno e tu alzasti le spalle, prima di chinarti ad appuntare qualcos’altro.

Mia madre ha sempre lavorato troppo e io non volevo rubare il suo tempo libero per soddisfare i miei vizi”.

Mi chiesi come fosse la sua famiglia, che tipo di persona fosse sua madre. Glielo avrei domandato in un altro momento.

«Allora passerai la serata più bella della tua vita» e quella volta ebbi il coraggio di dirglielo.


 


 

Miriadi di sfumature colorate ti sfioravano il volto, lambivano il tuo sorriso e si specchiavano nelle tue iridi scure. Sulle montagne russe eravamo morti di paura ma tu mi avevi scongiurato di riprovarci e io accettai solo perché mi piaceva l’effetto che l’entusiasmo aveva su di te. Mi pregasti di entrare nella casa degli orrori e come un deficiente accettai, consapevole di tutto il terrore che avrei provato; consapevole di come, con uno stupido pretesto, allungai una mano e feci intrecciare le mie dita con le tue. Tu non ti girasti, non mi chiedesti perché o sciogliesti la presa; non ti morì il sorriso ma stringesti, i nostri palmi uno contro l’altro. Nel buio di quelle quattro mura, tra le urla dilanianti dei visitatori, tu non abbandonasti mai la mia mano.


 


 

Quando uscimmo, ti trattenni contro di me. «Non lasciarmi andare», te lo dissi quasi con gli occhi supplichevoli. Deglutisti, lo vidi chiaramente, e con un leggero cenno del capo sancisti quella promessa silenziosa.


 


 

Quando la ruota panoramica cominciò a girare, sembrò di essere stati catapultati in un altro pianeta. Ti osservai con il viso schiacciato contro il finestrino, pieno di stupore e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, ti trovai bellissimo.

«Taehyung», era la prima volta che pronunciavo quel nome e al modo in cui scattasti a fissarmi, lo notasti anche tu. Alzai le mani, un po’ per difendermi, «Sì, non mi hai mai rivelato il tuo nome ma io l’ho sempre saputo. In biblioteca sei famoso».

Arricciasti le labbra in un piccolo broncio, poi prendesti il taccuino.

Avrei voluto dirtelo io, il mio nome”.

«E perché non l’hai mai fatto?».

Esitasti.

Doveva essere qualcosa di epico, indimenticabile. Hai rovinato tutto, Jimin!”

Io ti sorrisi. «Il tuo nome è già indimenticabile, Taehyung. Ho aspettato così tanto e tu ti ostinavi a tenermelo nascosto».

Te l’ho già spiegato il perché”.

«Ma io non vedevo l’ora di chiamarti per nome. Taehyung. Ha un bel suono, non credi? Mi piace pronunciarlo. Taehyung. Taehyung. Taehyu—» la tua mano incontrò la mia spalla per spingermi e ridemmo insieme; mi beai del silenzio della tua risata.

Eravamo l’uno di fronte all’altro. I tuoi occhi nei miei, i miei occhi nei tuoi. Stavamo fluttuando in un mare di nuvole sommerse dalla notte, calpestavamo le stelle senza nemmeno rendercene conto. Lì, lontano da chiunque altro, inglobati nella bolla dei nostri respiri, io ti baciai.

Fra le nostre labbra scoppiettarono scintille dal sapore agrodolce.

Mi sorridesti contro la bocca e la cabina che ci ospitava ballò sotto i nostri movimenti irrequieti.

Capii che mi piacevi molto, Taehyung.


 


 

Quella notte, quando arrivai a casa e mi sforzai di non svegliare il mio coinquilino, mi arrivò un messaggio.

Questo è il mio numero, pabo.

Lo lessi col sorriso sulle labbra. Stavo sorridendo un po’ troppo a causa tua.

non pensavo mi avresti scritto

Nemmeno io, ad essere sincero.

il solito antipatico :(

Sono stato benissimo oggi, Jimin.

Volevo che tu lo sapessi.

Rifacciamolo, okay?

mi hai appena fatto una domanda retorica

è ovvio che lo rifaremo, pabo!

Forse anche io ti piacevo un po’.


 


 


 

Entrasti a far parte della mia routine.

Pomeriggi in biblioteca, serate a passeggiare per il fiume Han, o rinchiusi in qualche cafè a sorseggiare tè. Imparai a conoscere i tuoi gusti.

Amavi il verde. Lo capii osservando tutte le tue matite, le tue penne e persino la copertina rigida del tuo taccuino. Quando te lo chiesi, tu alzasti un sopracciglio e mi rispondesti con un e l’hai capito solo ora? Pabo!

Odiavi le cose aspre. Sorseggiavamo una cocacola quando, sbigottito, mi domandasti come facessi ad addentare il limone galleggiante che ne arricchiva il gusto. Te lo mostrai con un secondo morso, attento a evitare la scorza, e i tuoi occhi così grandi e così belli si spalancarono dallo sconcerto. Ti offrii di provare e mi rifiutasti energicamente.

Ti piaceva la storia. Piacere era un eufemismo: il tuo era un amore viscerale. Non c’era giorno in cui il tuo zaino non pesava dieci chili in più per qualche libro sugli antichi romani, sulle popolazioni originarie dell’India o riguardanti le famiglie fondatrici della società giapponese. Spesso, seduti sulle rive del fiume, afferravi il tuo taccuino e passavi interi minuti a impartirmi pillole di storia e a ridere della mia espressione confusa. Eri carino, ma non ti faceva male il polso a scrivere così tanto?

I girasoli erano i tuoi fiori. Ti descrivevano: grandi, appariscenti e stupendi. Tu eri un gigante di un metro e ottanta, eri appariscente col tuo sorriso enorme ed eri stupendo. Io stavo diventando sdolcinato e lo notai anche quando, comprando un mazzo di fiori per tua madre, presi anche un girasole per te.


 


 


 

Scoprii che tua madre era una donna squisita. Una donna piccola piccola, che scompariva dietro la tua figura imponente e che quasi si commosse alla vista di tutti quei fiori colorati. Mi accolse in casa sua e tu ti scusasti con lo sguardo, come se davvero servissero scuse.

«Quindi, Jimin, di cosa ti occupi?».

Il cibo era squisito e io non smettevo di ingozzarmi, nonostante cercassi di trattenermi in ogni modo possibile.

«La mattina lavoro in un negozio d’antiquariato come commesso e il pomeriggio studio» ti guardai e tu mi sorridesti, ché ormai lo studio era passato in secondo piano da quando ci conoscevamo e tu lo sapevi benissimo. Dannato Taehyung!

«E cosa studi?».

«Economia, sì. Totalmente differente da Taehyung, che ha sempre il naso affondato in qualche libro di storia».

Tu roteasti gli occhi. Noi conversavamo con quei piccoli gesti.

«Oh, il mio Taetae. Lui è sempre stato interessato a queste cose fin da bambino. Gli altri ragazzini giocavano al parco e lui leggeva, leggeva e leggeva. Ecco perché è cresciuto così intelligente!».

Io mimai con la bocca il Taetae e tu arrossisti, mimando con le labbra un stronzo.

Quando ti alzasti per sparecchiare e io mi offrii di aiutarti, tua madre mi afferrò delicatamente il polso. Abbassò la voce e le sue parole mi bloccarono sul posto: «Sei sicuro di quello che fai, Jimin-ah?».

Mi prese contropiede. «Sicuro di cosa?».

Il suo guardo mi fece sentire piccolo e insicuro. Non c’era cattiveria, solo tanta comprensione e tristezza. In quel frangente, quella donna dimostrava più anni di quanti ne avesse realmente.

«Taehyung è muto e non parlerà mai. Tu sopporteresti una situazione simile senza far soffrire il mio bambino?».

Mi sforzai di non tremare. Ce l’avrei fatta? Il sorriso di Taehyung mi affiorò nella mente. Come avrei potuto abbandonare un tesoro del genere?

Aprii la bocca per rispondere, ma tu rientrasti nella sala da pranzo. Tua madre abbandonò la presa sul mio polso, ma i tuoi occhi avevano captato quel piccolo fotogramma e ora luccicava la rabbia sul tuo viso.


 


 

Uscimmo da casa tua e tu non mi rivolgesti parola. Camminavi avanti, le tue mani dondolavano nell’aria e quando provai ad afferrartene una, mi scostasti brutalmente. Mi ferì più di quanto non avrebbe dovuto.

«Taehyung, non arrabbiarti!».

Cominciasti a gesticolare in quelle stradine deserte ma io non capivo il linguaggio dei segni, quindi con un grugnito afferrasti il taccuino. Non avevo bisogno delle tue parole, sapevo già cosa mi avresti chiesto.

Cosa ti ha detto?”.

Quando ti guardai, tu attendevi una risposta.

«Se riuscirò a sostenere questa situazione» e non c’era motivo di trattenermi, «Di sostenere il tuo mutismo».

Mi puntasti il dito contro: e tu?

«Non ho avuto il tempo di risponderle, ma ho figurato il tuo sorriso e mi sono chiesto come potrei abbandonare un tesoro talmente bello», mi avvicinai a te e quando ti presi le mani, non opponesti resistenza. Avevi la mascella contratta ma chinasti comunque il viso verso il mio quando allungai il collo, pronto ad assaggiare le tue labbra. Ti carezzai le guance e le tue mani finirono sui miei fianchi.


 


 

Quella notte facemmo l’amore.

Non ti diedi il tempo di studiare il mio appartamento, troppo rapito dalle tue belle labbra che si muovevano contro le mie. Le nostre mani vagavano ovunque e i nostri corpi si presero tutto il tempo necessario per conoscerti.

La tua bocca indugiava sulla mia, la stuzzicava e l’adescava fino ad afferrarla con violenta bramosia. L’incantevole beatitudine dell’amore s’abbatté su di noi, s’accese come una vampa d’oro e si declinò dolcemente, esaudendosi fino ai bagliori dell’alba.

Mi facesti capire che quella sarebbe stata la tua prima volta, il nervosismo brulicava e accendeva i tuoi nervi e me lo trasmettesti dai tuoi movimenti goffi, da come ti lasciavi trasportare e plasmare dalle mie dita. Io scossi la testa, non mi importava: né se avessi avuto altri prima di me, né se non li avessi avuti; mi bastava avere tutta la tua attenzione, che pensassi solo a me, che la tua mente proiettasse solo Park Jimin. Nessun altro all’infuori di me.

Ti concedesti a me e io mi concessi a te. Tu diventasti mio e io divenni tuo.

Fra i miei gemiti e i tuoi sospiri, con il tuo corpo schiacciato contro il mio, capii di amarti e te lo sussurrai sulla pelle. Tu ti limitasti ad accarezzarmi dolcemente la schiena e a liberarti sulle lenzuola. Soffocai l’impulso di ripetertelo ancora.


 


 

La mattina seguente mi svegliai senza di te al mio fianco. Fu una fatica mettere a fuoco la stanza e faticai ancor di più a sentire le lenzuola fredde laddove avresti dovuto esserci tu.

Non riuscii a soffocare un sorriso quando vidi, sul comodino, un bicchiere di latte e un bigliettino attaccato al vetro.

Avevo i corsi, scusami per essere scappato. Non pensare che sia quel tipo di persona che scappa la mattina dopo. Dì al tuo coinquilino che è stato un piacere conoscerlo. Buona giornata, Jimin!”.

Ti trovai carino. Che dico, adorabile forse è il termine adatto.

Ripensai alla notte che ci aveva visti avvinghiati l’uno all’altro e cominciai a ridere. Mi coprii gli occhi con le mani e mi lasciai andare alla risata più strampalata che le mie corde vocali avessero mai prodotto. Risi così tanto che il mio coinquilino corse da me, spalancò la porta e mi chiese «Perché stai piangendo, Jimin?».

Me ne accorsi solo quando Hoseok me lo fece notare.

Avevo le guance bagnate e il mento che grondava di lacrime. La mia risata si era trasformata in singhiozzi irregolari.

«Gli ho detto di amarlo».

«E allora? Cosa c’è di male?».

Non lo sapevo nemmeno io, ma il cuore mi faceva male. «Non sono sicuro che ricambi» e piansi ancora, nudo come un verme nel mio letto, con le lenzuola che mi coprivano a malapena.

«Perché lo dici?».

«Non ne ho idea, Hoseok! Ma io—Io sono così felice, è stato così bello».


 


 

E fu bello davvero. Nella mia testa continuava a riprodursi il pensiero di te sopra di me, di te sotto di me, di te che mi abbracciavi e ti accoccolavi fra le mie braccia. Mi eccitavo e mi riempivo di gioia ogniqualvolta mi tornavi in mente, mi distraevi dai libri e ti appropriavi della mia attenzione. Ti diedi dello sporco egoista, ché non accennavi ad abbandonarmi, a smettere di monopolizzare la mia concentrazione. Il tuo viso stravolto dal piacere affiorava fra i ricordi e le guance mi bruciavano, quasi sputavo vapore dalle narici. Poi sorridevo; sorridevo perché era stato bello. Non smettevo di ripetermelo. Bello, bello, bellissimo.


 


 

Quel pomeriggio t’incontrai in biblioteca. Chino sui libri, ovviamente, ormai era prassi. Scrivevi qualcosa.

Avevo vergogna ad avvicinarti, la timidezza mi alitava sul collo, come se la sera prima non ci fossimo rotolati fra le lenzuola stretti l’uno all’altro—o forse proprio per questo, perché ti avevo lasciato scoprire ogni parte di me e io avevo scoperto ogni parte di te.

I piedi si mossero da soli, non ebbero bisogno del mio consenso.

Quando alzasti lo sguardo, i tuoi occhioni brillavano della stessa insicurezza che si rifletteva nei miei. Balzasti in piedi, raccattasti le tue cose e a niente servirono le mie proteste; un’ultima occhiata fu quella che mi donasti, insieme ad un foglio strappato dal tuo taccuino verde.


 


 

Volevo piangere, ma ricacciai le lacrime indietro e mi costrinsi a leggere.

Jimin, devi sapere che quella è stata la mia prima volta, anche se penso tu l’abbia capito. Io… Sto provando così tante sensazioni diverse che non so categorizzarle, non so descriverle. Vorrei dirtele guardandoti negli occhi, non scrivendo su un foglio di carta e scappare come un codardo (perché mi conosco e procederà così). Mi è piaciuto tanto, Jimin. Non ho dimenticato ciò che mi hai detto, brucia e vive ancora nel mio cuore. Avrai una risposta solo quando risponderai alla mia domanda: ne sei sicuro? Amare uno come me?”.

Quello divenne il mio secondo tesoro, lo custodii gelosamente nelle pagine del mio libro preferito—uno che mi consigliasti tu, l’insostenibile leggerezza dell’essere, ma forse lo amai proprio perché amavo te.


 


 

Non aspettai il giorno dopo, corsi a casa tua e dissi a tua madre che avevo bisogno di parlarti. Mi chiese se avessimo litigato, la mia risposta fu «Tutt’altro» e venni scaraventato in casa tua da una forza esterna che mi terrorizzò. Probabilmente era il Dio Amore che ci voleva insieme.

La tua camera era bella, Taehyung. Le pareti tinteggiate di verde pastello, un colore così ambiguo e così da te che ti rispecchiava completamente. Vivace, acceso, tenue e diverso. Perché tu eri diverso, ma non per il tuo mutismo, ma per tutto il resto.

Il modo in cui te ne stavi rannicchiato sul letto, con le coperte stropicciate; il modo in cui le tue dita erano adagiate sulla copertina di un libro; il modo in cui il tuo petto si alzava e si abbassava dolcemente, in cui il tuo respiro abbandonava le tue labbra o le tue ciglia proiettavano ombre sui tuoi zigomi.

Ti ammirai in silenzio mentre dormivi abbracciato ad un libro. Così da te.

Imparai presto che c’erano cose da te. I girasoli erano da te, le nuvole dalle forme bizzarre, le camicie improponibili o le fasce per capelli che si sposavano ben poco con l’eleganza dei tuoi outfit. Imparai a distinguere il mondo in cose non da te e in cose da te.

Seduto sul tuo letto, con le dita ad accarezzarti i capelli, capii di amarti. Fu il frutto di un’attenta analisi, non delle parole riversate di getto in un impeto di passione. Pensai al perché ti amassi e non ne trovai uno in particolare, ma decine e centinaia e migliaia, il numero dei baci che ti avrei voluto dare.


 


 

Mi svegliai lentamente.

Il tuo odore mi inebriava i sensi e mi accorsi quasi subito di avere la testa sulle tue cosce, la guancia premuta contro il tessuto morbido della tuta che indossavi.

Incontrai i tuoi occhi e il mio cuore si preparò a lanciarsi da un dirupo.

Arrossimmo come due bambini, te lo ricordi? A ripensarci mi viene da ridere.

«Taehyung, io—» mi tappasti la bocca con un dito.

Ti osservai cautamente, spaventato dal pronunciare qualsiasi suono.

In silenzio, con le labbra arcuate in un timido sorrisi, chiudesti la mano in un pugno morbido. Sollevasti il mignolo, il dito indice e infine il pollice.

Scossi la testa, «Tae, sai che non conosco il linguaggio dei segni».

Alzasti le spalle e lo ripetesti, ancora e ancora, fino a quando non ti si riempirono gli occhi di dolore. Una lacrima violò i tuoi occhi e ti ostinasti a continuare. Come pietrificato, io ti chiedevo cosa intendessi, ti afferravo per le spalle e il mio petto si gonfiava di preoccupazione. Lo capii solo quando lo mimasti con le labbra. E quando lo capii, quando anche io strinsi la mano e sollevai mignolo, dito indice e pollice, piansi. Ti abbracciai e singhiozzai contro il tuo collo come un ragazzino, tu ti aggrappasti alla mia schiena e ti sfogasti in un pianto silenzioso.

Baciai via tutte le tue lacrime e tu lo facesti con le mie.

«Ti amo» non smisi di ripeterlo.


 


 


 

Non perdevo occasione di ripeterti quanto ti amassi.

Ci tenevano per mano in pubblico, ignari e incuranti degli sguardi altrui. Ti lasciavo origami sul comodino prima di andare via, te lo sussurravo sotto le stelle mentre le guardavamo abbracciati. Ti chiesi di impararmi il linguaggio dei segni, e tu ridesti e mi domandasti se non mi piacesse la tua calligrafia.

«Io amo la tua calligrafia».

Fingesti di offenderti.

«Sei carino» borbottai mentre scrivevi. Mi concedesti solo una smorfia imbarazzata.

Sappi che non è facile e che scrivere così tanto aiuta le mie braccia. Hai visto che muscoli?”

Quando smisi di leggere e sollevai lo sguardo, tu prendesti ad accarezzarti i bicipiti. Ridesti subito, io ti afferrai la mascella e ti stampai un bacio sulle labbra. La biblioteca deserta fu la nostra unica testimone.


 


 

Mi avevi presentato la tua famiglia, quindi toccava a me.

I miei genitori vivevano a Busan, ma i miei amici ricoprivano il loro ruolo meglio di quanto potessi sperare.

Ti vedevo insicuro ed entusiasta al tempo stesso; io gongolavo dalla felicità. Avevo accennato ai miei amici di te, ma del tuo mutismo ne avevo parlato poco: era fondamentale? Importava che gli altri ne fossero avvisati?

«Finalmente ci conosciamo!» fu l’esclamazione di Jin.

Tu alzasti il taccuino e ti presentasti così.

Sono Taehyung, piacere di conoscervi!” e il tuo bel sorriso prese vita sul tuo volto. Ti strinsi a me perché ero fiero di essere il tuo ragazzo.

«Jimin non fa altro che parlarci di te, è diventato una ragazzina innamorata» Namjoon sapeva sempre come mettermi in imbarazzo. «Che ne dici di raccontarmi qualche episodio imbarazzante?».

Scrollasti le spalle e ti avvicinasti a lui. Namjoon non perse tempo e ti circondò con un braccio, ridendo sguaiatamente mentre leggeva ciò che avevi scritto. Che bastardi!

In quel pub dalla musica troppo alta, tu non smettesti di ridere e io non smisi di sorvegliarti. Temevo rischiassi di isolarti, sprofondare nel tuo silenzio e nasconderti nelle tue stesse spalle. Ma dovevo immaginarmelo che anche altri, oltre me, notassero la bellezza nei tuoi occhi, captassero ogni singola sillaba splendere nelle tue iridi brune.

Il tuo sguardo emetteva suoni bellissimi.

Jimin sta imparando il linguaggio dei segni”.

Speravo di renderti orgoglioso e me lo dimostrasti con quello sguardo colmo di fierezza.

Tutti mi derisero, ché sapevano fossi un terribile studente. Ti mostrasti meravigliato.

Con me impara in fretta, è un ottimo allievo!”.

Oh, ma certo che lo ero, Taehyung. Chi non desidererebbe comprendere l’uomo che ama?


 


 

I tuoi amici sono dei pazzi.

come potevo crescere così, altrimenti? ;)))

il prossimo passo saranno i miei genitori

u ready?

Mi stai mettendo pressione, stupido Jimin.

Secondo te, gli sono piaciuto?

ti prego

chiunque ti adorerebbe

potrei diventare geloso

jimin geloso è un jimin spaventoso

Ah, gli occhi dell’amore…

no, gli occhi di una persona realista

e anche gli occhi di una persona innamorata

di una persona sdolcinata

Di una persona che scrive troppo.

taehyung

sei stato perfetto.

Ti amo.

lo so. ti amo anche io

♥♥♥♥

Troppi cuori, pabo.


 


 


 

Dietro la maschera glaciale si nascondeva un ragazzino timido, ancorato alle proprie insicurezze. Qualche volta sognavo la tua voce. Mi chiedevo come sarebbe stata: acuta, delicata e virile, proprio come i tuoi lineamenti; ma ti avrebbe reso stereotipato e tu eri tutto tranne che banale. Quindi ti figuravo con una voce profonda, roca, che mi avrebbe cullato quasi quanto il tuo silenzio. Non che mi importasse.


 


 


 

Raramente mi raccontavi degli anni delle superiori. La mia curiosità venne soddisfatta inaspettatamente in un giorno come tanti altri, mentre compravamo una bottiglia di vino al supermercato dietro casa mia per festeggiare il nostro primo mese ufficiale.

Hoseok aveva persino fatto i bagagli! E io ero deciso a prepararti la cena migliore che avessi mai mangiato.

Non tutto andò come immaginato.

Entrò un ragazzo, non lo avevo mai visto e non m’interessava conoscerlo. Ma avvertii la tensione dilagare nell’aria, tu irrigidirti al mio fianco.

«Chi si rivede, Ciccio-Muto-Taehyung. Ehi, non saluti un vecchio amico?».

Quel tipo osò rivolgerti la parola. Ci misi poco a comprendere la situazione, adattarmi alle circostanze. Avrei dovuto trascinarti via di lì, ascoltare le tue mani che si stringevano attorno alle mie per suggerirmi di andarcene.

Non lo feci.

«Che cazzo vuoi?».

«Oh, Muto-Taehyung ha trovato il ragazzo! Dove l’hai presto ‘sto nano?».

Non me ne fregava un cazzo degli insulti diretti a me; semplicemente, non aveva l’onore di rivolgersi al mio Taehyung in quel modo. Tu non ti meritavi nemmeno una virgola delle sue parole.

«Faresti meglio a stare zitto» le mie mani finirono sul bavero della sua maglietta.

«Che fai, eh? Attento, ché se finisci male il tuo ragazzo non può chiamare i soccorsi!».

Un pugno si schiantò contro il suo zigomo.

«E’ tutto quello che sai fare? Esiste un fetish per scoparsi i muti? O farsi scopare, magari?».

Fosti tu a bloccarmi, prendermi per le braccia e spingermi fuori quel minimarket. Tornammo a casa, io col viso imbrattato di sangue e tu di lacrime.

«Taehyung».

Ci accolsero candele profumate e musica romantica, le avevo preparate prima di uscire. Si creò un contrasto inquietante, Frank Sinatra cantava a squarcia gola e tu urlavi il tuo dolore.

Corresti in bagno e tornasti con la cassetta del pronto soccorso. Non mi dicesti niente, mi costringesti a sedermi sul divano e cominciasti a medicarmi il labbro rotto e il naso sanguinante. Nel frattempo piangevi e piangevo anche io.

«Taehyung».

Mi guardasti negli occhi. Fanculo i cerotti, fanculo quel ragazzo, ti accolsi fra le mie braccia e tu mi stringesti fra le tue.

«Ti proteggerò sempre», la mia voce ti carezzò la pelle del collo. Le tue dita quasi affondarono nei miei fianchi, tanto stringevi. «Non me ne frega un cazzo se non puoi parlare, non me ne frega un cazzo se la gente non ci vuole insieme. Taehyung, io ti amo, te lo ricordi? Lo sai, questo? Te lo ripeterò sempre affinché tu non lo possa mai scordare. Ti amo, Tae. Ti amo da morire».

E sarei morto per te.


 


 


 

Perdesti il sorriso.

Guardavi i miei tagli e t’incupivi, mi sfioravi le mani e tremavi.

Da quel momento in poi, il Dio Amore cominciò a remarci contro. Si abbatté su di noi, armato di spada, deciso a sfilarci dal cuore le frecce conficcate da Eros. Una tempesta investì i tuoi sentimenti, i fiori della felicità appassirono e i petali s’incenerirono nel terreno arido.

Eri stato un girasole, eri diventato il mio sole e lentamente appassivi, ti spegnevi. Ti sgretolavi fra le mie dita e io assistevo impotente alla tua rovina.

A niente servirono i miei tentativi. Tu continuavi a sfuggirmi, Taehyung, scappavi dalle mie braccia e rifiutavi i miei abbracci. Smettesti di concedermi sorrisi. Mi donavi pochi sguardi, i tuoi occhi tremavano davanti ai miei.

Smettesti di toccarmi. Smettesti di spendere parole. Smettesti di guardarmi. Smettesti di amarmi, Taehyung?


 


 


 

Il culmine lo raggiungemmo una notte. Avrebbe dovuto rappresentare la rinascita nel nostro amore e ne segnò la fine.

Ero deciso a corteggiarti; indossai il mio outfit migliore, ti comprai un girasole e ti portai in un locale dalle luci colorate. Conoscevo i tuoi gusti.

Accogliesti, dopo intere settimane, i miei maldestri tentativi di farti ridere. Imparai a conversare con i segni, goffamente e impacciatamente, chissà quante gaffe e chissà quante incomprensioni. Accogliesti ogni mia frase sbagliata, stavolta ero io che incespicavo fra le parole e provavo a farmi comprendere da te.

Capii cosa si provava. Tu ridevi, ma non di me; mi aiutavi, mi afferravi i polsi e sistemavi le mie mani.

Chiusi il pugno, alzai il mignolo, l’indice e il pollice.

Facesti lo stesso.

Ti offrii da bere, un margarita non avrebbe mai fallito. Eri adorabile con le palpebre strizzate e il disgusto impresso sul volto.

«L’alcol non ti piace, Taetae?».

Sei odioso, mi dicesti con i segni.

«Cosa? Che sono bellissimo? Grazie, ho provato a darmi una sistematina».

Mi passai una mano fra i capelli, tu seguisti le mie dita per scompigliarmeli. Mi ribellai a gran voce, il barista rise di noi e ci offrì un cocktail. Lo condividemmo insieme, tu con una cannuccia verde fra le labbra, io con una rossa. Ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere.

È stato imbarazzante, mi facesti capire.

«Sembriamo una coppia novella. Le tue labbra sapranno di fragola, adesso?».

Scrollasti le spalle e io ti baciai.


 


 

Continuammo a ridere. Il pub si spopolava, le persone sfrecciavano attorno a noi come ombre sfocate e i nostri sorrisi colmavano i tuoi silenzi. Il mio cuore galoppava impazzito, colpiva la cassa toracica e sgorgavano fiotti di petali gialli. Fluttuavamo nel nostro paradiso artificiale e alzavamo il dito medio al Dio Amore che aveva provato a dividerci.


 


 

Andasti in bagno, io ti fissai da lontano.

«E’ libero qui?» fu la voce di una giovane ragazza a farmi distogliere lo sguardo dalla tua bella schiena.

«No» c’è il mio ragazzo.

Lei cominciò a parlarmi, io non l’ascoltavo. Mi carezzava il braccio, mi seduceva con le sue belle labbra rosse; io aspettavo solo il tuo ritorno e mi innervosii quando non ti vidi tornare immediatamente.

Forse stavo cominciando a sviluppare una dipendenza insana nei tuoi confronti, ma non dubitai nemmeno per un istante che quello non fosse amore.

Ti aspettai e quando tornasti, giurai di sentire il tuo cuore spezzarsi. Il dolore si rifletté sul tuo volto, contratto e contorto dall’angoscia. Ti raggiunsi, tu evitasti il mio sguardo.

Cosa posso darti io?

«Tu sei tutto ciò che voglio!».

Sei innamorato dell’idea che hai di me!

«Io ti amo più di ogni altra cosa! Darei la mia vita per te!».

Nei tuoi occhi si riversarono le fiamme. Pronunciai le parole sbagliate, non è vero?


 


 


 

Non mi cercasti e io ti implorai di parlarmi. Solo cinque minuti, ti chiedevo, solo il tempo di lasciarmi spiegare. Avevo sbagliato, Taehyung? Ma dove? Avevo rifiutato quella ragazza, a stento ricordavo il suo viso! Come potevo farti capire che io amavo solo te?

Tu, fasciato da tutte le tue insicurezze, eri cieco ai miei sentimenti.

Mi faceva male, Taehyung, ma avrei accettato qualunque cosa pur di averti vicino. Non mi amavi più? Io non ti piacevo più? Ero diventato insopportabile, appiccicoso? Avresti dovuto dirmelo!

Una sera ricevetti una tua chiamata. Era la prima volta che mi chiamavi, fui sorpreso; avevi qualcosa da dirmi? Avremmo fatto un face-time? Oh, quanto mi sarebbe piaciuto tornare ad ammirare il tuo bel viso!

Risposi, ma ci fu solo silenzio.

«Taehyung?».

Non avrei mai avuto l’onore di ascoltare la tua voce, ma perché quella chiamata così improvvisa?

Cominciai a preoccuparmi, un brutto presentimento s’insinuò fra le viscere e si trasformò in bile. Non cercai nemmeno le chiavi di casa, mi fiondai in strada e corsi da te.


 


 

Ci impiegai mezzora.

Ancora adesso, continuo a chiedermi se fossi stato un po’ più veloce, sarei riuscito a salvarti. Mi chiedo se il Dio Amore, almeno in quel frangente, ti avesse concesso un po’ di voce, ora saremmo giunti a questo punto.

C’era la polizia davanti il tuo palazzo. Cosa ci facevano lì?

Non ebbi il tempo di né di chiedermelo, né di ricevere risposte. Intravidi il volto distrutto di tua madre, grondava di lacrime e di tristezza, e fu come se il mio cuore lo avesse elaborato prima della mia mente. Non dissi niente quando lei si buttò fra le mie braccia, non mossi un muscolo quando mi prese a pugni il petto e mi chiese perché.

Perché, Taehyung? Perché lo avevi fatto?

Era stata colpa mia?


 


 

Il tuo corpo poggiava immobile sul lettino, eri coperto da un lenzuolo bianco. Corsi da te e ti abbracciai, il calore della tua pelle era scomparso e le mie dita saggiavano solo grigia freddezza. Ti eri svuotato di ogni colore, il mio girasole aveva perso i suoi petali e si era fuso con la terra. Urlai così forte da perdere la voce, inveii contro chi osò strapparmi da te e maledissi chiunque osasse infangare la tua memoria.

Tu non ti eri suicidato, Taehyung, perché avresti dovuto farlo?

Mi avevi chiamato. Se avessi avuto un filo di voce per parlarmi, io ti avrei salvato?

Era colpa mia. Io non avevo compreso la situazione. Avrei dovuto dissuaderti, urlarti i miei sentimenti e ripetere il tuo nome. Forse ora mi staresti abbracciando, forse ora non saresti morto.


 


 

Prima del funerale mi venne recapitata una lettera, avrei riconosciuto la tua calligrafia ovunque.

Quando leggerai questa lettera, io non ci sarò più.

Non addossarti colpe, Jimin, sei stato l’unico a rimandare la mia fine di qualche settimana. Mi hai fatto sperimentare l’amore e tutte quelle sensazioni indescrivibili che non dimenticherò mai.

Non scriverò molto, non ne ho le forze. Rischierei di piangere e ora ti sto scrivendo col sorriso. Dio, questa lettera sarà piena di errori; tu ricordarmi come un buon oratore, okay?

Ti confesso che, al nostro primo incontro, fuggii da te perché mi vergognavo. Nessun ragazzo così bello aveva mai osato approcciarmi. Fui colto da una vergogna tale da dovermi allontanare subito. Stento a crederci che quello stesso ragazzo così bello sia stato il mio primo bacio, la mia prima volta, il mio primo amore.

Ma io non ti merito, Jimin, e non ti meriterò mai. Hai bisogno di qualcuno migliore di me, non un fantoccio incapace di esprimersi. Quella volta, al pub, mi dicesti “morirei per te”. No, tu vivrai per me e vivrai senza di me. Non sprecare la tua vita per una persona come me.

Un’ultima cosa, non voglio rubarti altro tempo: ricordati che ti amo, ti amo follemente e ti amerò per sempre. Non dimenticarlo mai, Jimin.


 

-


 

Oh, Taehyung. Che bel suono. Taehyung, Taehyung, Taehyung.

Continuo a chiamarti nella notte, fisso le tue foto per non dimenticare il tuo viso. Quando vieni a trovarmi nei miei sogni, non parli; com’è che ti dicevo? Io e te non abbiamo mai avuto bisogno di parole.

Qualche volta ripenso al nostro primo incontro, al modo in cui ti nascondevi. Ripenso alla nostra prima volta, a come i tuoi baci s’aggrappavano ai miei, impregnati di disperazione. E mi tornano in mente i pomeriggi in biblioteca, i centinaia di girasoli che ti regalavo e che si sposavano col tuo incarnato ambrato.

La città è più bella vista dall’alto, lo sapevi? Mi sarebbe piaciuto mostrartela. Da questa prospettiva, è come se nessuno riuscisse ferirti. Piccole formichine insignificanti che percorrono sentieri già scritti.

Un giorno, ci torneremo insieme. Per ora mi limito ad abbracciare la tua ombra, nuotare nel cielo e sperare d’incontrarti. Vengo cullato dalle nuvole, un po’ come quella volta sulla ruota panoramica. Allargo le braccia e figuro il tuo volto; sorrido, prima di schiantarmi contro l’asfalto.

È un girasole, quello che vorrò sulla mia tomba.


 


 

  
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