NEVE
Dietro
un vetro freddo e appannato piccole e soffici palline bianche cadevano
silenziose, sotto lo sguardo indifferente e calcolatore di Ai. La neve aveva
già cominciato a posarsi.
Erano
proprio quei giorni di fredda e compatta neve che la facevano sentire sola. Per
quell’atmosfera da bianco Natale, quella solitudine prendeva possesso della sua
mente. I bambini sarebbero corsi fuori a formare qualche pupazzo di neve o
giocare a palle di neve per tutto il giorno, invece Ai non sentiva quel brivido
di felicità. L’assaliva solo tanta tristezza.
Gin
per poco l’aveva trovata e, come un assassino crudele sapeva essere, le aveva
preparato diversi colpi di pistola pronti per lei. Aveva sofferto, provato un
dolore immenso, ma non si era lamentata neanche una volta. Voleva apparire
forte, come faceva di solito. Aveva tradito un’organizzazione che per anni
l’aveva sfruttata e controllata, perciò, non poteva che aspettarsi una reazione
simile da quegli uomini, ma si domandava più volte se davvero se lo fosse meritato.
Si
era fatta coraggio, aveva deciso di ribellarsi, di fuggire dopo quello che
avevano fatto a sua sorella. Gin stesso non aveva battuto ciglio prima di
spararle e l’aveva uccisa, senza aver potuto salutare Akemi per l’ultima volta.
Shiho poteva sopportare il dolore di un’arma da fuoco, gli insulti e il
disprezzo dei criminali con cui una volta collaborava, ma il tormento che
provava ogni volta che pensava ad Akemi o a come fino ad allora lei stessa
fosse stata usata come un oggetto fondamentale di un progetto criminale, non
riusciva proprio a tollerarlo. Il cuore si frantumava in pezzi ad ogni battito
e l’immobilità l’assaliva prepotentemente.
Nonostante
il calore che emanava la casa del professor Agasa, Ai sentiva lo stesso freddo
di quel giorno. E il freddo mischiato al dolore dei proiettili che entravano
nella sua pelle le davano quella sensazione di smarrimento e di orrore, ma la
sua mente razionale poteva sostenere ogni colpo che riceveva. Riusciva lo
stesso a rimanere lucida e, anche percependo il suo corpo che soffriva, lottava
per restare viva. Anche quel giorno nevicava. Anche quel giorno aveva paura. E
come ogni giorno stava male nel ricordare di non avere più una famiglia che la
amasse e la paura di veder perdere altre persone che le erano vicine e che
cominciava ad amare.
Nel
giro di poco tempo la vetrata, dalla quale Haibara guardava attraverso,
mostrava un paesaggio bianco e immobile, bloccato da una compatta neve che le
temperature basse avrebbero tenuto in vita ancora per un po’. In fondo,
rifletteva la scienziata, era ancora viva e avrebbe fatto di tutto per
realizzare il progetto scientifico che aveva in mente prima della sua dipartita.
Voleva lasciare una traccia vivida della sua esistenza prima di lasciare per
sempre quel mondo che sapeva essere naturalmente bellissimo, ma allo stesso
tempo crudele. Avrebbe lottato fino alla fine, lo doveva a Shinichi che più di
una volta le aveva salvato la vita e lo doveva a se stessa perché in fondo, ma
molto in fondo si meritava una seconda possibilità. Si meritava un po’ di
felicità, ma soprattutto aveva ancora molto da dimostrare al mondo; quanto in effetti
fosse brillante e piena di risorse. Forse tali, addirittura, da poter cambiare
il mondo.
Il
camice bianco che indossava apparteneva a lei, solo con esso si sentiva davvero
se stessa. Era perfetto per quel tempo bianco e immutabile, quasi come una
foto, che vi era all’esterno.
Gettò
una rapida occhiata alla casa di Shinichi, ma non le interessava l’architettura
o il biancore che si era depositato su di essa, bensì chi ci abitava in quel
momento. Conosceva la persona che si celava dietro quella maschera.
Sapeva
che Subaru era solo una delle false identità di quell’uomo. Non era a
conoscenza della vera identità che segretamente le nascondeva, ma avrebbe
potuto giurare che avesse a che fare con l’FBI. D’altronde lo stesso Conan le
stava mentendo su qualcosa che aveva a che fare con i federali.
Era
naturale che Subaru avesse del risentimento nei suoi confronti, altrimenti non
le avrebbe mentito, oppure, la ragione era un’altra: non voleva rivelarle la
sua identità perché le stava nascondendo una qualche verità, di proposito e
aveva paura della reazione che lei avrebbe potuto avere in seguito. O più
semplicemente, stava cercando un’occasione per farle del male.
Nessuno
protegge qualcun altro senza volere qualcosa in cambio, soprattutto se era
stato un membro degli uomini in nero che li aveva traditi e che probabilmente
ora li dava la caccia. Forse lei era una delle sue prede.
Forse
era stata una richiesta fatta da Akemi, ma lei sarebbe stata davvero così
egoista da chiedere al suo ex fidanzato, Moroboshi, di proteggere la sua
sorellina, a tempo pieno, costringendo il ragazzo a non vivere più?
No,
la ragione era di sicuro legata a…
Interruppe
quel pensiero.
Detestava
ammetterlo, ma la sua presenza era nello stesso tempo opprimente e
terrificante, ma soprattutto confortante.
Quel
muro di Berlino che si frapponeva tra loro due non poteva essere distrutto con
facilità e probabilmente lei stessa non avrebbe avuto il coraggio di
abbatterlo.
Con
la stessa freddezza di quando si era affacciata alla finestra, si allontanò da
questa e si accomodò sul divano con in braccio il suo portatile. Avrebbe
continuato a lavorare sui suoi progetti scientifici.
La
scienza era l’unica cosa che, forse, la salvava da tutto; l’unica che con
certezza conosceva davvero. Ma la scienza non è perfetta, proprio come gli
uomini che si affannano a cercare la verità del mondo e del proprio Sé, senza
mai trovarla.
Quell’imperfezione
la faceva sentire meno sola.