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Autore: Nazuhi    11/01/2019    1 recensioni
Mi cinse le spalle con le braccia e avvertii il peso del suo corpo contro la mia schiena. I suoi capelli, chiari come la luce dell’alba, profumavano di erbe mediche e fiordaliso, di sottobosco e libertà.
***
In una terra antica e bucolica, un giovane semi-dio e una fanciulla mortale si incontrano all'ombra dei larici. Un incontro fugace, dettato da poche parole e molti sguardi, che è destinato a far sbocciare una ninfea bianca nel cuore del giovane.
Una ninfea dotata di spine.
[Questa OS partecipa alla challenge "Theiokes" organizzata da Fayer_Siren]
Genere: Fantasy, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christopher Arclight/ Five, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Theiókes – La ninfea bianca

 

«Sei triste, figlio mio?»
Alzai lo sguardo sulla figura slanciata di mia madre e scossi leggermente la testa. Non potevo di certo angustiarla con le pene che affliggevano il mio cuore; si sarebbe preoccupata e avrebbe sofferto per il mio destino avverso.
«Dici così, eppure il tuo cuore sanguina» proseguì lei. Mi cinse le spalle con le braccia e avvertii il peso del suo corpo contro la mia schiena. I suoi capelli, chiari come la luce dell’alba, profumavano di erbe mediche e fiordaliso, di sottobosco e libertà. Fu sufficiente avvertire quell’odore affinché la ferita che torturava il mio cuore si aprisse di nuovo. Piansi lacrime amare, mentre le braccia amorevoli di mia madre mi cullavano. Per un lungo attimo, desiderai di poter tornare indietro nel tempo, quando l’unico amore di cui avessi bisogno era quello della donna che mi aveva generato.
Di poter tornare bambino.
«Il tuo corpo soffre, figlio mio, lo sento. La pena che stai provando ti distrugge, eppure non vuoi farne parola con tua madre, Iaso, la dea della guarigione. Perché? Temi la mia ira? Oppure hai paura delle mie parole?»
«Ho paura di guarire, madre» le dissi. «Questo dolore, per quanto sia forte, mi ricorda ciò che ho sfiorato e perduto per sempre. Mi aiuta a non dimenticare.»
«Dimenticare chi?»
«La fanciulla più bella e leggiadra che abbia mai visto.»
«Più bella e leggiadra di me?»
Tentennai un po’, non volevo dirle la verità, ciò che realmente si celava nel mio cuore, eppure non avevo altra scelta. Come avrei potuto mentire alla mia stessa madre, a colei che mi aveva partorito e che mi aveva cresciuto tra mille difficoltà? Avrei anche potuto mentire al padre degli dei e ai suoi figli prediletti, incorrendo nella loro ira e nelle loro maledizioni, ma mai avrei potuto riservare lo stesso comportamento verso la mia amata madre.
«Temo di sì, madre.» dissi, infine, e sperai con tutto il mio cuore che le mie parole non l’avessero ferita.
Un sorriso cristallino proruppe dalle sue labbra. Rideva, spensierata, come quando avevo guarito quel piccolo passerotto con l’ala ferita. Come quando, da bambino, le donavo una corona di fiori di campo, dicendole che era così bella che avrebbe potuto far arrossire di vergogna persino Afrodite.
«Deve essere vero amore allora» disse lei, sorridendo. «Perché non me ne vuoi parlare?»
«Perché è umana, madre, e io sono un semi-dio. E sono tuo figlio. Come posso innamorarmi di una semplice umana?»
«Come ho fatto io» replicò lei, scostandomi un lungo ciuffo bianco dal volto. «Come hanno fatto i miei fratelli, i miei zii e tanti altri. L’amore è amore, figlio mio, e la tua anima merita di conoscerlo e gioirne. Adesso, su, parlami di questa fanciulla che ha rapito il tuo cuore un tempo freddo come il ghiaccio.»
Accennai un sorriso di ringraziamento e, con il petto colmo di gioia e speranza, raccontai a mia madre di quell’evento che aveva acceso una fiamma ardente nella mia anima.
 

Poggiai il cesto in terra e mi chinai per cogliere i fiori e le erbe da portare a mia madre. Ne aveva bisogno per esercitare la sua arte, per poter continuare a fare ciò che aveva sempre fatto. Quando sollevai lo sguardo la vidi, una macchia chiara contro il verde scuro del bosco. Il peplo bianco strusciava sull’erba fresca di rugiada, i capelli raccolti intorno alla testa erano del colore del miele. Una bellezza che superava persino quella di Afrodite mi serrò il petto. Rimasi immobile per lunghi minuti a osservarla, il fiato sospeso, avvolto in quel frammento di tempo eterno che speravo non sarebbe mai scorso. Anche lei mi guardava, forse sorpresa, forse curiosa, non avrei saputo dirlo. Il suo volto era una maschera impassibile, bianca e perfetta come quella di una statua votiva.
«Chi sei?» le chiesi. Lei mi guardò, in silenzio. Le ripetetti la domanda una seconda volta, ma non ottenni risposta. Pensai che non volesse rispondermi, che forse le avessi fatto paura, ma poi lei si indicò la bocca e scosse la testa. Un’espressione mesta aveva appena fatto capolino nei suoi occhi scuri. Non poteva parlare.
«Sei nata così?»
Scosse la testa, di nuovo triste, e indicò prima la sua gola, poi una pianta di mirto che cresceva lì accanto. Sentii il cuore sprofondarmi nelle viscere, perché avevo capito cosa avesse appena cercato di dirmi. Avevo compreso il suo infausto destino.
«Perché?» le chiesi. Lei abbassò gli occhi al suolo e rimase a lungo immobile. Feci un paio di passi nella sua direzione, ma lei sollevò il palmo come a chiedermi di fermarmi. Ubbidii e quando sollevò il volto vidi lacrime argentee solcare le sue guance diafane. Per la seconda volta una fitta dolorosa al petto mi strappò tutto il fiato che avessi. Per la seconda volta ebbi pietà di quella povera creatura. Per la seconda volta mi innamorai della sua bellezza.
«Forse posso aiutarti» le dissi. «Sono figlio di Iaso, posso guarirti e liberarti da questa maledizione. Se vuoi, posso…»
La fanciulla scosse la testa e abbozzò un sorriso mesto. Prese qualcosa dal suo cesto e si avvicinò lentamente. La veste frusciava tra gli arbusti del sottobosco, i riccioli chiari oscillavano alla tenue brezza che spirava da nord. Un delicato odore di cannella si insinuò tra le mie narici. Allungò la mano verso il mio volto e accarezzò i miei capelli. Accennò di nuovo un sorriso mesto e scomparve tra gli alberi.
Rimasi immobile a lungo, con lo sguardo fisso nel punto in cui, fino a poco prima, si trovava la bella fanciulla muta. Portai una mano ai capelli e quando la ritrassi tra le dita c’era una corolla di ninfea. Bianca come le sue carni.
 
 

 

***
Nda: La ninfea, per gli antichi greci, significava amore platonico. Il mirto, invece, è uno dei simboli di Afrodite.
Per quanto riguarda il titolo, indica sia la giovane fanciulla, sia V.

  
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