Theiókes
– La ninfea bianca
«Sei
triste, figlio mio?»
Alzai lo sguardo sulla figura slanciata di
mia madre e scossi leggermente la testa. Non potevo di certo
angustiarla con le
pene che affliggevano il mio cuore; si sarebbe preoccupata e avrebbe
sofferto per
il mio destino avverso.
«Dici così, eppure il tuo cuore
sanguina»
proseguì lei. Mi cinse le spalle con le braccia e avvertii
il peso del suo
corpo contro la mia schiena. I suoi capelli, chiari come la luce
dell’alba,
profumavano di erbe mediche e fiordaliso, di sottobosco e
libertà. Fu
sufficiente avvertire quell’odore affinché la
ferita che torturava il mio cuore
si aprisse di nuovo. Piansi lacrime amare, mentre le braccia amorevoli
di mia
madre mi cullavano. Per un lungo attimo, desiderai di poter tornare
indietro
nel tempo, quando l’unico amore di cui avessi bisogno era
quello della donna che
mi aveva generato.
Di poter tornare bambino.
«Il tuo corpo soffre, figlio mio, lo
sento. La pena che stai provando ti distrugge, eppure non vuoi farne
parola con
tua madre, Iaso, la dea della guarigione. Perché? Temi la
mia ira? Oppure hai
paura delle mie parole?»
«Ho paura di guarire, madre» le dissi.
«Questo
dolore, per quanto sia forte, mi ricorda ciò che ho sfiorato
e perduto per
sempre. Mi aiuta a non dimenticare.»
«Dimenticare chi?»
«La fanciulla più bella e leggiadra che
abbia mai visto.»
«Più bella e leggiadra di me?»
Tentennai un po’, non volevo dirle la
verità, ciò che realmente si celava nel mio
cuore, eppure non avevo altra
scelta. Come avrei potuto mentire alla mia stessa madre, a colei che mi
aveva
partorito e che mi aveva cresciuto tra mille difficoltà?
Avrei anche potuto
mentire al padre degli dei e ai suoi figli prediletti, incorrendo nella
loro
ira e nelle loro maledizioni, ma mai avrei potuto riservare lo stesso
comportamento verso la mia amata madre.
«Temo di sì, madre.» dissi, infine, e
sperai
con tutto il mio cuore che le mie parole non l’avessero
ferita.
Un sorriso cristallino proruppe dalle sue
labbra. Rideva, spensierata, come quando avevo guarito quel piccolo
passerotto
con l’ala ferita. Come quando, da bambino, le donavo una
corona di fiori di
campo, dicendole che era così bella che avrebbe potuto far
arrossire di
vergogna persino Afrodite.
«Deve essere vero amore allora» disse lei,
sorridendo. «Perché non me ne vuoi
parlare?»
«Perché è umana, madre, e io sono un
semi-dio.
E sono tuo figlio. Come posso innamorarmi di una semplice
umana?»
«Come ho fatto io» replicò lei,
scostandomi
un lungo ciuffo bianco dal volto. «Come hanno fatto i miei
fratelli, i miei zii
e tanti altri. L’amore è amore, figlio mio, e la
tua anima merita di conoscerlo
e gioirne. Adesso, su, parlami di questa fanciulla che ha rapito il tuo
cuore
un tempo freddo come il ghiaccio.»
Accennai un sorriso di ringraziamento e,
con il petto colmo di gioia e speranza, raccontai a mia madre di
quell’evento che
aveva acceso una fiamma ardente nella mia anima.
Poggiai
il cesto
in terra e mi chinai per cogliere i fiori e le erbe da portare a mia
madre. Ne
aveva bisogno per esercitare la sua arte, per poter continuare a fare
ciò che aveva
sempre fatto. Quando sollevai lo sguardo la vidi, una macchia chiara
contro il
verde scuro del bosco. Il peplo bianco strusciava sull’erba
fresca di rugiada,
i capelli raccolti intorno alla testa erano del colore del miele. Una
bellezza
che superava persino quella di Afrodite mi serrò il petto.
Rimasi immobile per
lunghi minuti a osservarla, il fiato sospeso, avvolto in quel frammento
di
tempo eterno che speravo non sarebbe mai scorso. Anche lei mi guardava,
forse
sorpresa, forse curiosa, non avrei saputo dirlo. Il suo volto era una
maschera
impassibile, bianca e perfetta come quella di una statua votiva.
«Chi sei?» le
chiesi. Lei mi guardò, in silenzio. Le ripetetti la domanda
una seconda volta,
ma non ottenni risposta. Pensai che non volesse rispondermi, che forse
le
avessi fatto paura, ma poi lei si indicò la bocca e scosse
la testa. Un’espressione
mesta aveva appena fatto capolino nei suoi occhi scuri. Non poteva
parlare.
«Sei nata così?»
Scosse la testa,
di nuovo triste, e indicò prima la sua gola, poi una pianta
di mirto che cresceva
lì accanto. Sentii il cuore sprofondarmi nelle viscere,
perché avevo capito cosa
avesse appena cercato di dirmi. Avevo compreso il suo infausto destino.
«Perché?» le
chiesi. Lei abbassò gli occhi al suolo e rimase a lungo
immobile. Feci un paio
di passi nella sua direzione, ma lei sollevò il palmo come a
chiedermi di
fermarmi. Ubbidii e quando sollevò il volto vidi lacrime
argentee solcare le
sue guance diafane. Per la seconda volta una fitta dolorosa al petto mi
strappò
tutto il fiato che avessi. Per la seconda volta ebbi pietà
di quella povera
creatura. Per la seconda volta mi innamorai della sua bellezza.
«Forse posso
aiutarti» le dissi. «Sono figlio di Iaso, posso
guarirti e liberarti da questa
maledizione. Se vuoi, posso…»
La fanciulla scosse
la testa e abbozzò un sorriso mesto. Prese qualcosa dal suo
cesto e si avvicinò
lentamente. La veste frusciava tra gli arbusti del sottobosco, i
riccioli chiari
oscillavano alla tenue brezza che spirava da nord. Un delicato odore di
cannella
si insinuò tra le mie narici. Allungò la mano
verso il mio volto e accarezzò i
miei capelli. Accennò di nuovo un sorriso mesto e scomparve
tra gli alberi.
Rimasi immobile a
lungo, con lo sguardo fisso nel punto in cui, fino a poco prima, si
trovava la
bella fanciulla muta. Portai una mano ai capelli e quando la ritrassi
tra le
dita c’era una corolla di ninfea. Bianca come le sue carni.
***
Nda: La ninfea, per gli antichi greci, significava amore platonico. Il
mirto,
invece, è uno dei simboli di Afrodite.
Per quanto riguarda il titolo, indica sia
la giovane fanciulla, sia V.