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Autore: Parmandil    12/01/2019    0 recensioni
Tre storie. Tre viaggi. Tre ricerche che confluiscono nella battaglia più tragica della storia federale.
Quando l’ISS Enterprise dell’Impero Terrestre attacca la Federazione, già provata da anni di conflitto, solo una nave può tenerle testa: la sua gemella federale. Il Capitano Chase dovrà dar fondo alle sue abilità strategiche per sconfiggere il suo alter-ego dello Specchio, prima che s’impadronisca dell’arma più pericolosa e distrugga la nascente alleanza coi Romulani.
Nel frattempo, quattro improbabili eroi incontrano un naufrago del tempo e s’incaricano di recuperare la sua più grande invenzione, il Tox Uthat, salvandolo dai pirati temporali. Nelle mani giuste, l’Uthat sarà l’arma finale contro le Sfere; in quelle sbagliate condannerà definitivamente la Federazione.
Ma la più grande minaccia sarà svelata dai tre ufficiali dell’Enterprise che indagano sui nuovi alleati del Fronte Temporale. Dalle giungle soffocanti al fondo dell’oceano di Vorgon, fino agli abissi di un pianeta oscuro e morente, scopriranno il vero volto del nemico. Una specie antica, nemica della luce, pronta a riprendere il dominio della Galassia.
Stavolta le difese della Terra non basteranno. Stavolta le speranze andranno infrante. E tutto finirà tra le fiamme.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Berlinghoff Rasmussen, Nuovo Personaggio, Romulani
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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-Capitolo 8: La testa del serpente

 

   I cantieri spaziali di Utopia Planitia erano fra i più imponenti della Federazione. Il titanico Hangar Spaziale Terrestre, dalla bizzarra forma a fungo, stupiva e incantava i visitatori per la sua mole. La Stazione Jupiter conteneva laboratori di ricerca tra i più avanzati della Flotta, in campi come le comunicazioni, la tecnologia olografica e la fisica subatomica. Ma era Marte, il Pianeta Rosso, la vera fucina della Flotta Stellare. Dozzine di cantieri spaziali galleggiavano appena oltre le tenui propaggini atmosferiche del pianeta terra-formato. Ognuno conteneva l’ossatura di una nave in costruzione. Lunghi bracci meccanici posizionavano le gondole, altri si occupavano delle saldature. Navette da trasporto e Work Bee sciamavano come api intorno agli scafi mastodontici. E migliaia d’ingegneri in tuta spaziale si affollavano intorno alle parti incompiute, eseguendo i compiti più disparati. Ogni volta che una squadra finiva il turno, un’altra subentrava. Era una catena di montaggio che non si fermava mai.

   Non c’era da stupirsi se il lavoro era così alacre. Con la Flotta martoriata da tre anni di anomalie e di attacchi nemici, c’era un disperato bisogno di rimpiazzare le perdite. Il volto della Flotta sarebbe uscito trasformato dopo il conflitto: non più navi concepite per missioni di pattugliamento e rilevamenti scientifici, ma potenti vascelli orientati alla battaglia. Nuove classi erano varate: Theseus, Paladin, Sagittarius, fino alle gargantuesche Universe e Celestial. Erano le prime, vere navi da battaglia progettate da oltre un secolo. I ritmi di costruzione erano accelerati per compensare le perdite, mentre i vascelli che pattugliavano i confini rientravano per subire aggiornamenti. Le navi sacrificavano gli strumenti scientifici per le necessità belliche; anche modelli come Altair e Mjölnir erano riconfigurati con armamenti supplementari.

   Naturalmente le difese planetarie erano state incrementate dopo la catastrofe di Khitomer. Nuove piattaforme automatiche orbitavano intorno a Marte, la cui superficie si era riempita di lanciasiluri e armi a energia. Memore dell’attacco Breen nella Guerra del Dominio, la Flotta Stellare aveva incrementato anche le difese terrestri e lunari. Ma con tante armi di distruzione di massa in circolazione, non si poteva mai dormire sonni tranquilli.

   Questi e altri pensieri passavano nella mente dell’Ammiraglio Nelscott mentre, nel suo ufficio sulla Majestic, leggeva gli aggiornamenti dei cantieri spaziali. Fin da prima della guerra, era stato il principale fautore del potenziamento bellico della Flotta. Questo gli aveva fruttato le accuse più becere: di essere un guerrafondaio, di aizzare il conflitto, di mirare al colpo di Stato. Solo lui sapeva quanto le accuse fossero infondate. Se la Galassia avesse esaudito i suoi desideri, la Flotta Stellare sarebbe stata dedicata all’esplorazione, alla ricerca scientifica, al pattugliamento delle rotte spaziali: gli scopi per cui era stata fondata. Ma nella Galassia così com’era, una Flotta siffatta era incapace di proteggere la Federazione. Infatti solo le astronavi più moderne e armate stavano dimostrando una certa superiorità nei confronti di Tuteriani e Krenim. Per assicurarsi che la loro produzione continuasse, Nelscott doveva passare quasi tutto il suo tempo sulla Terra, a battibeccare con il Consiglio federale e il Comando di Flotta, e su Marte, a sovrintendere direttamente la costruzione. Gli restava ben poco tempo per guidare la Majestic in battaglia e comunque esitava a privare il sistema solare della sua difesa.

   «Ammiraglio, una comunicazione urgente per lei dagli Uffici Presidenziali a Parigi» avvertì la voce del computer di bordo.

   «Va bene, Majel, passamela qui» rispose Nelscott, chiamando l’IA con il suo soprannome. Si alzò in piedi, rispettosamente, mentre l’ologramma appariva davanti a lui. Pensava che fosse il Presidente Ektius, ma si sbagliava. Era una messaggera di catastrofe.

 

   «Salve, amici spettatori. Qui è Vaus Liin, in diretta per il Federal News. Vi parlo dall’Accademia della Flotta Stellare a San Francisco» disse il giornalista, assicurandosi che i giardini ridenti e gli scintillanti palazzi dietro di lui fossero inquadrati dal drone-olocamera. «Come annunciato ormai settimane fa, i cadetti si sono radunati per una protesta che scuoterà le coscienze della Flotta Stellare. Ma lasciamo la parola sul significato di questo happening al suo promotore, il cadetto Okuz!» sorrise il giornalista.

   L’inquadratura si allargò, e dovette farlo molto per includere la mole del cadetto. Gli spettatori videro che stava nell’ampio piazzale tra il palazzo dell’Accademia e i giardini, di cui s’intravedevano gli alberi e le siepi ben curate.

   «Salve a tutti!» gongolò Okuz, puntando i pollici in su e scuotendo le spalle in un accenno di danza. Nemmeno l’uniforme da cadetto poté impedire alla sua pancia grassa di tremolare. «Sììì, ci siamo radunati in questa stupenda giornata per trasmettere un messaggio di pace e fratellanza!» disse con voce stridula. «Crediamo che la musica e la danza siano gli strumenti più adatti per aprire le menti. Ricordate, gente... tuuutti noi possiamo essere tuuutto ciò che vogliamo!» chiocciò.

   «A nome degli spettatori, grazie per questo bellissimo messaggio!» sorrise Vaus Liin. La sua voce quasi si perse in uno scroscio di applausi, perché attorno a Okuz si andava ingrossando un folto gruppo di cadetti, pronti a ballare. Tra applausi, strette di mano e pacche sulle spalle, ci volle un bel pezzo perché la commozione si placasse. «Ora, tornando al significato di questa protesta danzante...» invitò il giornalista.

   «L’abbiamo pensata per opporci ai movimenti ripetitivi che la Flotta ci chiede di fare a bordo delle astronavi» spiegò Okuz. «Ogni giorno dobbiamo ripetere gli stessi gesti, le stesse parole. Questo non va bene... anche gli schemi mentali diventano ripetitivi. La nostra danza serve a ripristinare la creatività, la libertà, la vitalità. È la protesta pacifica e colorata di chi vede la vita non come il mezzo per ottenere qualcosa, ma come il fine ultimo! Vogliamo che i nostri corpi pulsino al ritmo delle nostre emozioni, delle nostre sensazioni. Vogliamo che il nostro grido d’amore si fonda coi nostri nervi, che nuove idee c’illuminino l’encefalo come fuochi d’artificio, che nuove linee di pensiero ci riconfigurino il sistema nervoso!» si esaltò.

   «Grazie... grazie a te per questa lezione di vita, e grazie a tutti voi per essere qui! Siete speciali, siete meravigliosi!» sorrise Vaus Liin, salutando con ampio gesto l’enorme folla che si era radunata alle spalle di Okuz. I cadetti avevano ormai preso posizione, riempiendo il piazzale, e fronteggiavano il palazzo dell’Accademia come se fosse il nemico. Ma erano così numerosi che solo una piccola parte aveva trovato posto lì. Molti di più gremivano i giardini: ogni piazzola, ogni sentiero serpeggiante nel verde, ogni ponticello sui canaletti.

   «A nome del Federal News, vi ringrazio per il contributo che state offrendo alla Flotta Stellare. E ora... date inizio alle danze!» invitò Vaus Liin, indietreggiando. Il suo drone-olocamera si alzò di quota, raggiungendo altri droni simili, che effettuavano riprese panoramiche dell’evento.

   Dagli altoparlanti, installati qua e là nei giardini, partì una musica spaccatimpani. Era molto semplice e ripetitiva, perché solo così i cadetti di tante specie diverse potevano seguirla. «Sìììì... scateniamo la nostra positività!» gongolò Okuz, cominciando a ballare in modo sgraziato. Quelli dietro di lui lo imitarono. La brutta danza si diffuse come un’onda in tutta la piazza, risalendo i vialetti retrostanti. In pochi secondi, migliaia di cadetti erano impegnati a fare ciò che, secondo loro, era più utile alla Flotta Stellare.

 

   In quel preciso momento, senza alcuna dichiarazione formale di guerra, le flotte Vorgon e Na’kuhl uscirono dalla transcurvatura all’interno del sistema solare. Avevano mascherato le tracce in avvicinamento, per cogliere la Federazione alla sprovvista. Con la perfetta coordinazione richiesta dal piano di Vosk, la flotta si divise in due armate principali.

   I Vorgon attaccarono Marte, in particolare i cantieri di Utopia Planitia, per distruggere le astronavi in costruzione o in riparazione, approfittando della loro vulnerabilità. L’annientamento dei cantieri spaziali era un colpo terribile per la Flotta Stellare, perché ne bloccava la macchina bellica. Sarebbero serviti mesi, forse anni per riavviare i cantieri, e nel frattempo la Flotta non avrebbe potuto sostituire le astronavi perse in battaglia.

   I Na’kuhl si concentrarono invece sul sistema Terra-Luna. Il loro obiettivo erano le grandi città, oltre ovviamente alle astronavi e alle stazioni in orbita. La priorità era distruggere le installazioni chiave della Federazione e della Flotta Stellare, uccidendone al contempo i leader. Ma lo sterminio della popolazione era altrettanto importante. Avrebbe gettato la Federazione nel panico; perché se un nemico poteva colpire la Terra, allora nessun luogo era sicuro. L’azione dei Na’kuhl dimostrava questo: la Federazione, nata per portare pace e sicurezza nella Galassia, aveva fallito.

   Oltre alle due flotte maggiori, altri distaccamenti Vorgon e Na’kuhl attaccarono i restanti obiettivi nel sistema solare. Tutte le colonie umane, tutti gli avamposti federali furono martellati, ovunque si trovassero: sui pianeti, sui satelliti, sugli asteroidi maggiori. L’attacco fu pressoché simultaneo ed ebbe un effetto catastrofico. Milioni di persone morirono nei primi istanti, senza nemmeno sapere chi le stesse attaccando.

   Coloro che sopravvissero alla tempesta di fuoco dei primi momenti videro esplodere dei missili nell’atmosfera. Non erano siluri mal funzionanti. Si trattava di armi chimiche e biologiche, che rilasciavano agenti contaminanti e terribili virus, capaci di diffondersi nell’aria e nell’acqua. Il peggio della tecnologia organica Vorgon e dell’antico sapere Na’kuhl si era combinato per un unico scopo: lo sterminio dell’umanità.

 

   Quando gli allarmi squillarono nei cieli di San Francisco, la popolazione restò interdetta. La maggior parte dei residenti non sapeva nemmeno cosa significasse quel frastuono. I cadetti che stavano ballando sulla piazza e nei giardini dell’Accademia, invece, lo sapevano. Dapprima rimasero sgomenti: molti smisero di ballare e si guardarono l’un l’altro, increduli. Possibile che ci fosse un bombardamento imminente?

   «Attenzione, allarme generale!» tuonò la voce del Direttore dell’Accademia, sostituendo la musica dagli altoparlanti. «La rete di sicurezza del sistema solare è stata violata. Navi ostili, non identificate, stanno attaccando le installazioni della Flotta e i maggiori centri urbani. Per ordine del Presidente, lo Scudo Terrestre è stato attivato». Mentre il Direttore parlava, i cadetti alzarono gli occhi. Videro il cielo farsi più scintillante, segno che il potente campo di forza planetario si era acceso, nell’estremo tentativo di proteggere la Terra.

   «Questo messaggio ha priorità 1» proseguì il Direttore, in tono grave e urgente. «Il personale della Flotta Stellare si rechi immediatamente alle postazioni di combattimento. L’ordine è esteso ai cadetti dell’ultimo anno. Tutti gli altri cadetti hanno l’ordine di recarsi immediatamente alle sale teletrasporto, alle navette e ai bunker, in base ai piani d’evacuazione. Mantenete la calma e non intralciate il personale operativo. E restate in attesa di ordini: tra poco potrebbe esservi chiesto di collaborare alla protezione dei civili. Questa non è un’esercitazione. Ripeto: questa NON è un’esercitazione!».

   Terminato il messaggio, rimasero solo le sirene automatiche. I cadetti continuarono a fissarsi, confusi. Molti di loro erano rimasti bloccati nella posizione di danza, come aspettando che le sirene tacessero per riprendere a ballare. Qualcuno cominciava già ad allontanarsi, in base al piano d’evacuazione. Ma quando Okuz li vide, si riprese immediatamente dalla paralisi.

   «Fermi! Dove andate?!» strillò. «Non crederete a questa buffonata? La Flotta Stellare vuole rovinare il nostro evento, perché teme che le nostre coscienze si risveglino! Ma noi siamo già svegli e non ci faremo abbindolare! Niente e nessuno deve rovinare la nostra manifestazione... ricordate che siamo in diretta!» aggiunse, accennando ai droni-olocamera che ronzavano come grossi insetti sulla testa dei cadetti. Per la verità, molti droni si erano allontanati in tutta fretta. Ma altri continuavano a inquadrare i giovani. E a Okuz bastava che ce ne fosse ancora uno puntato su di lui, per sentirsi obbligato a proseguire lo spettacolo.

   «Ne sei sicuro?» chiese un cadetto Kelpiano, spaventato. «A me sembra una faccenda seria... hanno anche attivato lo Scudo Planetario».

   «Non avrai creduto al discorso di Chase!» lo rampognò Okuz, riferendosi alla conferenza di qualche settimana prima. «Quel guerrafondaio farebbe qualunque cosa per convincerci che Tuteriani e Krenim sono nemici. Scommetto che c’è lui dietro questo falso allarme!».

   «Ma se non ci fosse alcun inganno? Se ci stessero davvero attaccando?» insisté il Kelpiano.

   «Allora è ancor più importante diffondere il nostro messaggio di pace!» disse Okuz, perentorio. «La Flotta ci dice che siamo in guerra perché abbiamo dei nemici... ma io vi dico che l’unico nemico è la nostra paura. Ho deciso di liberarmene... di sostituirla con l’amore. Fatelo anche voi e cambieremo la Galassia!» disse, con gli occhi lucidi di commozione.

   «Sì, bravo!» lo acclamarono i suoi sostenitori più fidati, strategicamente posizionati a intervalli regolari in mezzo alla folla. Avevano l’ordine di sostenerlo, qualunque cosa facesse, per influenzare gli indecisi; ed erano fermamente decisi a obbedire. Molti ripresero a ballare o a battere le mani.

   «Bene, così! Non cediamo alla paura!» insisté Okuz, sentendo di poter ancora dominare la folla. Prese ad agitare le mani come un direttore d’orchestra, cercando di far ripartire le danze. «Vogliamo costruire ponti, non muri! Guardate quello scudo sopra le nostre teste... è orribile, è una barriera mentale! Dobbiamo abbatterla! Ma prima dobbiamo accertarci di non essere portati via contro la nostra volontà».

   «Ci pensiamo noi!» disse una sua sostenitrice, correndogli a fianco. Mise un dispositivo a terra e ne estrasse una lunga antenna. Quando l’attivò, lo strumento prese a ronzare. Altri sostenitori di Okuz stavano facendo lo stesso in vari settori della piazza e dei giardini. «Stiamo attivando gli inibitori di teletrasporto, così non potranno portarci via» spiegò la cadetta.

   «Ben fatto!» si congratulò Okuz, abbracciandola. «Sono fiero di te. Sentito, ragazzi? Nessuno ci fermerà!» aggiunse, rivolto alla folla. «Su, rimettete la musica... non dobbiamo fermarci!».

   «A tutti i cadetti, rinnovo l’ordine d’evacuazione!» risuonò la voce del Direttore. «Questa non è un’esercitazione! Sono il Direttore dell’Accademia e vi ordino tassativamente di...». La sua voce, per quanto amplificata, fu sommersa dalle proteste dei cadetti. Gli inibitori ronzarono più forte, segno che stavano bloccando il teletrasporto. Alcuni ufficiali della Sicurezza raggiunsero le propaggini della folla e cercarono di trascinare via i dimostranti, ma si scontrarono con una resistenza formidabile. Quanto a Okuz, era inavvicinabile, circondato da un nugolo compatto di fedelissimi.

   «Resistete! Non facciamoci intimidire! Dobbiamo dare l’esempio!» gridò Okuz, il cuore che batteva a mille. Sentiva che quella era l’ora del trionfo. Ai suoi ordini, i cadetti distrussero tutti gli altoparlanti che riuscivano a raggiungere. Le sirene scesero di tono, come anche la voce del Direttore. Al loro posto, i cadetti posizionarono altri altoparlanti, che diffusero nuovamente la musica di prima. Una navetta dell’Accademia sorvolò la piazza, ripetendo messaggi d’allarme, ma i cadetti la bersagliarono con tutto ciò che avevano sottomano e risero quando se ne andò.

   «Vedete? Non hanno alcun potere su di noi!» gridò Okuz, indicando la navetta inzaccherata che batteva in ritirata. «Siamo invincibili, perché non crediamo nella paura, ma nell’amore! Proprio come diceva Helen Chase... una donna coraggiosa, che hanno infangato con accuse assurde! Ma un giorno sapremo la verità, un giorno avremo giustizia!».

   Era il momento clou della manifestazione. Gigantografie olografiche di Helen Chase comparvero dietro a Okuz, assieme al logo del Movimento per la Pace Galattica. La sua messa al bando, un anno prima, non ne aveva fermato la diffusione, nemmeno tra le mura dell’Accademia. Anzi, il fatto che fosse fuorilegge gli aveva dato un’aura romantica. Le teorie del complotto sugli eventi di Khitomer si erano diffuse e il Movimento era cresciuto clandestinamente, come una setta. Così, mentre il sistema solare era sotto attacco, l’Accademia scoprì che una buona metà dei suoi studenti – il futuro della Flotta Stellare – consideravano la Flotta stessa come il male.

   «Sì, sì! Viva la Pace Galattica! Giustizia per Helen Chase, la Martire di Khitomer!» gridò Okuz a squarciagola, dimenando il corpo obeso. I cadetti lo seguirono in una danza sempre più sfrenata. Pochi di loro ricordavano che c’era stato un allarme. E di questi, ancor meno si sfilarono dalla folla festante, per correre verso la salvezza.

 

   I cantieri spaziali di Utopia Planitia erano nel caos. Le Ruote da Guerra Vorgon si aggiravano tra i bacini di carenaggio e gli scafi incompiuti, sparando simultaneamente in tutte le direzioni. I loro cannoni al plasma non erano le armi più potenti in circolazione, ma erano efficaci contro le esili strutture dei bacini e le astronavi ancora prive di scudi. Le Ruote erano così al centro della baraonda e così circondate dalle esplosioni che molti frammenti le colpivano; ma i loro scudi resistevano. Una dopo l’altra, le nuove astronavi che dovevano ridare speranza alla Federazione esplosero senza aver mai lasciato i cantieri. Scafi progettati per resistere alle avversità della Galassia, e per durare secoli, erano squassati dalle esplosioni. Con loro se ne andavano progettisti e ingegneri, che si trovavano a bordo durante l’attacco e non erano riusciti a fuggire: tutto personale qualificato, difficile da rimpiazzare.

   Intanto i massicci Incrociatori prendevano di mira le piattaforme di difesa orbitale. Era una dura battaglia e ogni pochi minuti c’erano esplosioni da una parte e dall’altra. Ma i Vorgon si stavano giocando tutto in quell’attacco. Gli Incrociatori continuavano a combattere anche dopo aver perso gli scudi, e quand’erano ridotti a rottami fiammeggianti cercavano di schiantarsi sulle città marziane, per infliggere ancora più danni. I caccia sfrecciavano dappertutto, prendendo di mira le navette e le Work Bee, o anche singoli tecnici in tuta spaziale che si erano trovati esposti al momento dell’attacco. Tutta l’orbita di Marte era un marasma di esplosioni, detriti fuori controllo, navi impazzite e raggi mortali.

   Più in basso, i bombardieri colpivano le città marziane, compresi i quartieri sotterranei, che risalivano alla prima colonizzazione di Marte. Le volte di pietra non erano progettate per resistere ad attacchi del genere, e così crollavano, seppellendo gli abitanti. Le città maggiori erano protette da scudi a cupola, ma anche quelli cominciavano a cedere sotto i raid dei bombardieri e i colpi delle grandi navi dall’orbita.

   In quella rovina apocalittica, una sola astronave rimaneva stabile: la Majestic dell’Ammiraglio Nelscott. Era una delle poche navi di classe Celestial e si era già distinta in battaglia. Ora si aggirava come un guerriero oltraggiato, terribile nella sua collera. Più grande persino delle Ruote da Guerra, faceva fuoco a volontà. Dovunque passasse, si lasciava dietro una scia di scafi Vorgon sventrati e bolle di liquidi organici, che uscivano dagli squarci come sangue. Annientava intere squadriglie di caccia, sgominava gli Incrociatori e schiantava persino le Ruote da Guerra.

   Ma il nemico continuava l’assalto, ondata dopo ondata, e persino gli scudi della Majestic s’indebolivano. Sul ponte di comando, Nelscott e il suo equipaggio davano il meglio di sé, ma si rendevano conto che Marte e i cantieri sarebbero stati demoliti, prima che la flotta Vorgon si esaurisse. In plancia le spie rosse aumentavano e Majel, l’Intelligenza Artificiale, snocciolava previsioni tattiche poco incoraggianti. Nelscott dovette ordinarle di tacere, perché non demoralizzasse l’equipaggio. Sentendo la nave vibrare, l’Ammiraglio affondò le mani scure nei braccioli della poltrona, come se volesse tenere insieme la Majestic con le sue forze.

   «Avanti, vecchia mia, resisti» mormorò, mentre gli scricchiolii aumentavano e alcune consolle sprizzavano scintille. «Se solo l’Enterprise fosse qui a darci manforte...» aggiunse, corrucciato. Da quando l’Enterprise aveva inseguito la sua gemella nella Fenditura Bassen, nessun rapporto era pervenuto alla Terra. Forse era colpa delle anomalie, che interferivano nelle comunicazioni a lungo raggio. O forse era il segno che l’Enterprise dello Specchio aveva prevalso e nuove sciagure si addensavano sulla morente Federazione. «Forza Chase, lo so che sei là fuori da qualche parte... aiutaci a salvare i pianeti, finché c’è qualcosa da salvare...».

 

   Sopra il sottile e perlaceo Scudo Planetario della Terra infuriava un’altra battaglia all’ultimo sangue. Le Navi Vampiro, piccole e agili, sfrecciavano fra i più massicci scafi federali. La corazza di Materia Degenere le rendeva quasi invulnerabili: solo l’antimateria dei siluri riusciva a perforarla. Quanto alle armi phaser e polaroniche, anche il fuoco più concentrato le intaccava a malapena. Forti del loro vantaggio, le astronavi nere facevano scempio di vascelli e stazioni federali.

   Ogni Nave Vampiro era armata con un potente disgregatore anteriore, che sprigionava un raggio violaceo. Invece di colpire con una breve scarica, i Na’kuhl tenevano il raggio acceso per molti secondi e lo spostavano sul bersaglio, tracciando un lungo squarcio. Miravano ai punti deboli delle navi federali: il modulo della plancia, il disco del deflettore, i piloni delle gondole. Dopo queste rasoiate, le astronavi andavano alla deriva, con le gondole staccate e il disco tranciato dalla sezione motori. Allora gli alieni le distruggevano metodicamente.

   Questo compito spettava ai Caccia Ombra, piccole unità monoposto di forma conica, e soprattutto ai Droni Zecca. Cosa fossero questi, i federali non lo intuirono se non quando fu troppo tardi. Dapprima lo scafo della nave ammiraglia di Vosk sussultò, come percorso da plotoni di formiche. Forme più piccole se ne staccarono, plasmate in pochi secondi dalla Materia Degenere. Sciamarono via a migliaia, simili a uncini o a pugnali dalla lama ricurva. Si conficcarono negli scafi federali e assorbirono l’energia, caricandosi fino a raggiungere la soglia critica. Allora esplosero, distruggendo i bersagli e riempiendo lo spazio di schegge taglienti.

   Su tutto dominava l’ammiraglia di Vosk, unica grande astronave della flotta Na’kuhl. Armata di potenti disgregatori sub-nucleonici, era una fortezza invulnerabile. Diresse il disgregatore primario sull’Hangar Spaziale Terrestre, perforandone gli scudi, e tracciò una lunga ferita lungo tutta la sua lunghezza. Ne uscirono aria, rottami e cadaveri. Centinaia di Droni Zecca si conficcarono nella stazione e cominciarono a prosciugarne l’energia. Esplodendo aprivano grandi crateri, in cui i Na’kuhl concentravano i loro attacchi.

   L’enorme struttura fungiforme, costruita nel XXIII secolo, si scosse tutta. Era ancora una delle più grandi stazioni federali: larga 3.810 metri nell’ombrello e lunga 5.795 metri, aveva una massa di 58 milioni di tonnellate. I suoi 1.200 ponti ospitavano 15.000 ufficiali e 35.000 civili. Gli armamenti erano stati potenziati, ma lo scafo era ancora quello originale, in duranio e tritanio. I raggi disgregatori Na’kuhl vi affondavano come coltelli nel burro. Ci furono esplosioni interne che travolsero gli hangar, i laboratori, le sale controllo, propagandosi fino alle zone residenziali. Non ci si poteva neanche teletrasportare via, perché Terra e Luna erano protette da scudi planetari. Molti cercarono di fuggire con navette e capsule, ma i Na’kuhl abbattevano anche quelle.

   Troppo grande per esplodere in un colpo solo, l’Hangar Spaziale roteò fuori controllo, perdendo atmosfera da migliaia di squarci. E i Na’kuhl continuarono a bersagliarlo con tutto quello che avevano. Interi brandelli di scafo, grandi come astronavi, presero a distaccarsene. La distruzione totale era solo questione di tempo.

 

   Sulla plancia della sua nave, Vosk dirigeva la battaglia con lucida freddezza. Da quasi tutte le parti arrivavano rapporti favorevoli: le difese federali cedevano, la vittoria si avvicinava. Eppure il Leader Supremo non era soddisfatto. La sua intenzione era sorprendere gli Umani prima che attivassero gli scudi planetari, distruggendo i generatori per lasciare indifesi i mondi. Questa parte del piano era fallita. Per quanto presi alla sprovvista, gli Umani avevano fatto in tempo ad attivare le difese. Di conseguenza la battaglia sarebbe durata più a lungo: forse ore, durante le quali potevano andare storte molte cose. I federali potevano ricevere rinforzi, o riorganizzarsi e contrattaccare. Potevano evacuare milioni di civili dalle città... e lo sterminio dei civili era una parte essenziale del piano di Vosk. Più ne morivano, più la Federazione si sarebbe spaventata e indebolita.

   «La stazione federale è condannata» lo informò Ifrit, consultando la consolle tattica. «Ancora pochi minuti e sarà a brandelli».

   «Bene, continuate a colpirla» disse Vosk, passeggiando su e giù davanti al grande schermo olografico che mostrava la battaglia in corso. Invece di costruire la plancia in posizione esposta, come le altre specie si ostinavano scioccamente a fare, i Na’kuhl avevano incassato la loro in profondità dentro l’astronave. Era il luogo più protetto, l’ultimo che sarebbe saltato in aria in caso di gravi danni. «Distruggere l’Hangar Spaziale danneggerà le capacità comunicative e organizzative della Flotta» ragionò il Leader Supremo. «Inoltre ci sbarazzeremo di molti ufficiali. Ma il risultato più importante sarà simbolico: i federali l’hanno costruito nel loro periodo di ascesa e assistere alla sua distruzione ne logorerà il morale».

   «Siete sempre il più saggio» si complimentò Ifrit, avvicinandosi. «Questo è il giorno del vostro trionfo. Ci avete assicurato un grande futuro... nessun Leader Supremo ha mai fatto tanto».

   «E allora perché mi sento così inquieto?» obiettò Vosk, studiandola con gli occhi rossi. «Sarà per via dello Scudo Planetario. Gli Umani non dovevano riuscire ad alzarlo».

   «Hanno guadagnato poche ore di terrore, prima della disfatta; tutto qui» lo rassicurò Ifrit. «Anzi, la cosa potrebbe tornare a nostro vantaggio. Se gli diamo una speranza di salvezza e poi li annientiamo ugualmente, ne abbatteremo ancor più il morale. Veder fallire le proprie speranze è peggio che lottare senza speranza».

   «Questo è vero» ammise Vosk. «Ghrath, cosa dicono i Tuteriani delle nostre possibilità di successo?».

   «Ci stanno inviando i dati» rispose il sottoposto, osservando l’interfaccia olografica rosso sangue davanti a lui. «La Vate afferma che abbiamo il 42,4% di probabilità di una vittoria completa». Era lo scenario auspicato da Vosk: la completa sterilizzazione del sistema solare. «La vittoria parziale, invece, è al 54,5% ». In questo scenario, alcuni milioni di Umani sarebbero sopravvissuti, nelle zone rurali dei pianeti maggiori e nelle installazioni più piccole, sfuggite all’attacco. Ma tutte le grandi città sarebbero state rase al suolo.

   «Quindi c’è il 3,1% di probabilità che gli Umani se la cavino con danni moderati» commentò Vosk, infastidito. «Che dicono i Krenim?».

   «Secondo loro abbiamo la vittoria completa al 44,3% e la vittoria parziale al 52,9%, con un 2,8% di probabilità d’infliggere danni limitati» rispose Ghrath.

   «Se i nostri alleati fossero bravi come credono, i valori non sarebbero così diversi» borbottò Vosk.

   «Pochi punti di percentuale non cambiano la realtà dei fatti: stiamo vincendo» disse Ifrit, accorciando ancor più le distanze. «E tutto grazie a voi, Leader Supremo. Vorrei esprimere la mia riconoscenza personale per la vostra saggia guida» disse, facendosi audace.

   «Forse potrai farlo, mia cara» sussurrò Vosk, sfiorandole rapidamente la guancia e il collo. Ifrit era un ufficiale fedele: forse l’unica di cui Vosk si fidasse completamente. E secondo gli standard Na’kuhl, era una bella donna. Sebbene gran parte dei suoi pensieri fosse orientata alla guerra, Vosk non era insensibile al suo fascino. C’era tempo per ogni cosa... anche per scegliersi una compagna.

   «Sono completamente a vostra disposizione, Leader Supremo... per qualunque cosa» assicurò Ifrit, scoprendo i denti affilati in quello che i Na’kuhl consideravano un sorriso seducente. Tra i due corse uno sguardo d’intesa. Poi Ifrit si ritrasse e tornò alla sua consolle, per sorvegliare l’andamento della battaglia. Vosk le diede le spalle, incrociò le braccia dietro la schiena e tornò a fissare lo schermo olografico, con occhi imperscrutabili.

 

   Appesi alla parete, Ilia e Lantora osservavano con amarezza lo svolgersi della battaglia dalla finestra panoramica. Memore degli attacchi dei Borg e del Dominio, la Federazione aveva radunato centocinquanta navi per proteggere il sistema solare. Nessun altro sistema federale era così presidiato. E poi c’erano le piattaforme orbitali e gli armamenti dell’Hangar Spaziale. Ma era tutto inutile contro i Na’kuhl. Le astronavi, vecchie e nuove, erano fatte a pezzi dai raggi trancianti. Le piattaforme coperte di Droni Zecca esplodevano a causa della loro stessa energia. E l’Hangar Spaziale era sempre più sventrato dagli attacchi dell’ammiraglia di Vosk.

   La Trill e lo Xindi videro che le esplosioni si estendevano sullo scafo a fungo. Era questione di momenti... ed ecco, l’Hangar Spaziale fu annientato da un’abbagliante esplosione bianca. I nuclei energetici multipli avevano ceduto e 50.000 persone erano morte. L’esplosione travolse anche parecchi Caccia Ombra che ronzavano intorno alla stazione, ma era una magra consolazione.

   «Ricordo l’inaugurazione, trecento anni fa...» sussurrò Ilia, con le lacrime agli occhi. «Non pensavo che avrei visto la sua fine». Il Simbionte ferito continuava a dolerle nella sacca addominale e ogni respiro era una tortura.

   «Abbiamo fatto il possibile» disse Lantora, cieco da un occhio e coperto di ferite. «Nessuno potrà negarlo».

   «Sempre che qualcuno sopravviva per parlare di noi» corresse Ilia. «Io temo che questa sia la caduta della Federazione».

   «Mi sono sempre detto che era impossibile... che la Federazione era troppo grande per crollare» disse Lantora, con le labbra secche e screpolate. «Ma la verità è che la Galassia ha già visto civiltà come la nostra. Si credevano eterne, ma oggi sono polvere. Scommetto che negli ultimi momenti si sentivano come noi adesso».

   «Almeno sapevano che non sarebbero stati gli ultimi» disse Ilia. «Ma ora... con lo spazio trasformato dalle anomalie, sopravvivranno solo i Tuteriani. E i loro alleati, in qualche sacca di spazio normale. Finché anche loro non si distruggeranno con la Guerra Temporale».

   «Non so cosa sia peggio: che la Galassia resti in mano a quei mostri o che resti vuota» disse Lantora, digrignando i denti. «Se solo potessimo...!». Quasi impazzito dalla rabbia e dal dolore, si scosse con tutte le forze che gli restavano. Ma avrebbe dovuto essere fatto di neutronio per incrinare i ceppi di Materia Degenere. Alla fine si abbandonò, esausto. Con l’occhio che gli restava, notò che i Na’kuhl avevano cominciato a bombardare lo Scudo Planetario. Considerata la facilità con cui penetravano gli scudi delle astronavi, non dubitò che avrebbero fatto presto a perforarlo.

   «Beh, Comandante, che mi dici di te?» chiese lo Xindi. «Hai qualche rimpianto... a parte la fine di tutto?».

   «Sì, uno» confessò Ilia. «Rimpiango di non poter trasmettere il Simbionte Dax a un nuovo Ospite. Cinque secoli e dodici vite di ricordi moriranno con me... perché ho fallito. E tu, Tenente? Cos’è che ti brucia?».

   «Un po’ tutto» borbottò Lantora. «Ho fatto tante sciocchezze. Ho detto cose di cui mi sono pentito. E alcune che avrei dovuto dire, invece, mi sono rimaste in gola. In particolare... con T’Vala». Al pensiero che non l’avrebbe rivista, gli sembrò che il cuore gli si spezzasse in petto. Chinò il capo e pianse silenziosamente.

   «Avevo notato che ti piaceva» disse Ilia, comprensiva. « Dopo sei vite da donna e sei da uomo, certe cose le capisco. La nostra timoniera è in gamba... ma anche tu non sei da buttare. Perché non ti sei dichiarato?».

   «È mezza Vulcaniana e mezza Betazoide. Tutti quei poteri mentali, quella logica, quella padronanza di sé... mi sembrava irraggiungibile» confessò lo Xindi. «Pur essendo suo ufficiale superiore, mi sembrava troppo in alto».

   «Ascolta la parola di un Comandante: ci si sente soli, a stare in alto» disse Ilia. «Con questo non voglio dire che ti avrebbe corrisposto di sicuro. Negli affari di cuore non si può mai sapere. Però mi spiace che tu non sia riuscito almeno a dirglielo».

   «Già. Siamo una bella coppia di perdenti, io e te. Senza offesa, Comandante» biascicò Lantora, mezzo svenuto per la debolezza e lo sconforto.

   «Nessuna offesa, amico mio» assicurò Ilia, anche lei prossima a perdere i sensi. «Nessuna offesa».

 

   «Scudi al 10% in diminuzione» avvertì l’IA della Majestic. «Non possiamo resistere a lungo».

   Sottoposta all’intenso bombardamento di cinque Ruote da Guerra, che l’avevano circondata, l’astronave era sul punto di cedere. Eppure continuava a contrattaccare. Concentrò il fuoco su una Ruota e riuscì a distruggerla. Ne danneggiò un’altra, che sbandò e colpì un cantiere spaziale, tranciandolo in due con l’astronave incompiuta che conteneva. Le tre Ruote rimanenti continuarono ad attaccare selvaggiamente.

   «Scudi al 5%, integrità strutturale compromessa» avvertì Majel. A quel punto un Incrociatore Vorgon, con la poppa in fiamme, speronò la Majestic. Con la prua corazzata colpì la gondola di sinistra, spezzandola. L’Incrociatore proseguì la corsa, impattando contro la sezione motori della Majestic. Come le gondole, anche la spina posteriore era stretta e allungata. Non riuscì a reggere l’urto e si spezzò. Hangar, stive e laboratori furono tranciati. Fortunatamente la sala macchine era più avanti, vicina alla saldatura con il disco, così che il nucleo quantico fu risparmiato. L’Incrociatore emerse dall’esplosione e passò oltre, avvitandosi su se stesso. L’impatto aveva inflitto danni catastrofici. Con la sezione motori semidistrutta e tutti i sistemi in avaria, la Majestic era inerme.

   «Squarci multipli sullo scafo, perdita totale di energia!» avvertì Majel, mentre la sua proiezione sfarfallava. «Non abbiamo scudi né armi. I campi di forza d’emergenza non si attivano. Perdita d’assetto, i motori a impulso non rispondono... siamo alla deriva, Ammiraglio».

   Nelscott si rialzò. L’impatto era stato così violento da farlo ruzzolare davanti alla sedia del Primo Ufficiale. Anche il resto dell’equipaggio era stato scaraventato di lato e cominciava appena a riaversi. C’era fumo in plancia e gli allarmi suonavano ovunque.

   «Frell!» imprecò Nelscott, mentre un ematoma gli si allargava sulla guancia. Sullo schermo principale, ancora miracolosamente in funzione, vide le Ruote da Guerra che si avvicinavano, circondate da vascelli più piccoli. «È finita, abbandonare la...» cominciò, ma s’interruppe. Invece di attaccare, le astronavi Vorgon si allontanavano. Proprio ora che potevano dare il colpo di grazia alla Majestic, qualcos’altro le distraeva.

   «Ma che succede?» chiese l’Ammiraglio, lasciandosi cadere sulla poltrona di comando.

   «È in arrivo un’altra flotta» avvertì Majel.

   «Sono i nostri?» chiese Nelscott speranzoso, anche se non riusciva a immaginare quale flotta federale potesse raggiungere il sistema solare così in fretta.

   «No, Ammiraglio» disse Majel, alzando un sopracciglio. Sforzò al massimo i sensori danneggiati, cercando di vederci chiaro. «Oh, questa poi...».

 

   Lo Scudo Planetario della Luna cedette e le scheletriche navi Na’kuhl iniziarono il bombardamento dei centri abitati. Poco lontano continuavano a martellare le difese terrestri.

   «Lo Scudo della Terra è al 47%» informò Ifrit. «Concentrando l’attacco, potremmo penetrarlo con il disgregatore primario».

   «Procedete» ordinò Vosk. «Kraul, mira alla loro capitale: la città che chiamano San Francisco».

   «L’ho inquadrata» confermò il gerarca.

   Il Leader Supremo sollevò il braccio e quando lo fece ricadere Kraul aprì il fuoco. Un potentissimo raggio disgregante scaturì dall’ammiraglia e colpì lo Scudo Planetario sopra San Francisco, ionizzando l’atmosfera. Dalla loro prigione, Ilia e Lantora videro il raggio viola diretto alla costa ovest americana e capirono qual era il bersaglio. Quasi tutte le strutture chiave della Federazione e della Flotta erano concentrate a San Francisco. La loro distruzione era una stilettata al cuore.

   Nello stesso momento, molti ponti più sotto, anche Vosk osservava il raggio disgregante. Sapeva che ad ogni secondo lo Scudo Planetario s’indeboliva e presto avrebbe ceduto. Ifrit gli si accostò nuovamente, per non perdersi la scena.

   «Lo vedi?» chiese Vosk, indicando la superficie terrestre. «Laggiù è pieno di quelli che le spie federali definiscono innocenti. Molti sono bambini. Uccidendoli, noi ci qualifichiamo come mostri ai loro occhi».

   «Agiamo nel nostro interesse. La loro ideologia dovrebbe condizionarci?» chiese Ifrit.

   «No» rispose Vosk. «È innocente non colui che è incapace di uccidere... ma colui che uccide senza rimorsi».

   In quell’attimo il disgregatore sub-nucleonico trapassò lo Scudo. Non lo abbatté del tutto: lo Scudo era ancora operativo e continuava a bloccare gran parte dell’energia. Ma un 10% riusciva a passare, ed era sufficiente per gli scopi dei Na’kuhl. Il raggio viola si tuffò nel mare, facendolo ribollire, e scavò una voragine nel fondale. Con precisione chirurgica, l’ammiraglia Na’kuhl si mosse, puntando l’arma verso il primo obiettivo: il palazzo del Consiglio federale. Strada facendo, il raggio intercettò il Golden Gate e lo tranciò. I tronconi s’inclinarono e il manto stradale si piegò scricchiolando. I veicoli che volavano raso terra caddero nel mare ribollente. I cavi d’acciaio, tagliati di netto, schizzarono indietro colpendone altri.

   Rapidissimo, il raggio disgregatore raggiunse la costa e tagliò in due la città, vaporizzando palazzi e grattacieli. Raggiunse la sede del Consiglio, una vasta semisfera argentea, circondata da palazzi amministrativi minori. In quegli edifici si concentravano le massime autorità federali: legislatori, ministri, ambasciatori. Lì si erano prese le decisioni fondamentali che avevano plasmato la storia federale per quattrocento anni. Bastò un secondo per disintegrare tutto.

   Il raggio si diresse poi verso il Quartier Generale della Flotta Stellare. Lì, ancor più che nelle sale della politica, si erano prese decisioni cruciali per la sorte di pianeti e civiltà, sparpagliati per migliaia d’anni luce. Molte specie pre-curvatura non sapevano nemmeno che il loro destino era stato discusso in quelle stanze. Ma sotto l’attacco Na’kuhl, tutto fu dissolto in un lampo.

  E il raggio mortale si mosse ancora, tracciando una scia di distruzione, verso il suo terzo obiettivo. Mentre i Vorgon distruggevano le astronavi in costruzione, i Na’kuhl dovevano assicurarsi che la Flotta Stellare non potesse rimpiazzare gli equipaggi. Il che significava annientare l’Accademia.

 

   Okuz stava ancora dirigendo la danza e i cori forsennati dei compagni, quando ci fu un boato e la terra tremò. «Ma che è, il terremoto?!» balbettò. Poi vide un raggio viola piovere dal cielo. Quasi tutti gli altri cadetti, che erano voltati dall’altra parte per fronteggiare il palazzo dell’Accademia, non l’avevano ancora notata. Solo Okuz e quelli che lo attorniavano poterono vederla, al di sopra dei palazzi. Per qualche secondo la fissarono, mentre si spostava, senza capire cosa fosse. Poi udirono un fragore ancor più assordante e videro innalzarsi le esplosioni, seguite da colonne di fumo. A quel punto anche gli altri cadetti si voltarono e videro il raggio distruttore sempre più vicino.

   Allora scoppiò il panico. La folla, fino a un attimo prima compatta nel suo intento, si trasformò in una massa brulicante d’individui terrorizzati che cercavano di fuggire. Ma non potevano farlo, perché erano troppo pressati in uno spazio ristretto. Il risultato fu che i cadetti più massicci gettarono a terra i compagni più deboli e li schiacciarono. Alcuni morirono così, calpestati dai loro amici. L’addestramento della Flotta avrebbe dovuto prevenire tali comportamenti irrazionali; ma quei cadetti erano cresciuti sentendosi dire che le loro opinioni ed emozioni erano la realtà, e se qualcosa li contrariava, era colpa della società. Questo infantilismo impediva loro di dominarsi in condizioni di effettivo pericolo. Molti pigiarono sui comunicatori, chiedendo d’essere trasferiti nei rifugi, ma non avevano disattivato gli inibitori di teletrasporto. E ormai i congegni erano irraggiungibili: rovesciati a terra, nascosti dai corpi dei caduti.

  Sballottato da tutte le parti, Okuz cercò di rintracciare il giornalista, Liin. Di certo aveva una navetta nelle vicinanze. Ma non riuscì a trovarlo. Da quando era squillato il primo allarme, nessuno l’aveva più visto. Persino i droni-olocamera si erano dileguati. Gridando tutti gli insulti che conosceva, Okuz tentò di fuggire. Ma non aveva fatto molta strada quando si vide venire addosso il raggio. Gli splendidi giardini dell’Accademia svanirono, assieme ai cadetti che li affollavano.

   «Non è possibile... non è giusto!» pensò Okuz. Il suo ultimo pensiero fu che doveva essere un complotto della Flotta Stellare: sterminare i cadetti intelligenti e tenersi i pecoroni, rovesciando la colpa su qualche specie innocente. L’entità di questo crimine lo fece inorridire. Poi il raggio raggiunse la piazza, disintegrandolo con gli altri cadetti, e rase al suolo il palazzo dell’Accademia.

   Non era ancora finita. Per ordine di Vosk, i Na’kuhl diressero la loro arma verso altre strutture chiave della Flotta Stellare: il Centro Ricerche Comunicazioni, il Comando Medico. Quest’ultimo era di vitale importanza, perché lì i dottori cercavano contromisure contro gli effetti delle anomalie. Molti dei migliori medici della Flotta morirono quel giorno, assieme ai loro assistenti, agli infermieri, ai pazienti che avevano in cura.

   Dopo aver devastato San Francisco, il raggio Na’kuhl proseguì verso sud-est, seguendo la costa americana lungo la faglia di Sant’Andrea. Si lasciava dietro una voragine piena di magma ribollente, ancor più larga e profonda di quella inflitta secoli prima dalla sonda Xindi. Distrusse tutti i centri minori lungo la sua strada, finché raggiunse Los Angeles. Solo allora l’arma perse energia e si spense.

 

   «Non male come primo colpo a segno» commentò Vosk, osservando lo sfregio nero e fumante sulla costa americana. «Tra quanto potremo aprire nuovamente il fuoco?».

   «Cinque minuti per la ricarica» rispose Kraul.

   «Intanto lo Scudo Planetario è sceso al 39%» aggiunse Ghrath. «Il prossimo attacco farà ancora più danni».

   «Il prossimo attacco dovrà distruggere gli uffici presidenziali a Parigi» ordinò Vosk. «Da lì proseguirete fino a Londra. Poi ci occuperemo dell’India, della Cina, del Brasile. A quel punto lo Scudo Planetario cederà del tutto e la flotta eseguirà un bombardamento totale con missili ad antimateria. Ridurremo la crosta terrestre in lava».

   La nave ammiraglia percorse una frazione di orbita. Sorvolò il continente americano e l’Oceano Atlantico Settentrionale, su cui spiccava un’immensa isola bruna, chiazzata di verde.

   «Rapporto sensori» ordinò Vosk.

   «Si tratta di un’isola artificiale» rilevò Ifrit. «Probabilmente l’hanno realizzata per guadagnare spazio edificabile».

   «Umani! Hanno così tanta acqua sul loro pianeta che per loro è un problema!» commentò Vosk, con una punta d’invidia.

   «I lavori sembrano ultimati, ma è in gran parte disabitata» notò Ifrit. «Credo che gli Umani stiano ancora costruendo gli edifici e impiantando flora e fauna».

   «Purtroppo per loro, non potranno goderne» commentò Vosk. «Se è quasi disabitata, passiamo oltre. Colpite Parigi, secondo il piano».

   L’ammiraglia Na’kuhl proseguì l’orbita, scortata dai vascelli più piccoli, fino a sorvolare l’Europa. Vosk osservò il continente, fittamente urbanizzato. Era notte, lì, e le luci delle città disegnavano i profili delle coste. I centri maggiori erano macchie lucenti, circondati da fitte ragnatele di strade. Vosk riconobbe la chiazza dorata di Parigi e del suo circondario.

   «Pronti al fuoco» avvertì Kraul.

   Il Leader Supremo alzò il braccio, come prima. Stava per calarlo, dando il segnale d’attacco, quando davanti a lui si materializzò un disco nero, che occultò il reticolato urbano. Altre macchie scure, più piccole, gli comparvero attorno. Una vasta flotta era appena uscita dall’occultamento.

   «Che succede?!» fece Vosk, meravigliato. Non aspettava rinforzi e d’altro canto aveva pianificato l’attacco affinché non ci fossero flotte federali o Klingon capaci di accorrere in tempo. Aguzzò la vista, ma nemmeno i suoi occhi sensibilissimi riconoscevano i nuovi arrivati nell’oscurità del cono d’ombra terrestre. Stava per chiedere dettagli ai suoi ufficiali, quando la nave sussultò, colpita selvaggiamente.

 

   Fu così che, nell’ora più cupa della Federazione, la flotta principale della Repubblica Romulana giunse in soccorso del sistema solare. Duecento Falchi da Guerra d’ogni forma e misura si lanciarono in un attacco senza quartiere contro le navi del Fronte. Una sessantina di Falchi colpì i Vorgon attorno a Marte, mentre altri settanta attaccarono i Na’kuhl nell’orbita terrestre e lunare. I rimanenti si sparpagliarono nel resto del sistema, per proteggere le colonie sui pianeti nani e i satelliti. La flotta romulana era giunta occultata, ad alta curvatura, riuscendo a mascherare il proprio arrivo fino all’ultimo. I Vorgon, e persino i Na’kuhl, furono presi alla sprovvista. Nemmeno i loro alleati Krenim e Tuteriani avevano considerato la possibilità che i Romulani intervenissero in quel momento e così massicciamente. Di colpo il massacro dell’Umanità si trasformò in una battaglia che era possibile vincere.

   Ma non sarebbe stato facile. Passato il primo attimo di sgomento, Na’kuhl e Vorgon raddoppiarono la ferocia dell’assalto. I Falchi da Guerra subirono il fuoco serrato dei cannoni al plasma e dei disgregatori sub-nucleonici. Contro il plasma si dimostrarono assai resistenti; ma non contro i disgregatori. Molti Falchi da Guerra furono disabilitati, tranciando loro le ali o i moduli della plancia. I Droni Zecca li ricoprirono, assorbendo l’energia residua e infine esplodendo su di essi.

   Supportata da sei Falchi da Guerra di classe Donatra, il meglio della flotta repubblicana, l’Enterprise puntò dritta contro l’ammiraglia di Vosk. Le sette astronavi le rovesciarono contro una tale quantità di fuoco che, se al suo posto ci fosse stato un pianeta, l’avrebbero disintegrato. Ma l’incrociatore Na’kuhl resistette e, da solo, rispose all’attacco, uguagliando la loro potenza. Fu l’inizio di una lotta titanica, che negli anni a venire divenne leggendaria e fu narrata su molti pianeti. L’Enterprise e i Falchi da Guerra compivano rapidi passaggi sulla nave nera, scambiando tremende bordate. Quando i loro scudi stavano per cedere si ritiravano, rigenerandoli mentre altre navi prendevano il loro posto. E così via, in un braccio di ferro di cui non si vedeva la fine. I siluri cadevano sull’ammiraglia Na’kuhl come pioggia in un temporale estivo. I raggi polaronici e disgregatori la intrappolavano al centro di una ragnatela mortale. Eppure quella nave formidabile resisteva e anzi rispondeva colpo su colpo.

   «L’ammiraglia ci chiama, Capitano» disse Terry.

   «Sullo schermo» ordinò Chase. Era insolito rivolgersi al nemico durante la battaglia, ma l’equipaggio dell’Enterprise era così esperto che il Capitano confidava non si sarebbe lasciato distrarre.

   Alto e lugubre, Vosk comparve sullo schermo. Era circondato dal suo Stato Maggiore: Ifrit, Ghrath, Kraul. Gli occhi rossi del Leader Supremo incontrarono quelli grigi di Chase e lo fissarono come se potessero incenerirlo. Tra i due corse una sorta d’elettricità, una corrente d’odio palpabile.

   «Sono Vosk, Leader Supremo dei Na’kuhl» si presentò l’alieno. «Vi parlo in rappresentanza del Fronte di Liberazione Temporale, che si oppone al vostro dispotico controllo del viaggio nel tempo. Il vostro futile contrattacco non salverà la Terra, né cambierà le sorti del conflitto. Ci sono cose in movimento che nessun potere della Galassia può arrestare».

   «Sono il Capitano Chase, dell’astronave Enterprise... e non credo neanche a una parola» rispose l’Umano a muso duro. «Questa vile aggressione ai nostri pianeti è fallita. Ritiratevi e risparmieremo ciò che resta della vostra flotta».

   «Capitano Chase, le suggerisco di dare un’occhiata alla costa ovest americana e all’orbita di Marte» obiettò Vosk. «I vostri cantieri spaziali sono distrutti. Il Consiglio federale e le strutture della Flotta sono distrutte. Voi Umani siete sconfitti... come la Federazione degenerata che avete creato a vostra immagine».

   «Noi Umani siamo sempre risorti dalle ceneri» rispose Chase. «Lo faremo ancora e torneremo più forti di prima».

   «Ah ah!». Anche la risata di Vosk fu spaventosa. «Buon per voi, allora! Lo vede, Capitano? La guerra è la sola igiene del cosmo. Ci affila come armi, ripulendoci dalle incrostazioni del superfluo.

Ci rivela chi siamo... ci dà uno scopo... ci permette di raggiungere il nostro pieno potenziale. Perciò, se voi Umani sopravvivrete, dovrete esserci grati!». Con queste parole, il Leader Supremo chiuse la comunicazione.

   «Terry, analisi tattica su quella nave» ordinò subito Chase.

   «È armata con un disgregatore sub-nucleonico frontale e con altri disgregatori minori» disse l’IA. «Gli scudi sono più potenti dei nostri, ma stanno cedendo. Lo scafo...». Terry aggrottò la fronte, mentre l’Enterprise sussultava.

   «Allora?».

   «Capitano, il loro scafo è composto da Materia Degenere la cui densità rasenta quella del neutronio» rivelò Terry. «Consiglio di usare soprattutto i siluri e di comunicare ai Romulani di fare altrettanto».

   «Li sto informando» disse Grog, reggendosi alla consolle mentre la nave beccheggiava ancora.

   «I loro scudi cedono, Capitano» informò Nalanda.

   «Terry, continui ad analizzare il loro scafo in cerca di punti deboli. Se ne trova, trasmetta le coordinate alla postazione tattica» ordinò Chase.

   I siluri dell’Enterprise e dei Romulani martellarono l’ammiraglia Na’kuhl, scavando crateri sul suo scafo nero. Ma la corazza era così spessa che le falle erano poche. E quando se ne apriva una, la Materia Degenere entrava in uno stato di fluidità, riversandosi dalle zone circostanti dello scafo in quella colpita, fino a riempire lo squarcio. Così, in pochi secondi, lo scafo tornava integro e resistente come prima.

   Su tutta la superficie della nave, c’era solo una sala d’osservazione dotata di finestra panoramica non composta da Materia Degenere. Terry la rilevò e la segnalò come bersaglio all’Ufficiale Tattico, senza sospettare chi vi era imprigionato.

 

   «Non avrei mai immaginato che i Romulani ci aiutassero» disse Ilia, sentendo rinascere la speranza. Attraverso la grande finestra aveva una visuale drammatica della battaglia spaziale. I Falchi da Guerra sfrecciavano da tutte le parti, sparando a volontà.

   «Non solo i Romulani» corresse Lantora, riconoscendo una sagoma familiare. «C’è una classe Universe... scommetto che è l’Enterprise!».

   «Ma non stava inseguendo l’Enterprise dello Specchio? Forse è un’altra» obiettò Ilia.

   «No, sento che è l’Enterprise» insisté Lantora, sebbene non avesse prove. «Sapevo che Chase sarebbe tornato. Yu-huuuu! Cantagliele chiare, Capitano!» gridò, come se Chase potesse sentirlo.

   L’Enterprise compì un passaggio ravvicinato e scaricò una raffica di siluri vicino alla zona in cui si trovavano. La camera si scosse e scricchiolò paurosamente. Un’ampia crepa si allungò sulla parete di fronte, da destra a sinistra, estendendosi sulla finestra. L’aria ne fu risucchiata con violenza. Ilia e Lantora furono trascinati in avanti; solo i ceppi che gli serravano i polsi gl’impedirono di essere trascinati fuori.

   Si udì gracchiare un allarme, mentre i sistemi d’emergenza della nave rilevavano il danno. Subito la Materia Degenere fluì come melassa, saldando la spaccatura. In pochi secondi il danno allo scafo fu riparato. Ma la Materia Degenere non si allungò sulla finestra, che era fatta di qualche altra sostanza, trasparente e assai meno robusta. Lì la crepa rimase, continuando a risucchiare l’aria, che usciva come uno sbuffo nello spazio.

   Ai due federali sembrò di trovarsi in una tempesta, con l’aggravante che pressione e temperatura stavano precipitando. La porta della sala era sempre sigillata e il ricambio d’aria non bastava a compensare la perdita. Anzi, era probabile che il condotto dell’aria si fosse chiuso, per non dilapidare l’atmosfera. Il risultato era una rapida decompressione.

   «Beh, Comandante... sempre meglio dell’ospitalità Na’kuhl!» commentò Lantora, gridando per farsi sentire. «Ma avrei preferito che la nave esplodesse. Non ce ne saremmo nemmeno accorti!».

   «Almeno la Terra sopravvivrà!» gridò Ilia in risposta. «Comunque hai ragione. Speravo che la mia ultima morte fosse più pacifica... ma suppongo di dovermi accontentare!».

   Il respiro le mancò. Le orecchie le dolevano come se stessero per saltarle i timpani, il suo corpo si raggelava. L’ultima cosa che videro i suoi occhi sofferenti fu l’Enterprise che effettuava un passaggio ravvicinato.

 

   «Gli scudi Na’kuhl hanno ceduto, Capitano» informò Terry. «Il loro scafo rigenera i danni, ma non può farlo all’infinito».

   «Cerchi segni vitali a bordo e si prepari a teletrasportarli» ordinò Chase. «Dobbiamo prendere Vosk, vivo o morto... è lui la testa del serpente».

   «La Materia Degenere interferisce con i miei sensori» disse Terry. «Cerco di compensare. Capitano, credo di aver individuato la loro plancia. È sepolta all’interno dell’astronave e protetta da campi di forza supplementari. Non rilevo nulla al suo interno».

   «È lì che si rintana Vosk» disse Chase. «Se non riesce ad avere un aggancio sulla plancia, provi a scandagliare i ponti più esterni. Anche catturare dei soldati semplici ci rivelerà qualcosa sui Na’kuhl».

   «Ho centinaia di letture» confermò Terry. «I loro segni vitali sono insoliti... hanno il sangue a base d’iridio. Cerco di prenderli a bordo». L’IA sforzò al massimo i sensori, mentre l’Enterprise e le navi romulane continuavano a scambiare colpi terribili con l’ammiraglia Na’kuhl. Di colpo spalancò gli occhi. «Non è possibile... Capitano, rilevo un segno vitale Trill e uno Xindi!» avvertì.

   Chase si sentì raggelare. Non poté fare a meno di pensare a Ilia e Lantora, partiti per una missione ad alto rischio su Vorgon. La Sojourner, che li aveva portati lì e avrebbe dovuto recuperarli, non dava più notizie da molti giorni. E adesso i Vorgon stavano aiutando i Na’kuhl nell’assalto al sistema solare. Difficilmente era una coincidenza. «È certa delle letture?» domandò Chase, non sapendo se augurarsi o meno che fossero i suoi ufficiali.

   «Assolutamente, Capitano» confermò Terry. «Sono fianco a fianco, in una zona che si sta decomprimendo. Signore, i loro segni vitali precipitano» si allarmò. «Potremmo perderli da un momento all’altro».

   Se la notizia scosse Chase, per T’Vala fu come una pugnalata. Da quando Lantora era partito, si era immersa nel suo lato vulcaniano, per non soffrirne la mancanza e perché doveva rimanere concentrata sul lavoro. Ma sapere che lo Xindi era sulla nave nemica, e che stava morendo, l’atterrì. Sentì appena la voce del Capitano.

   «Li teletrasporti in infermeria e avverta il dottor Korris» ordinò Chase.

   «Dovrei abbassare gli scudi» ricordò Terry, mentre la nave vibrava per l’ennesimo colpo.

   «Cerchi uno schema negli attacchi Na’kuhl, per abbassarli il tempo strettamente necessario» ordinò il Capitano.

   «Elaboro» disse Terry. «Signore, i Na’kuhl concentrano il fuoco su un Falco da Guerra. È il momento... avviciniamoci per un migliore aggancio».

   «T’Vala, esegua» ordinò Chase.

   «S-sì» balbettò la timoniera. Con uno forzo sovrumano allontanò il batticuore e si concentrò sui comandi. Il nemico era lì davanti a lei, con Lantora e Ilia in ostaggio. La possibilità di salvarli dipendeva dalla sua capacità di pilotare la nave. Non c’era spazio per il minimo errore.

   Mentre l’ammiraglia Na’kuhl bersagliava il Falco romulano, l’Enterprise eseguì un sorvolo ravvicinato. T’Vala scelse una traiettoria che esponeva la nave a pochi disgregatori nemici. Terry disattivò gli scudi per meno di tre secondi, il tempo necessario a salvare Ilia e Lantora, trasferendoli direttamente in infermeria. I Na’kuhl se ne accorsero, ma reagirono con un istante di ritardo. Quando i disgregatori colpirono la nave federale, questa già si allontanava, rilasciando una raffica di siluri transfasici contro la sala panoramica vuota. Stavolta la finestra fu centrata in pieno. L’esplosione dilagò nei ponti interni dell’astronave, che scricchiolò lungo tutta la sua struttura. Nuovi squarci si aprirono, stavolta dall’interno, punteggiando di rosso lo scafo.

   «Li abbiamo, Capitano» sorrise Terry. «Rilevo esplosioni a catena sulla nave nemica. L’abbiamo colpita duramente».

 

   «Rapporto danni!» gridò Vosk, rialzandosi. La plancia era piena di fumo e le pareti stesse sembravano deformate da una forza immane. I suoi ufficiali, sbalzati a terra come lui, si rialzarono e si precipitarono alle consolle. L’elenco dei guasti era lungo.

   «Disgregatore primario fuori uso».

   «Integrità dello scafo compromessa, perdiamo atmosfera».

   «Energia al 30%, abbiamo ancora la propulsione».

   «I federali hanno colpito la sala d’osservazione» aggiunse Ifrit, china sulla consolle dei sensori. I suoi capelli bianchi erano bruciacchiati e in disordine. «Ma prima si sono ripresi le loro spie. Inoltre... oh, no!» gemette, spalancando gli occhi rossi.

   «Che succede?» chiese bruscamente Vosk, raggiungendola.

   «I Vorgon ci stanno abbandonando» rispose Ifrit, indicando il rapporto dei sensori. Decine di navi si allontanavano da Marte e dalle altre zone assegnate ai Vorgon. Le tracce di transcurvatura erano inequivocabilmente le loro.

   «Codardi!» sibilò Vosk. «Ma se credono di poter lasciare il Fronte alla prima difficoltà, si sbagliano».

   «Leader Supremo, vi prego... questa è una battaglia che non possiamo più vincere» disse Ifrit tristemente. «Come vostra Stratega, vi esorto a ordinare la ritirata. Vivremo per combattere un altro giorno».

   «E sia... la vittoria è solo rimandata» cedette Vosk. «Ma prima chiamate l’Enterprise».

 

   «I Vorgon si ritirano da tutti i fronti» disse Terry, sollevata. «Ma l’ammiraglia Na’kuhl ci chiama ancora».

   «Sullo schermo» ordinò Chase. Per la seconda volta fissò gli occhi rossi del Leader Supremo. «Ah, Vosk!» lo salutò sarcastico. «Un conto è proclamare la guerra. Un altro è farla sul serio, e perderla».

   «Le sorti di questa guerra sono ancora a mio vantaggio, Capitano» ribatté Vosk. «Lei è un degno avversario, lo ammetto; ma lotta per una causa persa. La Federazione è un esperimento sociale fallito. Stava già crollando prima che scendessi in campo e continuerà a disfarsi. Ma io e lei c’incontreremo ancora sul campo di battaglia. E per tutti voi sarà la fine!» minacciò, socchiudendo gli occhi scarlatti mentre passava in rassegna gli ufficiali dell’Enterprise.

   «Sarà la fine per una delle due parti» corresse Chase. «A quel giorno, allora». Al suo cenno, la comunicazione fu chiusa.

   L’ammiraglia Na’kuhl tornò a campeggiare sullo schermo. Si allontanò dall’orbita terrestre, mentre l’Enterprise e i Romulani continuavano a bersagliarla. Un Falco da Guerra, già pesantemente colpito nei concitati momenti del salvataggio di Ilia e Lantora, le tagliò la strada. Ma il titanico vascello nero tirò dritto, impattandovi contro. Lo scafo romulano si accartocciò contro la muraglia di Materia Degenere, finché il nucleo cedette. Un’esplosione verdastra illuminò lo spazio, facendo tremare le navi circostanti. L’ammiraglia di Vosk emerse dalla nuvola di vapori e detriti, senza aver riportato gravi danni, e balzò in transcurvatura. Le Navi Vampiro e i Caccia Ombra la seguirono. In tutto il sistema solare, i Na’kuhl si ritirarono dagli scontri. La Battaglia di Sol era terminata.

 

   «Potevano colpire noi, prima di ritirarsi» mormorò Grog. «Perché accanirsi contro i Romulani?».

   «Valutazione tattica» spiegò Terry. «Il Falco da Guerra era danneggiato. Avevano più probabilità di distruggerlo».

   «Quel Falco da Guerra era il Mir’val?» chiese T’Vala, girandosi verso Terry. Aveva l’espressione incrinata.

   «Sì, Tenente» confermò l’IA.

   «Era la nave del Capitano Velek» disse la timoniera con amarezza. «Senza di lui, forse non avremmo mai convinto il Pretore ad aiutarci».

   Dopo che avevano salvato il suo convoglio nella Fenditura Bassen, Velek era stato tra i più forti sostenitori dell’alleanza. Aveva pronunciato un discorso trascinante al Senato Romulano, prima di cedere la parola a Chase, fornendogli un aiuto impareggiabile. Sapere che era morto nella prima battaglia congiunta fu un duro colpo.

   «Anche se non abbiamo trascorso molto tempo con lui, una cosa è chiara: Velek metteva il dovere prima di tutto» disse Chase con gravità. Si alzò e andò al centro della plancia, rivolgendosi a tutti gli ufficiali. «Si è sdebitato con noi a costo della vita. Ora dobbiamo continuare a batterci, per tenere viva l’alleanza che ci ha aiutati a forgiare. Addio, Capitano... e grazie di tutto» concluse. Fece un saluto militare, osservando i resti del Falco da Guerra che ingombravano lo schermo principale.

 

   Ci vollero giorni per stilare il bilancio della battaglia. Era catastrofico. Un centinaio di navi federali e altrettanti Falchi da Guerra erano stati distrutti. La maggior parte delle piattaforme difensive era distrutta. Le colonie lunari e marziane avevano subito pesanti bombardamenti. I cantieri di Utopia Planitia erano devastati, privando la Flotta Stellare delle nuove astronavi, oltre che di personale tecnico specializzato. L’Hangar Spaziale Terrestre, da tre secoli simbolo della Flotta, era distrutto. E la costa ovest americana, da San Francisco a Los Angeles, era percorsa da un lungo sfregio ribollente che aveva cancellato intere città. Il fumo ne saliva ancora, oscurando l’atmosfera terrestre come non accadeva dall’estinzione dei dinosauri. Le principali infrastrutture federali erano distrutte: il Consiglio della Federazione, il Quartier Generale e l’Accademia di Flotta, il Centro Ricerche Comunicazioni e il Comando Medico.

   Fortunatamente lo Scudo Planetario aveva retto per il tempo necessario a evacuarle. Gran parte dei leader politici e militari della Federazione si erano salvati, con i loro entourage e il resto del personale federale. Ma i cadetti che manifestavano davanti all’Accademia, e si erano rifiutati di mettersi in salvo, avevano pagato un prezzo altissimo. I pochi che erano fuggiti al primo allarme si erano salvati; ma di quelli rimasti, il 99% era stato ucciso. E i pochi superstiti erano talmente sotto shock che probabilmente non sarebbero più usciti dagli ospedali psichiatrici. Anche nel Comando Medico c’erano state molte vittime, per la difficoltà di evacuare pazienti sottoposti a cure complesse e talvolta sperimentali. Alcuni medici erano rimasti con i loro pazienti fino all’ultimo.

   Quanto alle città, teletrasporti e navette avevano lavorato senza sosta per mettere in salvo i civili. Molti di loro, però, avevano una conoscenza insufficiente dei piani d’evacuazione e non si erano presentati nelle zone di raccolta. Nelle aree più densamente abitate c’era semplicemente troppa gente per salvarla tutta. E sugli altri pianeti l’evacuazione era ancor più complessa. La ricerca dei dispersi proseguì per settimane e il conteggio delle vittime continuò a salire, man mano che lo spazio o le macerie restituivano altri corpi. Alla fine, il bilancio complessivo delle vittime fu ancor più tragico di quello stimato nelle prime ore. I morti erano trecento milioni, in prevalenza Umani; ma vi era anche un cospicuo numero di alieni, che vivevano e lavoravano nel sistema solare. I feriti erano ancora più numerosi e gli sfollati si contavano a miliardi. Le distruzioni erano tali che non si riusciva nemmeno a quantificarle. Il Presidente Ektius dichiarò una settimana di lutto, per commemorare una delle peggiori catastrofi della storia federale.

 

   
 
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