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Autore: meiousetsuna    15/01/2019    6 recensioni
Seconda classificata nel bellissimo: Il contest del fluff, di wurags
John è al lavoro in una qualsiasi giornata del lungo inverno londinese, mentre uno Sherlock particolarmente riflessivo è intento a osservare il cielo stellato. Ma la compagnia di se stessi può portare ad ascoltare delle voci che per prudenza restano sepolte in cantine e segrete, finché una piccola scintilla le libera e le innesca.
Con Amore,
Setsy
[Ambientazione: Ipotetico seguito della 3ª stagione (senza Mary)]
Genere: Fluff, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Seconda classificata ne: Il contest del fluff, di wurags
Situazione: il personaggio A e il personaggio B litigano
Obbligo: uno dei due non risponde ai messaggi e alle chiamate che arrivano al cellulare da parte dell’altro
Oggetto: gelosia
Ambientazione: Ipotetico seguito della 3ª stagione (senza Mary)

grazie, molang, per il prezioso sostegno

Giù per i telescopi, dalla stella

‘Il cielo notturno non è sempre uguale’, avrebbe potuto pensare il ragazzo bruno che stava posando una mano fine sul vetro appannato della finestra del salotto. Qualche volta sembrava un soffitto a cupola, avvolgente come un abbraccio, sul quale un bambino avesse attaccato con insolita pazienza degli adesivi fosforescenti a forma di stelline, fiero della sua creazione.
A volte, quando la luna piena si avvicinava alla terra tanto da baciarla, era seducente come un velo blu che avvolge le forme di una dea affascinante e sprezzante con i suoi amanti.
Ma alcune sere, come quella che stava trascorrendo in solitudine contro la sua volontà, si trasformava in qualcosa di inquietante, troppo grande per essere compreso fino in fondo dalle sue conoscenze così nuove in quel campo; e non si trattava dell’astronomia.
Una massa oscura sospesa per miracolo su di lui, pronta a rovesciarsi e precipitargli addosso come un’onda anomala. Questa immagine si accostava maggiormente alla sua idea, ma era ancora troppo romantica e stereotipata, progettata per menti più semplici e banali. Niente di quanto detto e scritto in versi eterni o insopportabili frasi da cioccolatini si avvicinava alla sua percezione di solitudine scomposta e trattenuta insieme, un vortice di emozioni che avrebbe voluto non provare, ma che avevano la meglio su di lui senza operare nessuno sforzo.
Una vendetta di quel sopravvalutato sistema solare?
No, non era proprio il momento di scostarsi dalla certezza ― e il conforto ― della ragione per rovinare in un medioevo di superstiziose paure e ingannevoli entità sovrannaturali che avrebbero avuto il potere di influire sulla sua vita. ‘I sentimenti sono un difetto della parte perdente’: la frase che il suo acre fratello gli aveva ripetuto ogni volta che ne aveva colto l’occasione gli rimbombava nella testa in modo martellante, derisorio. Sherlock avrebbe voluto prendere un pennarello nero e cancellarla coprendola, o passando una spugna, lavarla via. Tutto questo per il motivo più inutile, stupido e vecchio del mondo. Era arrabbiato… no, spaventato perché proprio quella sera, quella nella quale aveva aperto le braccia strette a difendersi, nella quale aveva sentito che tacere ancora era ingiusto e autopunitivo senza avere fatto qualcosa di abbastanza sbagliato da meritarlo, lui si era deciso a voltargli le spalle.
Ancora, la ributtante idea di ‘destino’ tentò di affacciarsi nei suoi pensieri, per essere rigettata indietro in una cantina buia del palazzo mentale con le altre cose stupide da tener presenti per giudicare gente altrettanto stupida. Solo sfortunate coincidenze, aveva tirato troppo la corda.
Non poteva pretendere che John fosse dotato di infinita pazienza e comprensione, e di avere diritto a una riserva illimitata di scuse per tutti i suoi comportamenti sgradevoli; ma non era grave essere scorbutico, lunatico, presuntuoso e freddo, se lanciava solo e soltanto a lui anche altri segnali che John era abbastanza intelligente da poter interpretare correttamente.
Suonava il violino quando capiva che era abbattuto, e non sbagliava di certo nel dedurre che il suo compositore preferito fosse Mozart. Popolare, meraviglioso, capace di toccare l’animo più restio; Sherlock trovava che gli somigliasse molto. Gli lasciava metà dei suoi biscotti preferiti, dopo aver pronunciato parole dure si scusava, lo aiutava a liberarsi delle relazioni col mondo femminile nelle quali era lo stesso dottore a non credere, per quanto la vicinanza fisica e la familiarità con le ragazze fossero collaudate e naturali.
Forse queste cose apparivano a John come altrettanti fastidi? Possibile che lo trovasse irritante per il suo spezzare il silenzio con la musica, scriteriato per vivere di una dieta di tè e dolci, infantile per non correggersi mai invece di sbagliare e voler rimediare a parole, e morboso per intromettersi nella sua vita intima? Aveva passato il segno in modo irrimediabile o non riusciva a misurare la gravità dei fatti?
Sherlock osservò la sua mano sinistra percorsa da tremiti violenti che si trasmettevano al braccio, diramandosi verso il viso e il cuore. Aveva l’impressione che fossero visibili dall’esterno, come serpenti striscianti nelle sue vene, che le gonfiassero fino a farle sporgere dalla pelle, alterando i suoi lineamenti, muovendo le labbra a pronunciare parole non sue, facendogli dolere gli occhi, per poi scavare buchi nel muscolo cardiaco, perché era quello il nome di quella parte del corpo che tutti si ossessionavano a considerare il luogo dei sentimenti. Però faceva male, davvero molto, e quel cielo che stava per sgretolarsi per franargli addosso era la catastrofe di riserva se non fosse riuscito a farsi abbastanza danno da solo. Reggendosi allo schienale della poltrona di John come se potesse sostituire le sue spalle, Sherlock prese dei respiri profondi, incerto sul da farsi. Un’altra telefonata? Ormai la sua dignità era compromessa, o fermarsi alla cinquantasettesima* poteva definirsi ‘motivata preoccupazione per il mio miglior amico ― l’unico, ma non basta più ― che potrebbe aver avuto un incidente sulla strada del ritorno’? Perché solo per un motivo così John non gli avrebbe risposto. O per un attentato nella zona dello studio medico, ma il telegiornale non riportava nulla. Chiamare suo fratello, abbassarsi a dargli spiegazioni in proposito? Mai, cioè almeno finché non fossero passate le dieci. In cambio sarebbe stato canzonato da qui al giorno della loro morte, ma le telecamere e i servizi segreti non sbagliavano. Il bruno si decise a versarsi mezzo bicchiere di brandy, dono del succitato Mr. Inghilterra, mandandolo giù in tre sorsi senza gustarlo, gli alcolici non gli piacevano davvero.
“La cocaina invece sì, Sherly? Ora non sono con te, non devi neppure scrivere una lista…”
“Oh! Ma guardati, tutto disperato per la tua damigella in difficoltà, eppure la principessina sei tu, Sherlock, sei tu che hai il cuoricino bruciato, sto venendo a man-gia-rlo…”
Basta!
Con un gesto secco e nervoso Sherlock cacciò via le voci nella sua testa scansandole con una mano come le ipotesi errate durante le investigazioni; non avrebbe permesso a nessuno di spingerlo in una direzione che aveva giurato a John che non avrebbe percorso mai più.
Ma niente gli poteva impedire di ammettere che quelle non erano persone, ma il suo subconscio che lo tentava a rompere una promessa fatta proprio a colui che gli faceva sentire quella necessità.
Posando il bicchiere con un gesto nervoso, il giovane si avvicinò alla scrivania da lavoro fissando il microscopio. Non era stato l’unico strumento scientifico ricevuto per la laurea, come regalo dei suoi genitori: suo fratello aveva un altro pacco ben celato, tanto che ci aveva messo ben cinque ore a trovarlo. Al suo interno brillava un bellissimo telescopio Seben, color argento e nero, e malgrado il ragazzo avesse storto il suo aristocratico naso di fronte all’inutilità del dono ne era rimasto parzialmente affascinato. Questo non gli aveva impedito di prendere in giro Mycroft fino allo sfinimento per la sua scelta ‘insulsa e drammatica’, per non saper trovare un nascondiglio efficace; ma il maggiore gli aveva risposto con un sorriso da faina e uno sguardo traducibile solo come: ‘vedrai che ti servirà’.
Che male poteva fargli usarlo, per una volta? Guardare quello spettacolo che non aveva compreso ma che ammirava, in fondo? Avrebbe visto la verità, freddi ammassi di detriti cosmici, brucianti supernove che desideravano estinguersi, o avrebbe guardato con i suoi occhi da bambino un’entità benevola che conserva le persone che vorremmo che non morissero mai?
‘Redbeard è andato in cielo’. Che significava veramente? Avrebbe rischiato di trovare John, lassù? L’avrebbe salutato scomparendo, o sarebbe sceso giù attraverso il sottile cilindro luminoso dentro quel telescopio, brillando nei suoi occhi come le stelle?
Sherlock sorrise tra sé; stava impazzendo per pensare cose del genere, però ormai si era deciso a puntare lo strumento verso il firmamento; con le ante chiuse non funzionava così bene, ma se John fosse tornato stanco e raggelato? Tutto il delizioso tepore accumulato tenendo il camino acceso in quelle interminabili ore pomeridiane sarebbe andato perso e l’accoglienza sarebbe stata inadeguata, la stanza non avrebbe avvolto John, l’avrebbe lasciato divorare dal freddo, di quelli che sembra che non debbano passare più. Sherlock si allontanò dalla finestra per prendere in mano il cellulare collegato al caricabatterie; non poteva rischiare, per distrazione, di trovarlo spento proprio all’arrivo di un sms di risposta, una telefonata, un segno di vita qualsiasi.
‘Se mi chiamassi…’
Se la lista delle telefonate in uscita era lunghissima, quella dei messaggi era a dir poco deprimente.

John, chiamami SH
Anche se non hai tempo SH
John non mi piace aspettare SH
Ti è successo qualcosa? SH
John, chiamami adesso o dovrò mandare una macchina a prelevarti SH

Dopo aver riletto questo blocco di messaggi, Sherlock si era preoccupato di aver esagerato. L’idea di iniziare a trasformarsi nella versione più giovane di Mycroft lo aveva terrorizzato, ed era corso allo specchio nella sua camera a fissare con occhi spietati la propria immagine riflessa. Non era in sovrappeso ― probabilità veramente irreale ― non era più alto, i capelli non avevano assunto una sfumatura mogano. Soprattutto non possedeva uno sguardo malizioso e un sorriso sprezzante.
‘No, sei sicuro? Cos’è allora quella luce tagliente che ti spegne gli occhi invece di accenderli, perché sollevi un angolo delle labbra? Stai imparando cos’è la verità?’
Sherlock si diede un colpo secco sulle labbra con quattro dita per spazzare via il sogghigno che vi stava nascendo, come se potesse imprimersi nei suoi lineamenti e restare lì, scritto, leggibile a chiunque volesse scrutare sotto la sua maschera e vedere la parte sbagliata che lottava per affiorare modificando i suoi lineamenti cesellati in quelli del mostro che abitava nelle segrete della sua mente.
“Sei geloso, Sherlock? Vorresti John solo per te, come una cosa tua? E cosa gli faresti, humm? Lo assaggeresti tutto, vero?”
Questa non era una qualunque fantasia, come il pensiero di poco prima; lo specchio gli stava parlando con la voce strascicata di James Moriarty, la controparte feroce e decadente della sua coscienza. Come si fosse insinuato in quel vicolo scuro e senza uscita che faceva angolo tra il palazzo mentale e l’intimo spazio dedicato alle sue riflessioni il grande detective non l’aveva ancora capito, anche se i tre personaggi di quel dramma interiore ― se stesso, Myc, Moriarty ― erano sicuramente le tre persone più intelligenti che conosceva. Questo li poneva al livello di giocare insieme una partita a tennis che vedeva un argomento rimbalzare dall’uno all’altro; averli eletti come controparti lo faceva tremare fino in fondo al cuore, e non poteva nasconderlo agli altri, perché altri non erano. **
“Gli diresti che lo ami? Sei una persona noiosa e prevedibile, che delusione… ti piacerebbe essere normale, stare seduto davanti al focolare a raccontarvi la giornata, magari fare sesso tenendo i calzini? Che visione orribile, se non mi fossi sparato in bocca lo farei adesso! Sarebbe sempre meglio che dovervi sopportare, perché sarei lì con voi, forse sarebbero le mie mani a toccare le cicatrici del tuo capitano. Ti piace, vero, dolcezza? Con quella divisa militare, così autoritario… Se convincessi te a usare la sua pistola, pensa come rimarrebbe ritrovandosi pezzi del tuo cervello dappertutto, e taaaanto sangue… guarda, così”.
La figura dal sembiante di James estrasse un’arma dalla tasca interna dell’elegante giacca grigia, tirando fuori la lingua per poggiarci la canna, mimando un gesto osceno con divertita partecipazione.
“Cosa stai pensando, Ser Holmes? *** Briccone… le fai queste cose al caro John, o sei ancora un verginello, eh? A me puoi dirlo, prometto di non raccontarlo a tuo fratello. Ma lo sa già!”
La smorfia a bocca spalancata e gli occhi sbarrati in una parodia di sdegno furono seguiti dal gesto di premere il grilletto, ma Sherlock fu più veloce e girò le spalle allo specchio. Per una volta che avrebbe preferito la presenza di Mycroft, questo si era ripiegato nel suo nascondiglio, lasciandolo a fare i conti con certi pensieri torbidi.
Si allontanò velocemente tornando vicino al telescopio per recuperare il telefono. Di certo John aveva risposto o chiamato proprio mentre era in camera sua; un classico: così dicevano tutti. Ma c’erano solo i suoi, di messaggi, e in quell’istante decise che era meglio non contarli, per sua salvaguardia. Ma era impossibile resistere, forse rileggendoli avrebbe trovato tra le sue stesse parole qualcosa che aveva innervosito il dottore, una frase detta male, offensiva.

John, stai esagerando, la prima donna sono io SH
Quando torni passa a prendere il latte, mi è servito per studiare l’azione dello staffilococco aureus SH
Domani vuoto il frigorifero, promesso SH
Prendi anche dello spray disinfettante in farmacia. Forte SH
Il Darjeerling è quasi finito, John SH
John? SH
Ho chiamato lo studio, c’è la segreteria, dove sei? SH
Di solito non tardi più di 7 ― 8 minuti SH
John, lo vedo che il telefono è acceso, non essere puerile, dimmi cosa succede SH


Un’altra telefonata? La dignità non poteva scendere a numeri negativi, era illogico. Chissà da dove avrebbe risposto John, se fosse successo. Forse dalla strada nera sporcata di neve bianca ― a volte le cose assumono valori opposti ― forse da un taxi, la soluzione migliore; o forse gli avrebbe detto malamente che era con una ragazza, di smettere di rompere, che non ne poteva più di essere pedinato e braccato dagli Holmes, che al ritorno avrebbe preso le sue cose e arrivederci.
Questa opzione lo fece letteralmente crollare seduto sul divano. L’immagine di John che spogliava una donna con la fretta di chi non può resistere, che giocava con lei, che godeva del suo corpo, la spettinava e le sussurrava parole indecenti gli fece salire un sapore di bile in bocca.
John voleva quello che piace a ogni uomo su questo pianeta, forse anche nell’universo, se questo non è così pigro da non aver creato altre forme di vita. Essere messo al centro di tutto, apprezzato, sedotto.
Anche lui avrebbe potuto farlo, gettare via ogni cosa in cambio di una felicità così grande da riempire ogni vuoto, ogni forma certa e incerta, assumerne una nuova. Sembrò a Sherlock di sentirsi sfocare in un contorno nebuloso, pronto per essere rimodellato, per fondersi con John in modo da essere una sola identità inseparabile.

John, non è il modo migliore, ma non ho tempo SH
Torna e parliamo, non ignorarmi, non lo sopporto SH
Non mi hai mai lasciato solo, John SH
Sei con una ragazza? Sicuramente non vale niente, portala qui e te lo dimostro in un minuto SH
John sono le nove, hai cenato? SH
Cinese? Ordino io SH
Intendo che pago io, la tua carta di credito è vuota SH
Potrei averla usata ieri SH


Sherlock fissò inutilmente lo schermo nero del telefono spento, insensibile al suo dolore. Quello che gli stava facendo perdere la testa era non sapere e non poter capire. Doveva abbassarsi a chiamare Mycroft prima dell’ora prefissata in quel lungo soliloquio rumoroso, o doveva esporsi e scrivere cose che John non avrebbe potuto ignorare? Senza indugiare il bruno prese di nuovo il telefono digitando un sms dopo l’altro, senza fermarsi a pensare, quando la porta sbattuta in malo modo lo fece sobbalzare e coprire di un velo di sudore gelido. John aveva letto, era sulla porta di casa ed era salito a dirgli il fatto suo.
“Non c’è bisogno di alterarsi, John”.
Watson lo fissò perplesso, evitando di dire cose a sproposito prima di essersi liberato dal sottile ma persistente strato di neve che si era attaccato ai suoi capelli corti, alla giacca che non era abbastanza pesante o impermeabile; si fidava poco delle previsioni meteo della BBC. Rientrare dopo un turno di lavoro e due ore di straordinario alle quali non aveva potuto dire di no, non l’aveva predisposto a un umore mite, quella sera, anzi ormai notte vista la stanchezza che portava addosso.
“Sai Sherlock, la tua genialità è innegabile. Ma la tua capacità di comprendere la natura di noi umani è molto discutibile. Sai perché farò due ore in più al giorno per due settimane? Per il tempo che ho perso ad assisterti nei tuoi casi, Mister-so-tutto-io. E non che non avrei voluto aiutarti, bada, ma qualcuno di noi ha bisogno di dormire, mangiare, avere una vita privata! Ho preferito fare una passeggiata che prendere i mezzi, la carta di credito era vuota, l’ho scoperto oggi a pranzo, così niente taxi”.
“Sapevi che non c’era più denaro, John, potevi fartelo prestare da Sarah”.
“Sap… tu. Sei stato tu, vero? Cosa ti fa credere di poter pagare con la mia carta, anzi, di conoscere il PIN, di violare la mia password del computer, di prenderti tutto quello che è mio? Ascolta, domani faremo una bella chiacchierata, ora guardo cosa c’è in frigo, non ho voglia di litigare a stomaco vuoto!”
“Se volevi mangiare potevi farmelo sapere, John, non credo che il cibo che abbiamo nel frigorifero sia sicuro da ingerire, lo sai”.
Sherlock non aveva necessità di ascoltare la risposta del suo dottore, perché la sequenza di imprecazioni pesanti era assolutamente quella catalogata nella stanza riservata a John nel palazzo mentale, ma vederlo girare sui tacchi e avanzare verso di lui con passo marziale gli diede insieme un brivido di ansia e uno di eccitazione.
“Lo so, lo so da anni ormai, non c’è un angolo di questa casa che sia mio, o nostro in modo equo; lo spazio è tuo per tenerci i tuoi esperimenti, le tue porcherie radioattive per quello che ne so, o che potrebbero provocare un’epidemia in tutta Londra!”
“Ma qui c’è il miglior medico, la fermeresti tu”.
Il tono affettuoso non doveva essere molto convincente, perché John lo catalogò come una presa in giro, o al meglio l’effetto di un senso di colpa che anche se in misura insufficiente abitava il suo coinquilino. La mano sulla maniglia del frigo la posò per toglierla rassegnato, prima di essere investito da qualche odore che l’avrebbe perseguitato tutta la notte.
“Se avessi saputo avrei portato del cibo da asporto, ora il minimo che tu possa fare è ordinare dal giapponese e pagare…”
“Ovviamente, ma potevi deciderti prima! Il tuo atteggiamento è privo di logica, Watson”.
Se non voleva cedere a impulsi dei quali si sarebbe pentito, John poteva fare una cosa sola, cioè cercare uno sfogo innocuo. Il tavolino da tè finì rovesciato da un calcio, la giacca sbattuta a terra, l’enciclopedia medica che stava consultando quella mattina per un raffronto ― sempre più affidabile di un parere preso da internet ― crollò dal divano dove era accatastata in precario equilibrio, rivelando un piccolo oggetto nascosto dietro di essa.
“Almeno ho ritrovato il telefono!”
Un’onda di panico pervase Sherlock dalla testa ai piedi. Possibile che con la sua intelligenza…
‘Lo vedi che sei stupido, fratello mio? Credevi davvero che John non ti volesse rispondere?’
Per una volta nella vita si accorse di non avere nulla da replicare al suo Mycroft interiore, e la paralisi dei pensieri allungò la sua ombra fino a quella del corpo, finché non vide John, come al rallentatore, che toccava la pagina della suoneria sistemando il volume.
“E dire che l’ho silenziato per non darti fastidio, per una volta che dormivi. Non sarò più così gentile. Adesso fammi vedere chi mi ha cercato”.
No!” Con uno scatto felino Sherlock aveva agguantato il telefono di John, tirandoglielo via dalle mani, ma la risposta dell’ex capitano fu altrettanto rapida, e bloccato il polso destro dell’amico lo riprese subito.
“Cosa credi di fare? Cancellarmi i messaggi che non ti stano bene!?” John aveva gridato una frase a casaccio, ma dall’espressione sbigottita di Sherlock, dal nero delle pupille che inghiottiva l’acquamarina delle iridi, capì di aver colto nel segno. Con la sinistra protesa in avanti per intimargli di restare dov’era, prese a sfogliare prima le chiamate perse ― un’immensità ―, poi passò a scorrere i messaggi.
All’inizio non disse nulla, se non dei borbottii poco rassicuranti tra le labbra serrate, lanciando occhiate di fuoco a Sherlock, che non reagiva. L’investigatore non aveva più fiato, e muoversi probabilmente l’avrebbe fatto cadere, come quelle stelle che lo minacciavano dall’inizio della serata. Anche lui era sospeso a un filo invisibile, che come per magia lo reggeva in piedi malgrado la mancanza di forze proprie, e sarebbe piombato a terra con uno schianto che l’avrebbe mandato in mille pezzi. Una stella finta, di cristallo, che non avrebbe retto un urto così violento, che doveva essere protetta per conservarsi nella posizione nella quale brillava splendida.

John, per favore, sono spaventato SH
Se sei in compagnia giuro di non disturbarti, ma rispondi SH
Ho bisogno di sentirti, John SH
Sto guardando il cielo, John, ma mi sembra buio SH
Sto male, John SH
Vieni da me SH
O dimmi dove sei SH
Ho fatto qualcosa di sbagliato, vero? SH
Fammi rimediare SH
Sarà bello, John SH

Un silenzio surreale aveva riempito la stanza, un perfetto fondale per l’espressione stupefatta di John e quella sconfortata di Sherlock, che stava inghiottendo delle lacrime che non gli appartenevano; erano fuori da lui, per John, per quello che non aveva detto o fatto per timore, per celebrare il cielo che gli era sgocciolato negli occhi.
“Hai avuto paura che non tornassi da te?” Non c’era scherno o compiacimento in quelle parole, solo una speranza azzurra e sottile.
“Sì, John. C’era solo un enorme vuoto, e soltanto tu potevi salvarmi”. Possibile che fosse così facile? Che la stretta sulle sue mani fredde che sentiva distintamente, fossero quelle calde di John? Era sua la bocca che ridendo per mascherare l’imbarazzo si stava posando sulla propria? Quello che provava era ciò che si chiama felicità? Sì, lo era, ed era magnifica e terribile insieme, lo stava facendo a pezzi per ricostruirlo. L’universo non era mai stato così incredibile e così vicino da poterlo toccare, ― pensò Sherlock ― come in quel momento in cui stringendosi a John stava abbracciando il mondo intero.

Note:
*Numero dei messaggi di Irene a Sherlock: da non contestualizzare, è solo per citare qualcosa di “vero”
**Credo sia chiaro che sto usando l’espediente dell’Abominevole Sposa per far sì che chi parla, per ora, è in realtà sempre una parte di Sherlock
***Come da blog della Treccani, quando si usa “Sir” in un contesto medioevale fantasy è meglio scriverlo “Ser”. Qui richiamo “Ser Sbruffotto”, che ovviamente vorrebbe essere una specie di Cavaliere della Tavola Rotonda

Questa storia, che senza il contest non avrei mai concepito su questo fandom, riporta un tentativo per me unico, cioè quello di staccare molto la voce narrante dallo stile dei pensieri del personaggio. Non solo non è mia abitudine, ma ho sempre trovato giusto fare il contrario. Spero che non sembri una cosa “pasticciata”.
La poesia alla quale devo il titolo, il mio umore e piccolissimi estratti citati:
Se mi chiamassi, sì,
se mi chiamassi.
Io lascerei tutto,
tutto io getterei:
i prezzi, i cataloghi,
l’azzurro dell’oceano sulle carte,
i giorni e le loro notti,
i telegrammi vecchi
e un amore.
Tu, che non sei il mio amore,
se mi chiamassi!
E ancora attendo la tua voce:
giù per i telescopi,
dalla stella,

attraverso specchi e gallerie
ed anni bisestili
può venire. Non so da dove.
Dal prodigio, sempre.
Perché se tu mi chiami
– se mi chiamassi, sì, se mi chiamassi –
sarà da un miracolo,
ignoto, senza vederlo.
Mai dalle labbra che ti bacio, mai
dalla voce che dice: “Non te ne andare”.
(Pedro Salinas)

 

  
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