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Autore: _Frame_    16/01/2019    1 recensioni
«Forse è questo che voglio essere, o forse è questo che sono. Io non sono la tempera rimasta attaccata al foglio o alla tela, non sono la tempera che ha dato vita a qualcosa, che ora è immortale grazie al disegno che ha assemblato. Io sono la tempera scartata che non si è dimostrata abbastanza utile e che ora è destinata a mescolarsi all’acqua e a finire scaricata nel lavello. O nel cesso. È questo che sono. Sono la tempera nell’acqua. Sono la tempera che non ha avuto coraggio di rimanere attaccata al foglio. Magari un giorno sarò stufa di rimanere a stagnare nel bicchiere di plastica sporco e mi lascerò rovesciare nello scarico. E allora morirò.»
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Trigger warning: Autolesionismo
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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N.d.A.

Leggibile anche qui.

Con il seguente scritto non intendo promuovere/incoraggiare/istigare alcun atteggiamento autolesionistico o affine.

Piccolo componimento, un po’ più introspettivo rispetto ai miei soliti lavori, considerabile più come un esperimento stilistico che come un vero e proprio racconto.

Dedicato a tutti coloro che stanno combattendo, a quelli che ne sono usciti, e a quelli che non ce l’hanno fatta.

Buona lettura.

 


 

 

Come tempera nell'acqua

 

«La prima goccia è sempre la più bella, non trovi?» Il mio riflesso che abita dentro la superficie dello specchio si china davanti al lavello, sotto le luci bianche gettate dal neon del bagno. Incrocia le braccia sull’orlo di ceramica laccata, reclina la testa nell’incavo di un gomito, facendo fluire i capelli dietro la spalla, e punge l’acqua con l’indice teso. Rimesta un paio di volte l’acqua infranta dal getto del sifone aperto, gioca con le bollicine d’aria, schizza un paio di gocce, e disegna un piccolo turbine con il rivolo rosso appena sciolto sotto la superficie. Toglie il dito dall’acqua, sfrega il pollice sul polpastrello rimasto chiazzato di rosso, e guarda direttamente nello specchio. Mi rivolge un sorriso compiaciuto. «La chiazza che cade sul pelo dell’acqua, il rivolo rosso che ne discende la trasparenza,» agita le punte delle dita, ne mima il movimento, «l’arabesco che si districa e che assume la forma di un nastro snodato, di un fascio di tentacoli che si sciolgono in una tinta più tenue ed effimera. Davvero incantevole.»

Il mio riflesso raddrizza i gomiti sull’orlo del lavello e torna a sollevare le spalle. Rinfila l’indice nel pelo dell’acqua, dove continua a riversarsi il getto del sifone, e scompone la scia rossa appena formata. Il rivolo simile a un nastro si dissolve, si aggrappa all’acqua contenuta nel lavello, e ne riempie la superficie, toccando le pareti con il suo colore. «Ricorda molto le lezioni di educazione artistica delle elementari, no?»

Altre gocce rosse, più spesse e rapide, piovono nel lavello, e rendono l’acqua ancora più scura. Plic, plic, plic. Qualcuna cade sulla superficie di ceramica, densa come vernice. Riga la superficie bianca, seguendone l’incurvatura. Scivola verso il basso e si spande attraverso lo specchio d’acqua sporca.

«Ci fa tornare indietro a quei tempi» dice ancora la me nello specchio. «Quando la maestra permetteva di sgomberare i banchi da penne e quaderni, passava a distribuire le tavolozze di acquerelli, i tubetti di tempera, i pennelli sporchi e incrostati, e i bicchieri di plastica che a turno andavamo a riempire nei bagni in fondo al corridoio. Ricorda questo.» Posa l’indice sulla superficie asciutta del lavello, dove l’acqua non arriva, passa il polpastrello bagnato lungo la ceramica e raccoglie una delle righe di sangue appena caduto. Intinge l’indice sporco nell’acqua fumante e agita il dito, proprio come se stesse ripulendo un pennello. «La prima pennellata sporca e gocciolante che immergevamo nel bicchiere ricolmo. La polvere di tempera che assumeva la forma di quel grappolo di tentacoli che affondavano nell’acqua come un fascio di radici. La tempera rimaneva solida per qualche istante. Non si scioglieva fino a che tu non agitavi il pennello e facevi diventare rossa tutta l’acqua.» Il mio riflesso sospira, sbatte lentamente le palpebre, e quella scintilla di meraviglia nei suoi occhi scompare, lasciando solo una patina grigia e smorta che le annebbia lo sguardo. «E ora dimmi...» Torna a poggiare la guancia sull’intreccio delle braccia, lascia che una ciocca di capelli fluisca davanti al naso e sulle labbra, senza scostarla. Affonda l’intera mano nel lavello dello specchio, riemerge con uno spicchio d’acqua rossa raccolto fra le dita gocciolanti, e reclina il polso. L’acqua scroscia, torna nel lavandino, e il mio riflesso mi scocca un’occhiata più sottile, tagliente come un’ennesima ferita, come la lametta di un rasoio. «Cosa ne pensi di quest’acqua?»

Stringo la lametta di rasoio fra indice e pollice, e ne fermo il profilo – sottile come una scheggia di luce – sulla parte dell’avambraccio direttamente sotto l’incavo del gomito, affianco ai tagli già aperti che grondano un sangue denso e lucido come cera bollente. Lungo la curva del braccio è più facile tagliare, la lama affonda con più facilità e c’è più probabilità che il rasoio mi sfugga dalle dita, aprendo ferite più larghe. La parte centrale del braccio poi è troppo indolenzita. Colpa delle vecchie cicatrici che non sono ancora guarite.

Rigiro il braccio sinistro rigato da larghe linee di sangue, e seguo anch’io il gocciolare dei rivoli che cadono sulla superficie dell’acqua sempre più rossa. Imito il mio riflesso, sospiro attraverso quell’espressione grigia e annebbiata dal vapore che sale dal getto del sifone. «Penso che fra poco assumerà la consistenza dello sciroppo di ciliegia, quello che bevo sempre d’estate e che allungo con il ghiaccio perché altrimenti sembra medicina.» Riaccosto la lama al braccio, la poso in un punto pulito, sopra i tagli che ho già scavato. Inspiro. Ne premo la punta sulla pelle e strappo un taglio secco. Ripeto il gesto altre tre volte di seguito, disegno quattro lunghi tagli paralleli. Messi in quella posizione, sembra quasi che io abbia alzato il braccio di scatto per proteggermi dall’unghiata di una tigre.

La carne del braccio si schiude, prima bianca. Perle di sangue scuro come le bacche di una mora sbocciano in fila, come i grani di un rosario. Si gonfiano fino a traballare e scivolano lungo la curva del braccio già sporco del sangue colato dalle altre ferite, attraversano le cicatrici rosse e incrociate fra loro in quella manica di tagli che arriva fino al polso.

L’acqua rossa accumulata nel lavandino sale ancora di livello e gorgoglia, raggiunge il foro sotto il rubinetto e vi scivola dentro, un’ondata dopo l’altra.

Chiudo il rubinetto. Sopra vi rimane una densa impronta di sangue. Le goccioline rotolano sul manico di ferro, lungo il sifone, fino alla bocca, e anche quelle gocciolano nello specchio d’acqua. Pulirò dopo. Tanto il sangue sulle superfici lucide viene via facilmente, anche se si secca.

Agito la superficie d’acqua calda da cui affiora un leggero velo di vapore. Mi sporgo e immergo il braccio dalla mano fino al gomito. È come infilare un dito tagliato dentro una scodella di sale.

Stringo i denti, sussulto, e resisto alla prima ondata di bruciore elettrico, la più forte.

Le ferite slabbrate rimangono aperte e spurgano. Rigettano larghi nastri rossi che si agitano come tentacoli di medusa. Le cicatrici più fresche appaiono ancora più gonfie e rosse sott’acqua. Le croste nere si ammorbidiscono, riesco a grattarle via senza che mi facciano troppo male. Alcuni tratti di pelle morta si staccano dalle vecchie ferite e salgono a galleggiare attraverso l’acqua rossa, mescolandosi ai coaguli di sangue scuro che si sono solidificati mentre il braccio era ancora asciutto, fuori dal lavello.

Nonostante l’impatto del bruciore a cui ormai sono abituata, il solito brivido d’estasi accompagna l’ondata di dolore, mi scuote e stringe il cuore in una scossetta di gioia, come succede ogni volta in cui mi accorgo che le ferite sono diventate sempre più numerose, sempre più profonde, sempre più intersecate, tanto da non distinguerle fra loro, da non capire più dove comincia una e dove finisce l’altra. La tiepida sensazione di sollievo mi riempie e rilassa la tensione dei muscoli, scivola attraverso le labbra disegnando lo stesso piccolo sorriso compiaciuto stampato sulla faccia del mio riflesso. È il sollievo nato dalla consapevolezza di poter provare ancora dolore fisico, di poter sentire ancora qualcosa al di là della nebulosa massa nera che mi gonfia la testa e appanna la vista. Sto diventando sempre più brava.

Faccio riemergere il braccio, do una scrollata per farlo sgocciolare, e accosto nuovamente la lametta alla pelle. Non ci sono spazi liberi. Premo sulla parte centrale del braccio, dove le vecchie cicatrici ormai si sono asciugate. «Stanotte ha avuto altri incubi.» Taglio ancora. Conto cinque tagli di seguito, di cui solo uno particolarmente profondo. Le altre quattro ferite sanguinano per prime ma il flusso si arresta. Dal lacero più profondo spurgano le solite bolle di sangue che si sciolgono e che accompagnano una caduta più abbondante. Immergo di nuovo il braccio, strofino per raschiare via la viscida sensazione di sangue fresco, prima che si asciughi, e lo faccio riemergere. Carne viva pulsa fra le labbra bianche delle ferite.

Lo sguardo del mio riflesso si rianima. Lei alza il capo dal braccio che cola sangue e solleva le sopracciglia in un’espressione di stupore. «Sul serio?»

Annuisco. Do una sciacquata al rasoio che gocciola sangue e acqua. «Siamo tornati ai vecchi tempi, quando ne avevo talmente tanti che non riuscivo ad addormentarmi solo per il terrore di viverne uno.» Strappo altri tagli, rapidi, uno di seguito all’altro, senza nemmeno pensare a dove poso il rasoio. Il segreto mentre lo fai è questo: non pensarci. Così non invii impulsi premeditativi al cervello e gli impedisci di bloccare la mano. «Da quando però ho cominciato a...» Ma la mano si blocca lo stesso, le punte dei denti affondano nella carne del labbro inferiore e mozzano le mie parole. Non riesco ancora a pronunciare una frase del genere. “Da quando ho cominciato a tagliarmi.” Non mi sembra di meritare l’appellativo di cutter o di autolesionista. Io non sono un’autolesionista, dannazione. «Da quando ho cominciato a fare questo, però, gli incubi si sono un po’ mitigati.» Do un’altra scrollata alla lametta che gronda acqua sporca di sangue. Le braccia già tremano un po’, i muscoli si stanno appesantendo. Devo sbrigarmi a finire. «Probabilmente è perché vado a letto talmente esausta e indolenzita che mi addormento di colpo, in pace, senza più quella nuvola di pensieri neri e brontolanti che mi piove addosso, impedendomi di prendere sonno.» Mi stringo nelle spalle, facendomi più piccola sotto il neon del bagno, e rannicchio le ginocchia sullo sgabello imbottito che ho posto davanti al lavello. «Stanotte però ho sognato di nuovo e gli incubi sono tornati quelli di sempre. È una tortura.»

Un barlume di curiosità luccica negli occhi del mio riflesso. Anche lei sposta il peso delle gambe sullo sgabello che scricchiola. «Cos’hai sognato?»

«Io che urlo.» Tagliuzzo sfregi più sottili sotto quelli più grossi, scendo fino al polso, dove la pelle è più delicata ed è sempre più doloroso affondare la lama, e mi fermo. Le altre ferite continuano a lacrimare e a inondare il braccio di rosso. Affondo il braccio nell’acqua. Do una strofinata al sangue viscido e indurito, scollo i coaguli che si mettono a galleggiare come tanti insetti neri. Le ferite si riaprono e spargono altri rigetti di sangue rosso e fluido che si scioglie subito all’acqua. «Sogno io che mando a fanculo la gente. Io che prendo a calci il tavolo. Io che riesco a gridare fino a svuotarmi l’anima e a voltare le spalle a quelli con cui ho avuto la forza di litigare. Io che mi lascio indietro tutto quello che mi fa male.» Sorrido senza alzare gli occhi dall’acqua. «Però mi lascia addosso una bella sensazione. Mi sveglio riposata. Hai presente la sensazione che si ha dopo aver pianto? Quel dolce senso di calma e di vuoto, quando la superficie è liscia e pulita, e nulla può aggrapparsi a te facendoti del male. Magari potessi farlo anche da sveglia e non solo quando sogno.»

Agito l’acqua rossa che si sta abbassando di livello, lasciando sulle pareti laccate una sottile patina rossa e viscida.

Apro il rubinetto, lascio scorrere il getto per una manciata di secondi, e richiudo.

Nuvolette di schiuma densa e giallognola si gonfiano a grappoli sul pelo dell’acqua, come quella che si forma sulla superficie del brodo quando preparo la minestra con il dado. Che roba è?

Ne raccolgo uno sbuffo fra i polpastrelli. «E questa cos’è?» La sfrego fra le dita. Si squaglia come gelatina, come colla di pesce. «Sembra...»

«Pelle morta» dice il mio riflesso. La me nello specchio spreme le mani sull’orlo del lavandino, si mette in ginocchio sullo sgabello, e si sporge per guardare verso la mia parte. Dal suo braccio sinistro continuano a grondare rigurgiti di sangue che si raccoglie fra le nocche, lungo gli spazi delle dita, e rotola nel riflesso del lavandino. «Viene via dai vecchi tagli, quelli che si stanno rimarginando.» Incrociamo gli occhi. Quegli occhi distrutti che riconosco, resi più allucinati dall’abbaglio del neon. «Dovresti dare un po’ di riposo alla pelle, altrimenti rischia di ricevere troppi traumi. Invece che insistere sulla parte interna dell’avambraccio dovresti provare anche con altri punti. Sul dorso, per esempio, oppure anche sotto la spalla.» Sorride. Un sorriso dolce e comprensivo. Ma è normale, d’altronde lei è l’unica che capisce sul serio quello che sto passando e quello di cui ho bisogno. «Fa meno male quando tagli sulla pelle pulita, vero? Rispetto che tagliare sulle cicatrici vecchie.»

«E dopo come faccio a fasciarmi sotto la spalla?» Getto un’occhiata ai rotoli di garza che ho già preparato sul ripiano affianco al water, assieme alle forbicine, alla crema idratante, e ai nastri di cerotto per fissare la medicazione. «Non so se le bende sono abbastanza lunghe da arrivarci.»

«Mettiti delle bende incerottate.»

«Fanno un male cane quando me le tolgo.» Do un’altra strofinata d’unghie contro le ferite fresche. Fuori dall’acqua bruciano. «E poi le bende incerottate rischiano di rimanere incastrate fra le labbra delle ferite.» Come a sottolineare la veridicità delle mie parole, il tocco si ferma su una sensazione più ruvida proveniente da una vecchia ferita già incrostata. Ciuffi di garza e cotone rimasti incollati dalle precedenti fasciature si sono solidificati dentro la pelle morta, diventando un tutt’uno con il sangue nero e duro.

Raccolgo il pezzetto di garza bagnata e incrostata di sangue, tiro lentamente e la scollo dalla vecchia ferita. L’acqua ammorbidisce il tessuto, rende tutto più facile. Provo solo qualche pizzico di dolore, come se avessi infilato la punta di un ago nella cicatrice.

Getto via il pezzetto di garza vecchia. Affondo le unghie e scrosto strati di pelle morta che vengono su come pellicole di colla. Sembra Vinavil. Anche questa la usavamo sempre a educazione artistica, ma la maestra ci sorvegliava attentamente quando la applicavamo sui lavoretti, sui pezzi di stoffa o sulle stelline di pasta da incollare ai disegni. Io e i miei compagni ci divertivamo a raccogliere le mani a coppa e a spremerci sopra copiose quantità di Vinavil, densa e spumeggiante come un ciuffo di meringa cruda. La spalmavamo fra le dita, la lasciavamo asciugare, e poi ci divertivamo a spellarci come dopo una scottatura presa al mare. Anche adesso ho questa impressione. L’impressione di scollare una pellicola di Vinavil dalle braccia.

Scrollo le punte delle dita nell’acqua diventata davvero scarlatta come sciroppo di ciliegia. Mi disfo della pelle morta rimasta incastrata sotto le unghie e la lascio scivolare verso il foro sotto il rubinetto che succhia la risacca d’acqua in eccesso.

Sotto la pelle morta che ho appena tolto dal braccio affiorano i lividi, chiazze verdognole e irregolari, soprattutto vicino ai tagli più neri e profondi, quelli dove il sangue vecchio si è raggrumato fra le labbra di pelle. I lividi sono più scuri all’altezza dei polsi. I polsi sono la zona più sensibile del braccio, e lì le ferite hanno l’aspetto più di botte che di tagli.

Massaggio a fondo, dono un po’ di sollievo al braccio martoriato.

La visione delle nubi di lividi verdastri mi ricorda i primi tempi, quando non sapevo ancora come tagliarmi – e non ne avevo ancora il coraggio – e mi picchiavo con la lama di un coltello. Non tagliavo, picchiavo e basta. Andavo in cucina, aprivo il cassetto delle posate, prendevo il coltello da bistecca con la lama liscia, e mi prendevo a legnate le braccia. Colpivo sull’osso, sui polsi, affondavo la lama che non tagliava e la spremevo avanti e indietro nel muscolo, come quando si sminuzza l’aglio. Il giorno dopo mi ritrovavo con le braccia viola di botte. Lividi che poi non avevano nemmeno il tempo di guarire perché ne facevo subito altri sopra. La parte più bella era spogliarsi – come lo è anche adesso –, rigirare le braccia nude e chiazzate, e pensare che ne era valsa la pena. Che era bello avere addosso l’impronta di un dolore che altrimenti sentivo solo dentro.

A volte, quando non mi sembravano abbastanza nemmeno i lividi lasciati dal coltello, quando le chiazze viola non affioravano rapidamente come avrei voluto, mi prendevo anche a unghiate, o a morsicate. Stavo minuti interi a rosicchiare l’avambraccio come un cane rabbioso. Quelli erano gli unici momenti in cui mi fermavo a chiedermi: “Ma che cazzo sto facendo? Cosa diavolo sono diventata? Sono già completamente impazzita?” Ma mi piaceva. E mi piace anche ora. È per questo che non ho intenzione di smettere. Mi piace l’idea di avere addosso i segni di un martirio. Mi piace immaginare di essere stata presa a pugni dal mio stesso riflesso uscito dalla superficie dello specchio solo per suonarmele, per riempirmi di sberle, calci, e per sputarmi addosso mentre mi calpesta ridendo di me. Mi piace l’idea di avere una prova concreta su cui riversare le lacrime della mia sofferenza, mi piace l’idea di andarmene in giro con quel dolore segreto e costante che mi morsica le braccia ogni volta che le muovo, mi piace l’idea di avere qualcosa da nascondere, e mi piace l’idea di soffrire in silenzio, come ho sempre fatto. Mi piace l’idea di poter finalmente sfogare un dolore che non ha mai imparato a gettar fuori, perché mi è sempre stato impedito di urlare e di vomitarlo. Per questo grido e mi arrabbio solo quando sogno, quando nessuno può sentirmi.

Passo al braccio destro e lascio in ammollo il sinistro. Il poveretto continua comunque a sanguinare, e ha già sofferto abbastanza per oggi.

Anche sul braccio destro comincio a tagliare lungo la rotondità bianca e immacolata, lontana dalle cicatrici rosse e viola che tappezzano la parte centrale. Taglio più volte di fila, ma la lama scivola meno velocemente, crea più attrito nella carne. Stacco il rasoio, lo poso più in basso, sopra un rivolo di sangue sgorgato dalle ferite più alte, e do un altro strattone. Un suono simile a quello della carta strappata – fffst! – accompagna il movimento. Le labbra di pelle si aprono, la carne si separa, c’è il bianco e il rosso delle perle di sangue che affiorano, ma non si vede il lucido della carne viva.

Schiocco la lingua in un impeto di frustrazione. Rigiro la lametta sbavata di sangue lungo il filo. «Si sta consumando la lama.» Getto il rasoio sporco sul pezzetto di carta igienica su cui sono deposte anche le altre due lame, quelle che ho smontato dal rasoio da barba della Bic. «Maledetti rasoi usa e getta da quattro soldi.» Rigiro una lametta pulita e lucida, che non ho ancora utilizzato, e la pesco dal gruppo. La accosto alla pelle, inclino, e affondo uno strappo insistendo con la punta spigolosa all’estremità. La carne si divide come una bocca che urla. Rimane bianca. Bacche di sangue traballano, maturano, e gocciolano seguendo il profilo del braccio, picchiettano la superficie dell’acqua sporca e rigano la parete di ceramica del lavello.

La me nello specchio si stringe nelle spalle e mima un’espressione indifferente. «Potresti anche andare a comprare delle lamette sfuse. Così non avresti la noia di dover ogni volta prendere un rasoio, spaccarlo, e smontare le lamette con la pinza per le ciglia. Così non rischieresti di segarti le dita, per lo meno.»

«Non mi piace l’idea di andare a comprare le lamette sfuse» confesso. Aggiungo due nuovi tagli affianco a quello appena aperto. La lametta nuova taglia benissimo, non sento nemmeno un pizzico di dolore. «E in casa abbiamo solo i rasoi usa e getta, mi accontento di quelli.»

«Che differenza fa?»

«Perché se uso le lame che ci sono già in casa invece che andare a procurarmele da sola, ho ancora l’impressione che la mia condizione non sia così grave, che sia per lo meno recuperabile.» Affondo il braccio nell’acqua prima che il sangue si asciughi e che le ferite si chiudano. Strofino la pellicola già solidificata sulla pelle. «Ho ancora l’impressione che sto facendo tutto questo non perché ne ho realmente bisogno ma solo perché gli strumenti mi sono passati fra le dita per caso. Sai, qualcosa del tipo: “Sì, è vero, mi faccio del male ogni giorno. Ma se non avessi i rasoi già pronti in casa allora non mi sognerei mai di fare una cosa del genere, nossignore. Quindi non sono una vera autolesionista, ho tutto sotto controllo, posso smettere quando voglio”.» Smetto quando voglio. Quelle parole rimbombano nella testa come l’eco di una martellata, fitte e più dolorose di tutti i tagli sulle mie braccia. Smetto quando voglio. Proprio le parole di un tossico del cazzo.

Il braccio riemerge grondando acqua rossa.

Taglio altre cinque volte di seguito. Poi però continuo e perdo il conto, mi fermo solo quando arrivo sotto la spalla. Brividi di freddo soffiano sulle braccia bagnate. Sollevano uno strato di pelle d’oca che sulle ferite aperte brucia come un pugno d’aghi.

La mano che impugna la lametta trema e il braccio si appesantisce, si abbassa, ha un cedimento.

Mi fermo. Prendo fiato, respiro a fondo, scaccio un anello di vertigini vorticato attorno alla fronte, e mi godo la visione del sangue che lacrima lungo il braccio, ampio e rosso come la manica di velluto di un abito da sera. «Vedi» spiego alla me dentro lo specchio, ripensando a quello che ci siamo dette prima. «Mi piace l’idea di non considerarmi un’autolesionista consapevole.»

Lei inarca un sopracciglio, flette il capo di lato e mi squadra, scettica. «E allora cosa saresti?»

«Non lo so. Ma ha senso, se ci pensi. Dopotutto, la maggior parte dei miei problemi deriva da questo. Non so chi sono, non so dove vado, non so che forma io abbia.» Rigiro il braccio rosso e martoriato. «Il dolore almeno mi dà una forma concreta. Mi dona un’identità.»

Il riflesso corruga la fronte e mi rivolge un’espressione più dura, da rimprovero. «Ti stai facendo del male, però, questo è innegabile. È da mesi che ti spolpi le braccia. Secondo te questo non basta a definirti autolesionista?»

«Credo l’autolesionismo sia una questione più mentale che fisica.»

«E in che stato mentale ti trovi, adesso?» Il mio riflesso torna ad appoggiarsi con i gomiti sull’orlo del lavello – le braccia sanguinanti ne sporcano la superficie – e indica la lama fra le mie dita con un cenno del mento. «Quello è l’ultimo rasoio in casa, li hai usati tutti tu, e domani te ne serviranno altri. È chiaro che dovrai andarli a comprare. Che dovrai entrare in un supermercato e fare la fila alla cassa per compare qualcosa che sai userai per farti del male.» Sporge le spalle in avanti, venendomi incontro, e ghigna. Si avvicina con quel sorrisetto aguzzo infossato fra le ombre del viso. «Fa senso, vero?» ridacchia. «La cassiera passerà il codice a barre dei rasoi nel registratore di cassa mentre penserà che serviranno per i peli o la barba. E invece affonderanno nelle tue braccia. Chissà se te li venderebbe lo stesso se sapesse a cosa ti servono?»

Faccio roteare lo sguardo. «La mia situazione non è ancora così grave. Non ho il diritto di definirmi un’autolesionista. Io non sono un’autolesionista.» Anche se mi taglio ogni giorno e anche se questa storia va avanti da mesi. Ma c’è gente che sta peggio, c’è gente che sta vivendo questa situazione da anni, c’è gente che si fa ben più male di me. Che diritto ho io di definirmi una vittima? Che diritto ho di poter chiedere aiuto? Che diritto ho di pretendere qualcuno che mi aiuti a uscirne? Non merito né l’aiuto né la compassione di nessuno, e tutto quello che sto facendo al mio corpo me lo merito, quindi non ha senso cercare di uscirne.

La me nello specchio torna indietro con le spalle e si risiede sullo sgabello imbottito. «È come quando hai iniziato a farti le fasciature, ricordi? Prima ti bastava la carta igienica.» Si rimette a giochicchiare con l’acqua, a intingere le dita sporche di sangue, a rimestare la spirale rossa che si scioglie e che tinge di rosso la schiuma di pelle morta galleggiante. «Erano poche ferite. Erano profonde, ma all’inizio ti bastavano sì e no cinque tagli per braccio per sentirti in pace e contenta. Non ti serviva nemmeno rintanarti in bagno perché gocciolavi pochissimo. Potevi tranquillamente rimanere in camera e non sporcavi. Ti bastava arrotolarti la carta igienica attorno all’avambraccio e dormivi tranquilla, senza il pensiero di infradiciare il letto di sangue.» Sospira. Un’espressione avvilita ingrigisce il suo volto sempre più sfatto e sciupato, incavato dalle occhiaie che pesano sotto le palpebre. «Poi però hai iniziato a ricoprirti le braccia di ferite, ti muovevi per il bagno seminando gocce di sangue dovunque spostassi le mani, e hai dovuto bendarti ogni giorno per non imbrattare anche i vestiti e le lenzuola. E hai cominciato a rinunciare alle maglie aderenti perché facevano attrito sul bendaggio, rischiando di spostarlo e di riaprire le ferite.»

Annuisco. «E ho cominciato a imparare i trucchetti per far sì che le fasciature non rimangano incollate alle ferite.»

«Già. Prima avvolgevi solo le fasce, ma restavano appiccicate alle slabbrature fresche e dovevi sempre ammorbidirle con l’acqua per poterle staccare.» Il mio riflesso sposta lo sguardo sul ripiano accanto al cesso, come ho fatto io prima, e scruta i rotoli di fasce pulite, il barattolo con i batuffoli di cotone, la bottiglietta del disinfettante che ho spruzzato sul lavello prima di riempirlo d’acqua, il rocchetto di cerotto, e i pacchetti di garza compressa. «Poi hai cominciato con il cotone, ma anche quello poi dovevi lavarlo dalle ferite con l’acqua calda e nel farlo i tagli più gravi si riaprivano sempre. Poi sei passata alle garze spalmate di crema idratante, in modo che la ferita non si secchi e che non faccia la crosta sul tessuto.»

Riesco a sorridere. «Quello è un buon metodo, in effetti.» Affondo il braccio, lascio scorrere il sangue, gratto una ferita che si sta già chiudendo, raschio via la crosta molle, e lo risollevo. Taglio solo tre volte lungo uno spazio di pelle rimasto vuoto e rituffo il braccio nell’acqua calda per evitare che bruci troppo.

Anche il mio riflesso sorride davanti a quest’ironia, si posa una mano rossa di sangue davanti alla bocca per nascondere quell’espressione. «Chi l’avrebbe detto che farsi del male richiedesse così tanto ingegno e tanta disciplina, eh? E ora hai le braccia devastate, gonfie e viola, che scottano solo a sfiorarle.» Guarda le mie braccia che colano sul lavello. Ora sanguinano come se si stessero sciogliendo, come i poveracci che si vedono nei documentari su Chernobyl. «Quale sarà il prossimo passo, secondo te? Uhm, forse la pancia, i fianchi, o le cosce?»

Incrocio le braccia sott’acqua e strofino le ferite sollevando un’altra ondata rossa e calda che addensa il colore della brodaglia color ciliegia. Finché le braccia sono sott’acqua non bruciano, ma già pregusto il momento che verrà dopo, quando saranno bendate da tessuto morbido spalmato di pomata rinfrescante, quando mi trascinerò a letto, pesante e svuotata, senza però alcun pensiero per la testa, e potrò addormentarmi di colpo, pensando che per oggi ho pagato il mio prezzo e che mi merito una bella dormita. «Mi piacciono le bende.» Chiudo gli occhi. Mi visualizzo sotto le coperte, le braccia bendate raccolte davanti al petto, in modo che non tocchino direttamente il materasso o il lenzuolo, a causa del dolore che va mitigandosi. «Mi piace l’idea di trovare una piccola consolazione dopo il dolore, come un premio per aver fatto il mio dovere, per essere stata coraggiosa fino in fondo e per non essermi tirata indietro davanti a quello che mi merito.»

«Pensavo che il dolore stesso fosse una consolazione.»

«In parte. Però, credo che sia quello che viene dopo che mi fa stare bene.» Riemergo con una mano dal lavello e apro il sifone, aggiungo acqua al lavandino. Intanto che il getto scorre e scroscia, rigiro il braccio lacrimante e mi soffermo sulla pelle lucida che brilla fra le spaccature dei tagli. «Perché sono i segni di quello che ho passato la vera consolazione, forse ancora più del gesto in senso stretto. Quando soffro dentro, non c’è niente che possa provarlo, non c’è niente che mi faccia rendere conto dell’entità di quello che mi sta facendo soffrire. È come se ci fosse una massa nera, informe e nebulosa incastrata nel petto e nella testa. Una nebbia che mi appanna la vista e che non mi fa rendere conto di nulla di quello che mi circonda.» Strizzo il pugno, spremo i rivoli di acqua e sangue fra le falangi. La pelle del braccio si tende, le ferite si dilatano, rigettano altro sangue, e il dolore si arrampica lungo il muscolo, saetta fino alla spalla. «Se invece scarico il dolore sul mio corpo, allora rimangono dei segni visibili, si crea un dolore tangibile su cui posso esercitare un grado di consapevolezza più concreto rispetto a quello che mi succede dentro che è così astratto e impalpabile. Una volta ho letto che ci sono alcuni psicologi che dicono ai pazienti di sfogare in altri modi il loro dolore quando sentono il bisogno di tagliarsi. Tipo mangiando cibo piccante. Ma con me non funzionerebbe mai. Io ho bisogno di lasciare un segno visibile.»

«Capisco» annuisce il mio riflesso. «Quindi il dolore fisico permette persino a te stessa di dar valore a quello che provi e che non puoi dimostrare. Ah, a proposito.» Anche lei toglie una mano dall’acqua e punta l’indice sul mio braccio. «Ti si sta addensando tutto il sangue.»

«Uh. Cosa?» Rigiro il braccio bagnato.

Attraverso la fila di tagli orizzontali si è solidificata una spessa gelatina di sangue. I grumi più freschi colano come muco. Grosse gocce nere piovono in acqua, ne infrangono la superficie e formano spessi coaguli che finiscono sul fondo del lavello. Un’ala di sangue budinoso pende dal mio avambraccio, simile a una pinna d’alghe.

«Oh, merda.» Maledetto alto tasso di piastrine!

Riaffondo il braccio nell’acqua calda e strofino. Le ferite più profonde bruciano ma resisto. Raschio via il sangue rappreso e massaggio a fondo, in modo che le lacerazioni riprendano a sanguinare. Passare le dita sui tagli aperti trasmette la stessa idea di carezzare il fianco rivestito di branchie di un pesce appena pescato. Ho il braccio con le branchie. Che pensiero rivoltante.

Il vapore che sale dal lavandino, di nuovo colmo di acqua che sembra sciroppo, mi solletica il naso e mi dà la nausea.

L’odore sta cominciando a farsi stomachevole. Odore ferroso e rivoltante di sangue, unito a quello dell’acqua calda e dello spruzzo di disinfettante che ho rovesciato mentre il lavello si riempiva, più quello di crema idratante ormai sciolta con cui ho spalmato le vecchie bende e che è rimasta a ungermi la pelle. Ma è sempre la puzza del sangue quella che prevale. È un tiepido e dolciastro odore di carne viva, simile a quello che ho sentito quella volta in cui la gatta ha partorito in salotto e le pareti ne sono rimaste pregne per un mese. Odore di vita che si apre, che fugge dal corpo e che serpeggia via.

Sospiro. «Sai di cosa mi sono resa conto da quando ho cominciato a tagl...» Di nuovo mi morsico il labbro, deglutisco, mi rimangio quella parola che non mi appartiene. «A farlo di persona?»

La me nello specchio scuote il capo con aria assente e annoiata. «No.»

Raccolgo nuovamente la lametta che avevo appoggiato sull’orlo del lavello. Gocce di acqua sporca chiazzano il bianco della ceramica, scivolano giù. Accosto il rasoio agli spazi di pelle libera, poco sopra il polso, e strappo rapidi tagli orizzontali seguendo la rotondità del braccio. «Nei film, o nei libri, o nei racconti, tutti quelli che si tagliano lo fanno lentamente. Ma perché dovresti farlo lentamente? Chi mai lo fa lentamente?»

Il mio riflesso fa spallucce. «È per accentuare il gesto durante la descrizione. Pura libertà artistica, concediglielo.»

«Ma non è solo quello. Anche i polsi...» Rigiro i miei polsi sfregiati e bagnati di acqua rossa. I segni sui rilievi delle vene bluastre sono meno profondi rispetto a quelli sul resto delle braccia. Graffi rosso fragola e viola uva, incrociati fra loro, circondati da sfumature di lividi. «Il polso è la parte dove rischi di più di essere sgamato dagli altri. Può scivolarti indietro la manica della felpa, o cose così. Ci impiegherebbero poco a dirti: “Ehi, cos’hai sul polso?” E tu: “Oh, niente”. E loro: “Ah, davvero? Tira su la manica, dai”. Bum, fregato.» Stringo e riapro un pugno. Il dolore ai tendini mi colpisce come lo schiocco di una frusta, attraversa un nervo sul lato sinistro che pizzica ogni volta, forse perché l’ho reciso. Stropiccio una smorfia. «E poi fa più male. Io almeno provo ancora degli impulsi che mi impediscono di andarci troppo forte in quella zona. Secondo me è meglio lungo tutto il braccio invece che su un punto solo.»

«Ma i tagli sui polsi ti danno una possibilità più alta di crepare» mi risponde il mio riflesso. «Le vene sono più superficiali, è più facile quindi tagliare quelle giuste per rimanerci secco.»

«Ma io non mi taglio per cercare di morire.» Una piccola scossa alla lingua mi fa sussultare, quando finalmente mi lascio scivolare sulla lingua quella parola. Taglio. Io mi taglio. Giro il capo per distogliere gli occhi dal riflesso, accosto le labbra alla spalla, e arriccio un angolo della bocca, sopprimendo quel formicolio di disagio e vergogna. «Lo faccio perché così dopo sto meglio» continuo con tono più basso. «O, almeno, così è per me. Non so perché gli altri lo fanno. Magari c’è qualcuno che lo fa davvero per morire. Ecco perché secondo me io non sono una vera autolesionista.»

«E dove credi sia la linea di demarcazione in tutto questo?» insiste il mio riflesso. «Quando credi che arriverà il momento in cui anche a te non basterà più farti del male per sentirti meglio?» La sua espressione diventa buia e austera, ma una luce liquida negli occhi gonfiati dalle occhiaie la rende anche più compassionevole. «Da quando hai cominciato è sempre peggio. I tagli sono aumentati e riesci a farli sempre più in profondità. E stai coprendo un’area del tuo corpo sempre più ampia. Una volta non usavi nemmeno l’acqua per far sanguinare più a lungo. Ti limitavi a tappare la ferita appena si formava.»

«Perché le prime volte avevo paura.» Apro e stringo le mani sott’acqua. In quell’acqua così densa che sembra sangue intero, non diluito. Sollevo le braccia, grondo rosso, e le riabbasso. «Mi tagliavo, guardavo il sangue, guardavo quanto sangue veniva fuori, e non riuscivo nemmeno io a credere di essere stata in grado di fare una cosa del genere. Poi mi girava la testa e sentivo tutte le gambe tremare, come fatte di gomma. Era tutto così assurdo, così surreale.» Soffio uno sbuffo, allontano una ciocca di capelli finita sulla fronte. «Ora invece è diventata una routine, non provo più paura. E per provare quel poco di sollievo devo essere in grado di far peggio della volta prima, di farmi sempre più male.»

Il mio riflesso solleva un mezzo sorriso, solo con un angolo della bocca, ammicca con le sopracciglia in un gesto di complicità. «Come un eroinomane che non sente più il flash della pera e ogni volta deve aumentare dosaggio.»

«Sì. Più o meno.»

«E dove credi che ti porterà la strada che hai deciso di imboccare?»

«Alla morte, se davvero il destino vuole così.» Stendo un sorriso che m’infonde una tristezza nera. Riapre quel buco nel cuore che riesco a colmare solo quando faccio queste cose. «Oppure non ho mai desiderato nemmeno io di morire. È come ho detto prima, non lo faccio perché voglio crepare, lo faccio solo perché mi dà un po’ di sollievo.»

«Non vuoi morire?» Il mio riflesso sembra deluso.

«No, non credo. Non ancora. Se volessi davvero morire, probabilmente a quest’ora mi sarei già impiccata o mi sarei buttata sotto un treno.» Sospiro e abbandono il capo sull’orlo del lavello, senza nemmeno preoccuparmi che i capelli non scivolino in acqua. Un macigno di sconforto mi precipita addosso. La stessa botta che ogni notte mi spinge a chiudermi a chiave nel bagno, davanti allo specchio, con le lamette fra le dita e il lavello riempito del mio stesso sangue. «Voglio solo che il dolore passi.» Rigiro le mani nell’acqua. Mi godo il tepore, il sollievo dal bruciore, e il fatto di poter controllare questo dolore, al contrario di quello che regna nella mia testa e che non può svanire quando lo decido io. «Chissà se anche per gli altri è così?» Risollevo lo sguardo e scruto la mia immagine riflessa. Mi guardo negli occhi per la prima volta. «Non ho mai parlato faccia a faccia con un autolesionista vero. Sarebbe bello sapere se anche qualcun altro prova quello che provo io.» Serro i pugni sott’acqua. Una scia di brividi risale la pelle tagliata, pizzica nelle ferite e raggiunge le spalle, mi circonda con una soffocante spirale d’angoscia. «Ma hai ragione. Magari un giorno non mi basterà più quello che faccio e sentirò il bisogno di scavare sempre più a fondo, fino a che nemmeno l’acqua sarà in grado di fermare il sangue. E allora tanti saluti.»

Il mio riflesso scuote le spalle. «Ti basterebbe trovare il tuo massimo grado di sopportazione e fermarti a quello.»

«No, perché dopo mi sentirei in colpa per essermi fermata. Se certe volte sanguino meno del solito, o se il dolore è troppo forte, impedendomi di tagliarmi ancora e costringendomi a fermarmi, mi sento in colpa. Sento di non meritare il sollievo di poter dire: “Per oggi basta sangue”. E questo mi fa sentire ancora peggio, perché c’è sempre quella vocina dentro di me che dice: “Debole. Sei debole come volevasi dimostrare. Non sei nemmeno capace di far male a te stessa. Dove credi di scappare? Riprendi la lama in mano e finisci il lavoro, non ti meriti di fuggire in questa maniera”.» Risollevo la lametta, come se mi avesse chiamata per davvero, e la accosto alla curva del braccio. Di nuovo mi estraneo, non penso a quello che sto per fare, non visualizzo nulla. «Le uniche volte in cui mi sento davvero bene con me stessa sono...»

Strappo dal centro verso l’esterno e la lama di rasoio scivola, scava una curva accanto alle vecchie ferite, e lacera un taglio così largo e profondo che sembra mi abbiano staccato un pezzo di pelle con la facilità con cui si sfila un trancio dalla pizza. La carne lucida, bianca e rossa, brilla di vita come l’interno di una bistecca.

Sorrido. Ritorno in me, ma continuo a non provare dolore. «Le volte in cui mi sento davvero bene sono quando formo delle ferite così profonde da stupire persino me stessa. Peccato che capitano quasi sempre perché la lama mi scivola dalle dita, mai consapevolmente. Quindi a un certo punto diventa una questione di culo.»

Affondo le braccia nell’acqua e lascio che anche la nuova ferita spurghi. Sgorga un getto di sangue denso e scuro, simile a tempera spremuta dal tubetto. A volte sono fortunata e pesco davvero qualche vena più grossa delle altre che va avanti a sanguinare ininterrottamente, fino a che non mi fascio.

Lascio ciondolare la testa di lato, mi perdo fra le spirali rosse, nella patina sempre più opaca che riveste la superficie di acqua e sangue. Mi abbandono. «Una volta sentii dire da qualcuno che l’autolesionismo è come una droga. Quando cominci, quando ci prendi la mano, poi diventa impossibile fermarsi.» Sollevo una manciata d’acqua e torno a rovesciarla. «Allora mi chiedevo: “Com’è possibile? Come si può essere dipendenti dal dolore fisico, da qualcosa da cui tutti scappano? Da una reazione chimica che il tuo cervello ti trasmette per impedirti di ripetere quel gesto che danneggia il tuo corpo?” Ma adesso mi rendo conto che tu non sei dipendente dal dolore. Sei dipendente dalla sensazione che ti dà il dolore, dalle sue conseguenze.»

«Come il fatto che ti senti in colpa se non tagli abbastanza?»

«Sì, proprio così» confermo. «Per me è sempre stata una questione di sensi di colpa, immagino, di senso di insicurezza personale che mi ha sempre fatta sentire inadeguata su tutto. Il dovermi punire per non essere diventata quello che io mi aspettavo, o che tutti si aspettavano. Perciò, se rimango un giorno senza tagliarmi, comincio a dirmi: “Non ti meriti una pausa dal dolore. Pensa a tutti quelli che oggi soffrono mentre tu no. Che diritto hai di non soffrire?” E la sensazione peggiore sai qual è?» Rigiro le braccia ancora sommerse dall’acqua. Le cicatrici più vecchie, quelle circondate dai lividi e fossilizzate dalle croste, sono tornate gonfie e rosse dopo tutto questo tempo in ammollo. «Quando vedo le ferite che cominciano a rimarginarsi, i segni che scompaiono. Sento come di non avere più nulla a cui aggrapparmi. Per questo non so come farò a smettere. Il pensiero di avere di nuovo le braccia pulite per me è agghiacciante.» Reclino il capo all’indietro, verso la luce del neon che ora appare più opaca. Una luce sempre più distante e difficile da raggiungere. «Ed è anche per questo non so quanto mi resta prima del punto di non ritorno. E non so nemmeno come fare per farmi passare la voglia di tagliarmi. In realtà, non desidero nemmeno che mi passi.»

Le mie parole evocano di nuovo quel formicolio in fondo al petto, quel prurito sotto la pelle bagnata, e quella pressione sul cuore che mi fanno desiderare di grattare via la sensazione di malessere a suon di sfregi.

Scelgo una parte pulita e ancora intera del braccio destro. Vi spingo sopra la lametta – una goccia di acqua rossa rotola dalle mie dita fino al rasoio, riga la pelle – e schiaccio una ferita dopo l’altra. La mano non si ferma. Sulle mie labbra sboccia un sorriso di sollievo, la voce del riflesso nello specchio si sposta nella mia testa. Soffri, soffri, inetta di una troia, soffri per tutto quello che ti meriti, maledetta puttana incapace, spurga le tue colpe e paga con il tuo sangue, con tutte queste cicatrici che ti porterai dietro per tutta la vita e che ti ricorderanno ogni giorno il misero essere insignificante e immeritevole che sei.

L’ultimo taglio è il meno profondo, affianco all’osso del polso, e la saetta di dolore si arrampica fino al gomito, bloccandomi.

Mi fermo e riprendo a respirare. Inspiro dal naso, espiro dalle labbra, cadenzo le boccate, sbatto più volte le palpebre per cancellare le scintille bianche che mi annebbiano la vista, estraniandomi dall’ambiente del bagno. Riapro gli occhi. Le ferite fresche sanguinano e spandono un largo velo di un rosso acceso sopra quelle vecchie, sulle cicatrici e sulle croste nere. Il sangue si mescola all’acqua che mi inumidisce la pelle e gocciola nel lavello. Forse ho un po’ esagerato. Come al solito, mi rendo conto della vera entità delle ferite solo quando ho finito di tagliare, come se la mia testa si staccasse mentre lo faccio. Ogni tanto mi spaventa.

Scrollo la lametta sporca, la immergo nell’acqua, e la lascio sgocciolare sull’orlo del lavandino. Per oggi basta così. «La soluzione migliore è dare degli strappi rapidi, profondi, uno dietro l’altro. Così non ti accorgi nemmeno del dolore.» Mi rivolgo di nuovo alla rassicurante e familiare figura del mio riflesso. «Le prime volte era fantastico rendersi conto di quanto può essere facile, ti ricordi?» Riaffondo entrambe le braccia sott’acqua, le incrocio, strofino per sciogliere la patina di sangue già formata sulle ferite. Mi godo il tepore. «Il dolore arriva dopo. Arriva dopo e dà soddisfazione per quanto brucia, per quanto fa male. Tanto che non riesco nemmeno a dormire se le braccia bendate toccano il materasso. Devo tenerle poggiate sul petto fino a che il peggio non passa. Le tengo incrociate come un vampiro, o come un morto nella bara.» E come sto facendo ora sott’acqua. «La parte peggiore invece è quella subito dopo l’emersione dall’acqua, quando cominciano ad asciugarsi e a chiudersi, e la pelle va come a fuoco.» Annuisco a me stessa. «Ma mi piace l’idea di soffrire fisicamente. È l’unico dolore che il mondo capisce, l’unico dolore che viene considerato, e l’unico dolore a cui gli altri danno validità. Se soffri fuori, tutti possono capire quanto stai male, tutti lo accettano.»

Il mio riflesso si scosta una ciocca caduta sul viso bianco e smagrito. Diventa più pallida, magra e sfatta ogni volta in cui affondo un taglio nelle braccia, come se le stessi prosciugando la linfa vitale dalle vene. Sistema i capelli dietro l’orecchio, sporcandosi la guancia con le dita umide di sangue. Solleva un sopracciglio. «Cioè?»

«Uhm» medito. «Immagina questo.» Agito le braccia sotto l’acqua che si sta intiepidendo e che si sta di nuovo rivestendo della patina collosa della mia pelle morta. «È facile andare da una persona mostrando la propria gamba ingessata e dire: “Scusa, non me la sento di fare una camminata. Ho fatto un incidente e la gamba mi fa un male atroce”. Oppure è facile mostrarsi con un occhio livido e gonfio dopo essersi presi lo spigolo di un mobile nella palpebra e dire: “Scusa, ma oggi non posso proprio venire al cinema. Mi sono preso una brutta botta proprio nell’occhio e preferisco starmene tranquillo con una borsa di ghiaccio sulla faccia”. Quella persona capirà e non ti darà della lagna. È chiaro che la gamba ti fa un male cane: è ingessata. È chiaro che l’occhio brucia: è gonfio come una susina matura.» Socchiudo anch’io gli occhi e guardo in disparte, come per non fronteggiare una situazione simile. Sospiro. «Ma prova ad andare da qualcuno e dire: “Scusa, oggi non ho voglia di parlare, mi sento depressa, mi sento poco comunicativa, ho bisogno di stare da sola, ho bisogno di pensare”. Quante possibilità ci sono che quella persona ti capisca e quante ci sono invece che quella persona ti dia della lagna, ti dica che devi semplicemente cercare di essere più felice perché altrimenti fai la figura della pigna in culo, e che se mantieni quel tipo di atteggiamento è ovvio che non sarai mai contento di nulla? Se soffri solo dentro, in che maniera puoi trasmettere il tuo dolore agli altri? In che maniera puoi fargli capire quanto stai male? In che maniera puoi creare una prova del fatto che ti serve qualcuno che ti aiuti, qualcuno che ti capisca e che sia disposto ad accettare le tue sofferenze senza pregiudizi? Senza per lo meno sentirti dire: “Sei tu quella che la fai troppo tragica. Datti una scrollata e vedrai che poi le cose andranno meglio”. Nessuna.» Scuoto il capo, e intanto il mio sangue continua a scorrere e a riempire il lavandino. «Il mondo non si fermerà a cercare di capire il tuo dolore. È per questo che ci ritroviamo inevitabilmente soli, dovunque siamo e qualsiasi cosa facciamo. Non possiamo mai davvero contare su nessuno.»

«È per questo allora che ti metti sempre davanti allo specchio quando ti tagli?» mi domanda il mio riflesso. «Perché hai bisogno di trovarti davanti a una faccia che capisce il perché lo fai? Davanti a una faccia che ti compatisca?»

Sorrido. «Chi lo sa.» Sollevo gli occhi e tengo inarcati gli angoli delle labbra. Sorrido di pietà davanti al pallido e patetico fantasma di me stessa. «Forse perché, inconsciamente, spero quasi che un giorno tu riesca ad allungare il braccio fuori dallo specchio e a bloccarmi la mano.»

«E mi daresti retta?» Il mio riflesso inclina il capo di lato. I suoi occhi percorrono il profilo delle mie braccia affogate nell’acqua, la scintilla argentata proveniente dalla lametta riposta sul bordo del lavandino. «Se io ti fermassi, accetteresti di farlo? Di mettere giù la lametta di lasciare in pace le braccia?»

«No.» Non ho paura a confessarlo, non me ne vergogno. «Ma mi farebbe piacere il pensiero che almeno ci hai provato. Che ti sei preoccupata per me.»

«E se qualcun altro scoprisse cosa nascondi e ti dicesse di fermarti, gli daresti retta?»

«No. Perché non capirebbe. Non capirebbe quanto è importante per me continuare a farmi del male in questa maniera.» Arriccio una smorfia, soffio uno sbuffo inacidito. «E poi mi direbbe di fermarmi solo per essere in pace con la coscienza, non perché gli importa davvero che io la smetta. Non riuscirebbero a capire che, se vogliono davvero che io stia almeno un pochino bene con me stessa, allora devo continuare a farlo. E poi che diritto avrebbe di dirmi quello che devo fare con la mia vita? O con le mie braccia?»

«Cosa farai con tutti quei tagli?» Il tono del mio riflesso suona più duro. Anche lei sa che molti sono permanenti, che sono diventati troppi, che mi rivestono le braccia in una doppia manica di dolore, e che sarà impossibile tenerli nascosti per sempre. «Come farai quando arriverà l’estate e non potrai più nasconderli? Alcuni sono davvero enormi, sarà impossibile non notarli e le cicatrici impiegheranno anni a sbiadire.»

«Non lo so. Non voglio pensarci.» Do una scrollata di spalle. «Magari entro l’estate sarò davvero morta.» Ma ci credo meno di lei.

«E se non lo sarai?»

«Ci penserò quando si presenterà il problema. Ho difficoltà a visualizzare cosa mi accadrà domani, figuriamoci se dovessi guardare da qui a sei mesi.»

«E se qualcuno se ne dovesse accorgere prima di allora? In quel caso cosa faresti?» Si sporge in avanti con le spalle. I suoi occhi lucidi, gonfi e bordati di nero, mi guardano dentro. «Ti ribelleresti come hai detto?»

«No. Forse mi arrenderei. Perché è questo che sto facendo, in fondo. Io mi sono arresa da tanto tempo.» Riemergo con la mano destra, apro il rubinetto e immergo il braccio sotto il getto. Lungo le ferite rimangono incastrati solo alcuni coaguli rossi, solo i tagli che ho inflitto per ultimi continuano a lacrimare, ma il sangue sta smettendo di scorrere. Le ferite rimangono bianche e aperte. Nei prossimi giorni si formerà una crosta rossa e giallognola, simile a miele rappreso, che farà fatica a cadere. Sciacquo ancora un po’. «Sai, una volta uno psichiatra ha detto: “Forse la vita non è per tutti.” Magari è davvero così. Perché più gli anni passano, più mi rendo conto di quante cose la vita implica e che io non riuscirò mai ad affrontare e a sostenere. Eppure quello che ho detto prima è vero: io non voglio morire.» Accosto pollice e indice come se stessi reggendo un sassolino di ghiaia fra i polpastrelli. «C’è sempre quella piccola parte dentro di me che spera ancora che accada il miracolo, l’illuminazione che mi faccia capire come la vita vada affrontata per essere sereni e felici. A volte lo spero e a volte semplicemente non me ne importa nulla e vorrei semplicemente non essere mai esistita. Penso che la soluzione migliore, la più indolore, sarebbe quella di dissolvermi.» Reclino il capo all’indietro, chiudo gli occhi ormai stanchi e pesanti, e sorrido all’idea. «Dissolvermi come tempera nell’acqua.» Rimesto le dita nel lavello colmo, sollevo il morbido e piacevole suono dell’acqua che si sposta, del suo eco scrosciante che riempie il silenzio tombale del bagno. «Come il sangue che ora scorrerà nel lavello, svanendo senza lasciare traccia. Senza più causare guai, senza più disturbare, senza che nessuno si preoccupi più di me e senza che nessuno parli di quella che sono stata e di quella che avrei potuto diventare. Non sono un’ipocrita. So che esistono persone che sarebbero tristi per me, so che esiste gente che soffrirebbe nel vedermi morire e che piangerebbe al mio funerale. Ma non voglio che si sentano in colpa, non voglio far soffrire nessuno, non voglio causare guai anche quando non ci sarò più, per questo vorrei sparire e basta. Mi piacerebbe una morte così. Sarebbe solo...» Fermo il tocco delle dita. «Svanire.» Riapro gli occhi nell’acqua rossa, nella risacca che tocca il foro sotto il rubinetto e che scivola nello scarico, senza lasciare chiazze o aloni sulla ceramica laccata. «Svanire come tempera nell’acqua.»

«Perché proprio la tempera e non il sangue?» mi domanda il mio riflesso. «Anche il sangue svanisce nell’acqua.»

«Perché la tempera ha lasciato qualcosa di sé dietro. Forse è questo che voglio essere, o forse è questo che sono.» Scuoto il capo. «Io non sono la tempera rimasta attaccata al foglio o alla tela, non sono la tempera che ha dato vita a qualcosa, che ora è immortale grazie al disegno che ha assemblato. Io sono la tempera scartata che non si è dimostrata abbastanza utile e che ora è destinata a mescolarsi all’acqua e a finire scaricata nel lavello. O nel cesso.»

Sorrido di nuovo. Un sorriso però più sereno, di chi ha accettato in pace il suo destino, il suo marchio, la sua etichetta, proprio come io ho accettato queste ferite sul mio corpo.

«È questo che sono» ribadisco. «Sono la tempera nell’acqua. Sono la tempera che non ha avuto coraggio di rimanere attaccata al foglio. Magari un giorno sarò stufa di rimanere a stagnare nel bicchiere di plastica sporco e mi lascerò rovesciare nello scarico. E allora morirò...» Stappo il fondo del lavello. Il suono del gorgo che risucchia emerge assieme all’eruzione di una bolla d’aria, assorbe l’acqua insanguinata, e forma un piccolo vortice rosso attorno al tappo alzato. Lascio il rubinetto aperto, in modo che l’acqua fresca pulisca e trascini via i residui di sangue, pelle morta e pezzetti di garza umida. «Come tempera nell’acqua.»

L’acqua s’arrotola in quel piccolo vortice scarlatto, sparisce sotto il tappo alzato, succhia i coaguli di sangue scuro, tranne che per alcune tracce simili a muco rosso che rimangono incollate alle pareti concave del lavandino, e muore nello spazio nero. Come tempera nell’acqua.

 

 

 

 

 

Fine

   
 
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