Titolo:
Once More With Feeling
Fandom: D.Gray-man
Personaggi: Lavi – Deak
Pairing: //
Genere: Drammatico, Angst
Rating: Arancione
Avvertimenti: Non per stomaci delicati, Alternative Universe, One-shot
Note: E’ stato un vero e proprio suicidio. Spero piaccia, nonostante
tutto, nonostante non piaccia a me.
Nonostante il mio umore al momento faccia schifo. Voglio la fottuta voce
“Deak” tra i personaggi. Cazzo.
° Fiction iscritta al Contest “History” indetto
da Dike_Nike [2° Classificata]
° Fiction iscritta al 2nd Contest di Fanfiction indetto dal
forum AllD.Gray-man [1° Classificata]
Once More With
Feeling
« For each man kills the thing
he loves »
[The Ballad of Reading
Gaol]
Oscar Wilde
Il tuono
scoppiò così forte e così a lungo che gli fece tremare
tutte le ossa che aveva in corpo.
Gli si
strinse lo stomaco in una morsa d’acciaio, così come gli si
chiusero gli occhi senza che se ne rendesse conto. Eppure il lampo lo aveva
visto chiaramente, giusto un attimo prima, avrebbe dovuto essere pronto.
Il
ragazzino strusciò i talloni contro le tegole rosse e strinse le
ginocchia contro il proprio petto, chinando il viso in uno scatto nervoso. I
capelli rossi oscillarono e gli finirono davanti, a pizzicargli la punta del
naso.
Poi tutto
smise di tremare –la casa, il suo cuore- e lui si azzardò ad
aprire un occhio verde smeraldo. Prima uno, poi l’altro.
«
Mhh…» mugugnò una voce alla sua destra, un po’
incerta. « Deak? » domandò poi, mentre quest’ultimo
lasciava scivolare nuovamente le gambe verso il basso e si voltava verso la
finestra.
Deak non
rispose, ma fece segno al fratello, affacciato dalla loro camera, di
raggiungerlo. Quello guardò dietro di se, poi a destra, e infine a
sinistra. Scavalcò la finestra, un po’ a fatica, e si sedette
affianco all’altro, sul tetto della casa.
«
Era un tuono? » domandò ancora la stessa voce, lanciando
un’occhiata distratta sotto di loro, adocchiando qualche metro più
sotto il vialetto di casa.
Non era
poi così alto.
Deak
annuì, e sospirò silenziosamente, a bocca chiusa. «
Chissà. » rispose, alzando lo sguardo verso l’alto. «
Forse hanno bombardato un’altra città... » mormorò,
sovrappensiero.
Lavi fu
tentato di imitarlo, ma decise di non farlo. Si mise invece a fissare il
fratello, titubante.
Non gli
piacevano le guerre.
Certo, il
loro paese non era coinvolto direttamente, ma…
«
Che facevi? » domandò dopo un po’, lasciando che un altro
cupo rombo facesse nuovamente vibrare i vetri della casa.
Era un
venerdì sera dalle tonalità chiare e dall’aria fresca, e
l’ora di cena non era ancora arrivata nell’Áth Cliath. Sembrava che dovesse piovere da un momento
all’altro.
Lavi aveva
fame, come poteva testimoniare il brontolio che proveniva dal suo stomaco, ma
non lo disse ad alta voce. Solitamente era un asso nel parlare delle cose
più inutili, ma ultimamente non gli riusciva poi così bene.
Non gli
piacevano le guerre.
Deak
attese qualche attimo, prima di rispondere. Quando lo fece, piegò il
viso di lato, abbozzò un sorriso infantile e ridacchiò.
«
Guarda. » rispose, cominciando a tastarsi le tasche della giacchetta. Non
trovando quello che cercava passò a tastarsi la camicia bianca, e poi ai
pantaloni di stoffa. Il fratello lo osservò per tutto il tempo, curioso,
mentre si voltava del tutto verso di lui e incrociava le gambe. Posò i
gomiti sulle ginocchia, sbattè le palpebre un paio di volte e poi
trattenne il fiato.
« Ma
quello… » cominciò, strabuzzando gli occhi.
«
Si! » chiocciò l’altro, tirando fuori dalle tasche dai
pantaloni un pacchetto di sigarette un po’ accartocciato e un po’
rotto. « E’ di papà!
» continuò il ragazzino, sorridendo. «Gliel’ho preso
questa mattina, non se ne è neanche accorto! »
«
Mhhh… » mormorò Lavi. Nonostante l’eccitazione del
fratello, lui non era del tutto convinto di dover essere contento per una cosa
del genere. Quindi in quel momento era indeciso se essere ammirato o
spaventato.
Deak
evidentemente rimase deluso da quella reazione, perché smise di
sorridere e sbuffò, roteando gli occhi al cielo. « Andiamo, siamo
al primo anno della Junior Cycle, non puoi scandalizzarti
per una cosa del genere. » si lamentò, scuotendo la testa e
posando il pacchetto di sigarette sopra una tegola rotta del tetto, quella su
cui era caduto proprio lui qualche settimana prima.
Lavi
arricciò le labbra in una mezza smorfia, piegando il viso di lato e
strusciandosi una guancia contro la spalla. « Lo sai che non mi piace
l’odore. » sbottò, sulla difensiva. « Mi fa venire la
nausea. »
Per tutta
risposa, l’altro ragazzino sbuffò. « Okay, okay. »
tagliò corto, riprendendo a fissare le stelle.
Non si
erano neanche accorti che il cielo avesse smesso di tuonare.
« Buachaillí! » chiamò
all’improvviso una voce sotto di loro, calda e un po’ bassa
così come avevano imparato a riconoscerla i due gemelli. «
Ragazzi, è pronta la cena! » continuò quella, mentre
entrambi si sporgevano oltre il tetto per vedere una donna agitare un braccio
nel richiamare la loro attenzione. « E levate quei culi da lì,
subito! Rischiate di rompervi l’osso del collo, e poi sono io quella che
deve venirvi a raccogliere con il cucchiaino! »
« Sea, mamaì! » chiocciò Deak
nell’alzare una mano verso l’alto, con un sorriso divertito sulle
labbra. Poi si girò verso il fratello e gli fece segno di muoversi,
rivolgendogli uno sguardo eloquente. « Tu non avevi fame? » gli
fece notare, così che l’altro annuì, un po’ incerto. Lui,
però, non glielo aveva mica detto.
Anche se a
Deak piaceva, Lavi non apprezzava per niente il modo di esprimersi della madre.
Lo spaventava, ecco.
Rientrarono
entrambi in casa, passando dalla finestra della propria camera, e scesero
veloci le scale per raggiungere la piccola cucina.
I passi
risuonarono contro il legno dei gradini, e poi si spensero del tutto.
Era
l’ora di cena, e le posate sbattevano pacatamente contro le ceramiche, a
ritmo di conversazione. Intanto, il vecchio televisore poggiato contro la
parete sfrigolava e trasmetteva le notizie più e meno importanti della
giornata.
Della
settimana. Parlando del mondo, dell’emergenza.
Il Signor
Healy, padre dei gemelli, sedeva a capotavola e osservava in silenzio lo
schermo lucido dell’apparecchio, sorseggiando distrattamente la propria
birra scura, una Guinness fresca di frigo.
Neanche a
lui piaceva la guerra, ma alla fine ci si era dovuto abituare. Bombardamenti
lontani, vicini, aerei di passaggio che spaventavano le persone comuni e i
comandanti di Divisione.
L’Irlanda
non era entrata in guerra, ma poco contava.
Lanciò
un’occhiata lenta al lato del tavolo, vedendo i figli parlottare tra di
loro –uno agitava di tanto in tanto le mani e sorrideva eccitato,
probabilmente Deak- e poi osservò la moglie servire con cura lo stufato che
non piaceva né a lui né a Lavi, quello con le cipolle e le
patate.
« Ma mamma… » si lagnò il
ragazzino, imbronciando il viso e fissando la madre con aria afflitta. Lei
roteò gli occhi verde scuro verso l’alto e sospirò, posando
la pignatta di terracotta sul bordo del tavolo. Si avvicinò al figlio e
gli si inginocchiò affianco, posando una mano sulla sedia e una sulle
sue ginocchia. Lavi si girò, e lei sorrise piano. « Se mangi tutto
lo stufato, » cominciò, in una specie di trattativa altamente
professionale « prometto che dopo ti porto una tazza un po’ più grossa di Pudding, okay? »
« Mhhh…
» l’altro arricciò le labbra e sembrò rifletterci su,
incerto, mentre al di sopra della sua spalla destra si affacciava il fratello.
Quello cominciò a scrutare la madre con un’espressione
indecifrabile, senza aprire bocca.
Lei
sospirò, rassegnata. « Okay, ne darò anche a te. »
concesse.
Poi rimase
in silenzio. E senza dire una parola, si voltò lentamente verso il
marito, notando come la stesse fissando a sua volta.
Allora la
donna scoppiò a ridere, incredula, e si alzò in piedi con un
movimento fluido e un po’ brusco delle gambe. « D’accordo,
d’accordo! » sbottò, alzando le mani in segno di resa
« Ma mangiate tutto, dannazione, mi sono fatta venire i calli alle mani a
forza di tagliare tutta quella roba! »
Tornò
dalla pignatta che aveva lasciato sul tavolo e finì di servire i piatti,
lanciando un’occhiata veloce al marito –lo vide sorridere
divertito- e sospirò piano.
Nonostante
tutto, le piaceva quel modo di fare. Sapeva di casa, di famiglia.
Posò
il pentolino sui fornelli, si pulì le mani sullo strofinaccio appeso e
si sedette vicino a Deak, scompigliandogli distrattamente i capelli.
Lui
sorrise di rimando.
Le piaceva davvero, quell’aria di casa.
† †
†
Quando
tutta la famiglia finì di mangiare, il buio fuori dalla casa si era
fatto più pressante di quanto avrebbe dovuto.
Poi era
venuto il momento di andare a letto, e a quel punto nemmeno le stelle si
vedevano più in cielo.
Quando
Healy Junior si svegliò, da solo nel proprio letto sfatto, non si rese
conto subito di averlo fatto. Sbattè prima le palpebre, piegando il viso
di lato, e richiuse gli occhi. Si girò su un fianco, posandosi un
braccio sul viso, e li riaprì.
«
… bráthair? »
domandò con un filo di voce, un po’ assonnato. Suo fratello non
c’era. Non affianco a lui, almeno. Non a tentare di farlo cadere dal
letto nell’incoscienza del sonno, non a posargli una gamba contro il
fianco mentre si rigirava tra le lenzuola.
Non era
affianco a lui, ma seduto sul tetto della casa, ancora una volta. Aveva
lasciato la finestra aperta e fissava il cielo, in silenzio. Con le gambe
incrociate e i gomiti poggiati sulle ginocchia.
Deak
rimase a fissarlo in silenzio, mentre a poco a poco la pesantezza del sonno
andava sfilandosi, come fili di fumo di una sigaretta che bruciava con troppa
forza.
Poi
sbattè le palpebre un paio di volte, e si mise a sedere. Le coperte
scivolarono per terra, con un lieve fruscio. Scese dal materasso, posando i
palmi delle mani contro di esso, e percorse lentamente la distanza che separava
letto e finestra.
Poggiò
i gomiti contro il legno e allungò le braccia, stiracchiandosi
silenziosamente.
«
Lavi? » chiamò a bassa voce. « Che fai? »
Deja-vu.
E il
gemello si voltò a guardarlo, tra il pensieroso e l’incerto. Non
rispose, attese qualche istante e tornò a fissare il cielo.
Respirava
piano, con la bocca appena dischiusa, e non si muoveva. Deak lo scrutò a
sua volta, fino a quando non decise di salire nuovamente sul tetto, come
qualche ora prima.
«
Ohi. » chiamò ancora una volta, limitandosi a rimanere sul bordo
della finestra. Piegò il viso di lato e attese una qualche risposta.
Il silenzio
rimase tale per un breve minuto, interrotto di tanto in tanto da qualche
scoppio lontano e qualche risata acuta più vicina, rumori di sottofondo
di una città che troppo spesso non dormiva di notte.
C’era
odore di erba bagnata, nell’aria. C’era odore di notte e luci
spente.
« Ho
sognato, » cominciò all’improvviso Lavi, con voce chiara e
forte, seppur non troppo alta « di morire. » Si alzò un
soffio di vento, che scompigliò i capelli rosso fuoco di entrambi.
« Ho sognato, » riprese a parlare il ragazzino, con calma «
che c’era la guerra. »
Deak
rimase in silenzio, ascoltando il fratello con pacata attenzione. Sapeva di
dover comportarsi in quel modo, un po’ perché non aveva nulla da
dire, un po’ perché probabilmente Lavi aveva semplicemente bisogno
di parlare con qualcuno di quello che sentiva.
Deak lo
sapeva, che c’era la guerra. Lo sapevano tutti.
«
C’era… » la voce dell’altro tornò ancora una
volta, e si smorzò. Poi riprese, e riprese anche il vento. « Ero
solo, sai. C’erano le bombe. Scoppiavano, tutte attorno a me, e…
» ritirò le gambe contro il petto, e chinò il viso. «
c’erano i proiettili. C’erano i morti, c’era il sangue, c’era… » per un attimo
la voce gli si spense, contro la sua volontà, e lui non disse più
nulla. Si perse in un fremito che sapeva di panico.
Non sembrava
sul punto di piangere, si rese conto Deak. Sembrava più che altro
arrabbiato, per qualche motivo che non riusciva a capire.
Lavi
sospirò, e chiuse gli occhi, premendo la fronte contro le ginocchia.
«
Deak. » disse poi, voltandosi a guardarlo, lentamente. Aprì la
bocca per dire qualcosa, ebbe ancora una volta un attimo di incertezza e la
richiuse senza dire nulla.
Quello gli
si avvicinò, sentendo subito il vento premergli contro la pelle nuda.
Abbozzò una smorfia e si avvicinò al gemello. « Ohi, Lavi.
» sbottò, a bassa voce. « Era solo un sogno. »
cercò di fargli notare, nonostante sapesse che non sarebbe servito a
nulla.
Perché
quello che Lavi aveva visto andava ben oltre il normale sogno. Deak se lo
sentiva dentro, nello stomaco. Nelle viscere che gli si stavano rimescolando
così silenziosamente da sembrare serpi striscianti.
L’altro
non rispose, e continuò a fissarlo. Tra lo speranzoso e lo scoraggiato.
Allora Deak sospirò, passandosi una mano tra i capelli.
«
Lavi… » mormorò, scuotendo la testa. Gli si avvicinò
ancora un po’, alzando appena una mano per posargliela vicino
all’orecchio, come a volergli confidare un grande segreto. Attese un
attimo, come incerto, e vide come l’altro si tendesse tutto, aspettando
quello che lui gli avrebbe detto.
Deak abbassò
lo sguardo, prese fiato e lo scrutò con la coda dell’occhio. « … mi sa che hai mangiato
troppo Pudding. » gli sibilò, con estrema serietà.
Poi non
successe nulla.
Finchè
Lavi non si voltò a guardarlo, tra l’incredulo e l’offeso
–con una nota divertita e una delusa nello sguardo- e non lo
scostò bruscamente, aprendo la bocca indignato.
«
Che palle, Deak! » cominciò a lagnarsi, guardando distrattamente
come il fratello cadesse contro le tegole del tetto e rimanesse immobile,
ghignando come un idiota. « Era una
cosa seria! »
Poi,
entrambi chinarono lo sguardo. Quasi in contemporanea, senza farci minimamente
caso.
«
Era una cosa seria… » mormorò nuovamente Lavi, voltandosi a
guardare da un’altra parte.
Il vento
aveva smesso di soffiare, così come i tuoni avevano smesso di scoppiare.
E
all’improvviso Deak tese una mano, afferrando quella del fratello.
« Vieni. » gli disse, senza dargli tempo di replicare. Lo
trascinò nuovamente in casa, nella loro cameretta, e salì in
piedi sul letto. Quello cigolò sotto il peso di entrambi e poi rimase
immobile. « Aspetta qui. » continuò il ragazzino, mettendosi
prima seduto e poi sdraiato, affacciandosi oltre il materasso per allungare
entrambe le braccia sotto le assi del letto.
Lavi lo
osservò frugare tra i loro giocattoli di legno per un po’, forse
deluso.
Ci aveva
sperato davvero, per una volta.
Aveva
sognato, quella notte. Aveva sognato la guerra, le bombe, i soldati morti.
Aveva sognato.
Deak e
Lavi non sognavano mai.
Sospirò,
e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, Deak gli stava sventolando davanti
al naso un pezzo di carta giallognola, sorridendo sicuro. Aveva anche una
penna, stretta fra le dita.
«
Facciamoci una promessa. » chiocciò, e per un istante Lavi non
riuscì a collegare. Sbattè le ciglia e lo fissò dubbioso.
« Ci facciamo una promessa e la firmiamo, okay? » continuò
il fratello, annuendo nella speranza che lui lo imitasse.
«
Mhh… » mugugnò, titubante l’altro. Non riusciva a
capire dove volesse andare a parare Deak. « Che tipo di promessa? »
azzardò, sperando di non sbilanciarsi troppo.
«
Una promessa da adulti, ovvio! » cominciò a spiegare Deak,
agitando il foglio e poi premendolo contro il letto. « Ci scriviamo
quello che vogliamo, la firmiamo con il sangue e poi la nascondiamo! »
« Con il sangue? » domandò
con voce strozzata Lavi, colto alla sprovvista.
Deak
annuì, e ridacchiò. « Una goccia, eh, non ti sto mica
chiedendo un rene. »
«
Eh, vorrei vedere.. » borbottò in risposta lui, distogliendo lo
sguardo. Poi sospirò, rassegnato. « Cosa dobbiamo prometterci?
»
«
Non morire. »
Lavi smise
di respirare. Non è che gli si bloccò il respiro in gola,
suscitando così quel fastidioso rumore di risucchio. Semplicemente, per
un attimo soltanto, Lavi si dimenticò di respirare. « Cosa? »
«
Non morire, Lavi. » continuò Deak, fissandolo improvvisamente
serio. « Non morire, e non lo farò neanche io. » gli si
avvicinò appena, e posò entrambe le mani sulle sue. « Anche
se c’è la guerra. Anche se ce ne sarà un’altra, anche
se ce ne saranno centinaia ancora –gli esseri umani sono degli stupidi,
lo sappiamo. Non sanno fare altro che guerra guerra guerra- noi due resteremo insieme. »
Attese un
attimo, poi chinò il viso. Strinse la presa sulle mani del fratello e
poi tornò a guardarlo, così serio e disperato che per un attimo Lavi credette
che quello sguardo fosse colpa di un gioco di luci. « Okay? » domandò la voce
sottile di Deak, e i dubbi dell’altro svanirono come uno sbuffo di fumo
nel cielo di una notte estiva.
Lavi
rimase in silenzio, sentendosi improvvisamente colpevole.
Non credeva
che…
Annuì.
« Okay. » Tese una mano, sfilandola dolcemente dalle dita del
fratello, e afferrò piano il pezzo di carta. « Resteremo insieme.
»
« Qualsiasi cosa accada. » precisò
Deak, respirando piano.
«
Qualsiasi cosa accada. » concordò Lavi, annuendo ancora una volta.
Passarono
le seguenti due ore a scrivere su quel vecchio pezzo di carta ingiallita.
L’aria si era fatta meno pesante, e sembrava andare nuovamente tutto
bene.
Scrissero
regole e punizioni, scrissero accordi e trattative. Lo fecero tra bisbigli e
borbottii, sotto il fresco delle lenzuola, e quando ebbero finito firmarono,
macchiando persino il materasso di inchiostro.
Scrissero
i rispettivi nomi, uno sopra e l’altro sotto, e poi presero il vecchio
coltellino da caccia che il padre gli aveva regalato qualche estate prima. Non
aveva una gran lama, ma riuscirono comunque a far cadere qualche goccia di
sangue sopra la carta, senza sporcare ulteriormente il letto.
Poi
rimasero immobili, a fissare verso il basso. La macchia rossa si allargava
lentamente, tendendo i propri tentacoli viscosi come fili di ragnatela.
Deak
chiuse gli occhi, e non disse più nulla. Afferrò il foglio e
scese dal letto, si guardò attorno e poi decise di nasconderlo in una
borsa di cuoio sgualcito.
« Lo
seppelliamo domani. » disse con voce sicura al fratello, annuendo
convinto. « Finita la scuola, andiamo vicino al boschetto dietro la
chiesa e lo seppelliamo. »
Sembrava
un piano perfetto.
Lavi
annuì, e attese che il fratello tornasse affianco a lui, sul materasso
cigolante.
Poco dopo,
andarono a dormire.
«
Buonanotte... » disse lui, fissando Deak un po’ preoccupato.
«
‘notte. » rispose l’altro, con gli occhi già chiusi e
il respiro lento.
Infine, con
la finestra ancora aperta e un pulsare lento sull’indice della mano destra,
entrambi si addormentarono.
E, entrambi
sognarono.
Che cosa,
non lo ricordarono mai.
† †
†
Era
sabato.
Deak
teneva le braccia alte, perpendicolari al corpo, e camminava non troppo
velocemente sul muretto di pietre bianche. Passo, passo, balzello e ancora
passo.
La borsa di
cuoio scuro gli ondeggiava a ritmo di andatura, lungo il fianco, e sbatacchiava
silenziosamente contro le sue gambe di tanto in tanto.
Lavi gli
stava affianco, in silenzio, e camminava sulla stradina fatta di terra e
erbacce. Aveva caldo, e il colletto della camicia gli stringeva la gola.
Stavano
costeggiando la chiesetta mezza rotta a cui nessuno andava più, e ne
avevano appena raggiunto la facciata posteriore.
Quella
dove c’era il boschetto. E, proprio tra i primi alberi e l’ultima
vetrata raffigurante
Lavi, suo
malgrado, storse il naso.
«
Allora, » disse invece il fratello, scendendo con un balzo a sedere e
lasciando ondeggiare le gambe con forse un po’ troppa forza. « lo
facciamo? » domandò quasi eccitato, come se fosse del tutto
dimentico della sera prima. Del vero motivo per cui erano in quel posto.
Lavi
annuì, e sospirò come rassegnato.
«
Okay. »
«
Scegli la tomba. »
«…
cosa? »
«
Scegli la tomba. »insistette Deak, stringendosi nelle spalle con
noncuranza. Era davvero bravo in quel genere di cose.
« Erh… » Lavi indugiò. «
Credevo che volessi seppellirlo... » indicò il boschetto, che
sembrava osservarli in un silenzio rispettoso e un po’ incuriosito
« beh, là. »
L’altro
sorrise, come se non aspettasse altro. « Ho cambiato idea. » scese
con un secondo balzo dal muretto e si sfilò la borsa, porgendola poi al
fratello. « Su, scegline una. Un posto dove non potranno mai trovarla.
» continuò a parlare, convinto.
« Oh, andiamo, ma chi vuoi che venga qui,
non ci seppelliscono più neanche i
morti… » si lagnò Lavi, scuotendo la testa.
Deak
scoppiò a ridere, con una voce forse un po’ troppo acuta e
incontrollata, come quella di un bambino. Poi si calmò e prese a
sghignazzare sommessamente, nascondendo il viso dietro una mano un po’
abbronzata. « E’ per questo
che la seppelliamo qui. » spiegò. « Proprio perché
non ci viene nessuno! »
Effettivamente,
concesse l’altro, aveva una sua logica.
«
Resta comunque inquietante. » sbottò Lavi dopo un po’,
sospirando. « E poi, perché cavolo devo sceglierla io? »
domandò sospettosamente, assottigliando lo sguardo e poggiandosi le mani
sui fianchi.
Il
fratello ridacchiò ancora una volta, e si strinse nelle spalle. «
Possiamo giocarcela alla morra cinese,
se preferisci. » e gli mostrò una mano a pugno chiuso, come a
volergli rammentare come funzionava il gioco. « Però chi perde
dissotterra un cadavere, okay?
»
A Lavi
andò di traverso una boccata d’aria. « Cosa? »
Deak rise
e scosse la testa, lo prese per un braccio e lo costrinse a seguirlo. «
Okay, okay, non fa niente. Lo
facciamo non appena torna quel tuo amico inglese dal militare. »
cercò di tranquillizzare il fratello, anche se la cosa non gli riuscì
particolarmente bene. « Se sopravvive alla guerra, ovvio. »
Nonostante
le proteste di Lavi, si fermarono davanti ad una tomba, una delle prime.
«
Che ne dici di questa? » domandò Deak, indicandola e lasciando
andare la mano dell’altro. Quello si morse un labbro, piano, e si
piegò in avanti. Sospirò.
Era di una
bambina, gli sembrò di ricordare, anche se non l’aveva mai
conosciuta di persona. Era straniera, forse italiana. Girava sempre con un
bambolotto orribile tra le mani.
Era morta
di crepacuore.
Lavi scosse
la testa.
Allora si
allontanarono entrambi, e lasciarono la bambina. A Lavi sembrò di
sentire il fratello canticchiare, seppur a bassa voce.
Lalala…
Passarono
qualche minuto a leggere le incisioni sulle lapidi –figlio amorevole e
amico leale, padre e marito devoto e via discorrendo- anche se le avevano
già viste tutte tempo addietro.
Poi, ne
trovarono una senza nome.
Entrambi i
ragazzi corrucciarono lo sguardo, con la stessa espressione perplessa e le
stesse identiche rughette ad increspargli il viso. Non avevano mai capito di
chi fosse.
Piegarono
il viso di lato, e lo fecero simultaneamente.
« Credi
che possa andare? » domandò uno, in un soffio di voce.
L’altro si strinse nelle spalle, come se non sapesse cosa rispondere, e i
capelli rossi gli finirono davanti al viso.
Dopo un
attimo di silenzio, in un tacito accordo, si misero entrambi a scavare con le
mani. Si inginocchiarono per terra, cercando di non sporcarsi troppo, e
conficcarono le mani tra l’erba secca e opaca che ricopriva parte del
terreno.
Era un
sabato pomeriggio dal sole cocente e l’aria umida, e Lavi aveva caldo.
Nonostante la tomba che avessero scelto fosse situata in fondo al cimitero,
sotto una quercia dai rami grossi come travi di ferro, la differenza sembrava
essere minima.
Quando
ebbero finito, sospirarono entrambi, stancamente, e Deak si asciugò la
fronte con la manica pulita della camicia. Il buco era profondo almeno mezzo
metro.
In
lontananza, sentirono alcuni rombi, cupi e gorgoglianti, che gli fecero vibrare
le viscere.
Forse, un
altro temporale.
Lavi e
Deak presero in mano la borsa di cuoio, quella che avevano comprato
l’anno precedente per il primo anno di Junior Cycle, e attesero qualche istante,
con aria solenne. Si lanciarono un’occhiata di assenso, e dopo uno, due
secondi, la lasciarono andare.
Non gli ci
volle neanche un attimo. La borsa cadde con un sibilo acuto, limpido, e
colpì la terra con uno schianto assordante.
Il
cimitero tremò, e i gemelli caddero all’indietro, con
un’esclamazione di sorpresa e una di panico acuto nella voce,
aggrappandosi all’erba secca e ai vestiti di stoffa. Il terriccio
schizzò verso l’alto, ma lontano da loro, lontano persino dalla
chiesa, tirandosi dietro pietre e massi grossi come sedie. I fischi e i sibili
si fecero più forti, così tanto che l’aria calda dei
bombardieri sembrava liquefarsi e sfrigolare sotto il fuoco dei loro motori.
Lavi
alzò lo sguardo prima del fratello, così teso e rigido da
sembrare un pezzo di marmo. Vide gli aerei, e il loro marchio.
Tedeschi.
Il sangue
gli si gelò nelle vene, e al secondo scoppio prese a ribollirgli. Cadde
un’altra bomba, e improvvisamente anche lui rischiò di cadere di
nuovo.
« Lavi, muoviti! » gracchiò la voce di Deak,
mentre le sue mani fredde come il ghiaccio gli stringevano attorno al braccio,
intimandogli di correre. Lavi ansimò. Aprì la bocca, la richiuse
e deglutì, alzandosi in piedi e muovendo un paio di passi incerti, quasi
di corsa. Gli tremavano le ginocchia, ma si costrinse a non cadere.
Cadde
un'altra bomba, e un'altra ancora. Ma erano lontane, nonostante i bombardieri
della Luftwaffe continuassero a volare sopra le loro teste, e non
avrebbero ancora dovuto colpirli.
Il cuore
di Lavi batteva così forte che gli dava l’impressione di essergli
finito direttamente in gola. E la sciocca idea che, se si fosse fermato solo un
attimo l’avrebbe vomitato in mezzo alla strada, piegato in due sui
gradini della chiesetta morta, in quel momento non sembrava poi così
stupida.
Sentiva la
carotide pulsare, veloce e a ritmo dei suoi piedi che sbattevano per terra, mentre
il sudore del caldo di maggio gli solleticava la fronte, scivolando verso il
basso e bruciandogli gli occhi.
Deak, da
parte sua, aveva il cervello totalmente in panne. Sentiva una sola idea, acuta
e trillante come un campanello d’allarme, graffiargli le pareti del
cervello fino a farlo sentire male.
Scappa.
Era un
ordine tassativo, assoluto. Al singolare.
Strinse la
presa sul braccio del fratello e lo costrinse a correre più veloce,
respirando così con così tanta forza da sentirsi la gola bruciare.
Sarebbe andato in iperventilazione, continuando a quel modo.
Ma Deak
strizzò gli occhi, scosse la testa e non smise per un solo attimo di
muovere le gambe, che ormai sembravano andare per conto proprio.
Dopo pochi
secondi, si resero contro di essere tornati in città. Man mano che si
infilavano nelle stradine secondarie, quelle fatte di mattoni rossicci e case
vecchie quanto Dublino stessa, le persone cominciavano a farsi più
frequenti, a loro volta urlanti, spaventate, stringendo fra le dita bambini e
mogli, anziani e fucili del tutto inutili.
I gemelli
si fermarono per un solo istante, e ansimarono all’unisono. Aprirono la
bocca, presero fiato, boccheggiarono e espirarono con forza, in un rantolo
gorgheggiante.
Si
guardarono attorno, cercando di orientarsi –quel mucchio di macerie
fumanti laggiù non era forse la vecchia scuola?- e capirono di essere
nel North Wall.
Una
seconda volta Deak spronò Lavi a correre, perché
quest’ultimo era troppo impegnato a contare i fischi delle bombe su di
loro per pensare ad altro.
Non era
abituato alla violenza, di nessun tipo. Di solito non riusciva neanche ad
impedire a Billy Cow di rubargli la merenda all’intervallo del
martedì.
E in quel
momento si ritrovava a correre come un dannato verso casa, cercando di
strizzare gli occhi e voltare il viso di lato ogni volta che vedeva una chiazza
rossa vicino ad un corpo schiacciato del cemento, che, meschino, lasciava
intravedere solo un braccio a mano aperta e un gomito piegato in un angolo
innaturale.
Poi cadde
un’altra bomba.
E fu
così vicina e così improvvisa da sorprendere l’intera piazza,
mentre Deak riuscì solo a sentire l’urlo rauco di Lavi e la sua
mano che scivolava dalle sue dita, sudata e tremante.
Tese le
dita, artigliando l’aria senza successo, e poi scoppiò
un’altra bomba.
L’esplosione
fu così forte da fargli tremare le ossa, che sbatterono letteralmente
tra di loro in un scricchiolio doloroso e dal suono nauseante.
Le
orecchie presero a fischiargli, e all’improvviso si placarono, non
facendogli sentire più niente.
Deglutì,
rotolando su un fianco, e annaspò tra la polvere e le ceneri che
rischiavano di soffocarlo. Poggiò un gomito per terra, strizzò
gli occhi e poi li riaprì.
Respirò
piano una, due volte. Il cuore batteva forte, ma il suo respiro era lento,
costante, sicuro. Un po’ distante, poiché aveva le orecchie
tappate, ma comunque presente. Sembrava che qualcuno gli stesse alitando sul
collo, sfiorandogli la gola con una mano gentile e carezzandogli lo stomaco
allo stesso modo, fino a conficcargli le dita nella carne e stringergli le
budella in una morsa dolorosa.
Lavi sorrise
come un idiota, e scossa la testa.
L’aria
nei suoi polmoni si fece meno, e lui non si preoccupò di respirarne
altra. Si alzò invece in piedi, passandosi una mano tra i capelli, e
mosse qualche passo verso il fratello.
Poi, si
fermò.
Gli faceva
male la testa. No, non quella. Gli faceva male dentro, era il cervello stesso a
dolergli.
Lavi
rimase immobile.
Sentì
un altro fischio, sopra la sua testa. Un rombo cupo, segno che un altro
bombardiere tedesco aveva compiuto il proprio dovere.
Ma lui non
se ne preoccupò, e rimase immobile.
Poi, la
patina di fumo bianco che gli aleggiava davanti agli occhi svanì, di
colpo, e Lavi vide.
L’ultima
cosa che ricordò, prima di essere colpito dalle rocce frantumate, era il
suo urlo straziante, acuto come quello di un bambino non ancora divenuto uomo,
e un braccio teso a mano aperta.
Quello che
non ricordò mai, negli anni a venire, era un gomito piegato
all’indietro staccato dal resto del corpo.
† †
†
Erano
passati tre giorni.
Giugno era
arrivato rumoroso e assoluto come un temporale estivo, spazzando via Maggio con
una folata di vento e una secchiata di candida devastazione.
Il
corridoio del terzo piano era silenzioso, nonostante fosse appena mattino. I
passi delle infermiere risuonavano secchi e precisi, limpidi e sicuri. Il dottore
di turno quel giorno, un uomo sulla sessantina con la barba sfatta e lo sguardo
sempre serio, affiancava le due crocerossine dall’aria stanca ma comunque
ferma.
Erano
stati giorni impegnativi, quelli appena passati.
Il
bombardamento era stato fatto passare per un incidente, ma furono veramente
poche le persone che credettero a quella versione.
Per molti
le coincidenze non esistevano. Soprattutto quando si parlava di guerra.
Era appena
mattino, e l’aria era ancora fresca di notte. Il caldo sarebbe arrivato
più tardi, con calma, costringendo così i pazienti
dell’ospedale a spogliarsi delle lenzuola umide e pesanti.
Lui se le
teneva strette contro il petto, invece. Così come le ginocchia e le
braccia che le circondavano, Lavi teneva le dita serrate sulle coperte,
fissando con aria assente davanti a se.
Erano
passati tre giorni, per il mondo.
Lavi se ne
sentiva addosso almeno trecento.
C’era
Deak, seduto davanti a lui. Con le gambe penzoloni oltre il bordo del letto e
l’espressione distratta, mentre si fissava le punte dei piedi che
ondeggiavano all’andatura che decideva lui. Piegava il viso di lato, di
tanto in tanto, e lo scrutava.
« Ohi, Lavi. » disse
all’improvviso, così come faceva ogni volta che si trovavano soli.
Ma lui non rispose, limitandosi a fissarlo. Gli doleva dappertutto.
Allora
Deak gli si avvicinò, sbuffando, e gli posò una mano sul viso,
vicino l’occhio destro. Lavi si perse il movimento a metà strada.
« Ti
fa male? » domandò il fratello, con una nota di preoccupazione
nella voce. Corrucciò lo sguardo e lo scrutò di soppiatto,
sospirando ancora una volta.
Chissà
cos’era, quella cosa che gli pesava sul cuore e lo faceva soffrire
così.
Lavi
scosse la testa, mentendo. L’occhio gli bruciò
all’improvviso e prese a lacrimare, contro la sua volontà, ma
probabilmente Deak non se ne accorse, perché c’erano le bende a
fasciare la parte destra del viso.
Gli era
arrivato un sasso in pieno volto, quel giorno. Se l’era cavata con poco,
gli avevano detto i medici senza l’ombra di un sorriso sul viso stanco.
Lavi aveva
fatto spallucce, tornando a fissare la finestra, e non aveva più
prestato attenzione alle loro parole.
Deak
sbuffò ancora una volta, in modo infantile e del tutto fuori luogo, e
salì del tutto sopra il letto del fratello. Ritirò il braccio e
piegò il viso di lato, tra il curioso e il perplesso. « Che fai,
il duro? »
L’altro
abbozzò una smorfia, sinceramente seccata, e lo fissò scontroso.
« Che fai, il vivo? »
Deak
inarcò entrambe le sopracciglia, sorpreso. « Ti da’
fastidio? »
« Sì.
» replicò Lavi, distogliendo lo sguardo e stringendosi le
ginocchia al petto. « Sei morto, quindi adesso lasciami in pace. »
L’altro
sospirò, ancora una volta, e si grattò distrattamente il fianco
sinistro, quello senza braccio. Lavi strizzò l’occhio rimasto per
non guardarlo.
«
Non l’ho fatto apposta… » tentò di giustificarsi,
anche se senza troppo impegno. Era strano come apparivano poco importanti le
cose, da morto.
Lavi
sembrò sul punto di piangere, e il petto gli tremò a
testimoniarlo.
«
L’avevamo promesso. » gracchiò, continuando a tenere
l’occhio sano serrato. « Lo so che non l’hai fatto apposta,
ma l’avevamo promesso. »
singhiozzò, e in quel momento la porta della camera si aprì
lentamente. « Sei uno stupido… » mormorò ancora il
fratello vivo, deglutendo e premendo la schiena contro la parete fredda
dell’ospedale.
Il dottore
entrò nella stanza, a passi lenti. Lanciò un’occhiata
all’unico ragazzino presente, che sembrava stesse per piangere, e si
passò una mano sul viso, stancamente.
Odiava
quell’aspetto del suo lavoro.
Poi si
schiarì la gola, e raggiunse il letto in fondo alla stanza. «
Lavi. » chiamò piano, cercando di sembrare amichevole. Non
provò neanche a sorridere.
Quello
alzò lo sguardo, titubante. Non parlò, ma attese che lo facesse
l’altro. Il giovane medico si costrinse a non sospirare, e quasi ci
riuscì.
Poi, con
un gran bel giro di parole, disse al ragazzino che la casa dei suoi genitori
era stata presa in pieno da una bomba.
Erano
morti entrambi.
† †
†
Era la
stessa sensazione di quel giorno.
Gli faceva
male il cervello. Lo sentiva scricchiolare, gemere, sibilare e contorcersi
dentro la sua testa, come un animale selvatico in preda alle convulsioni.
Lavi aveva
lo sguardo fisso, e camminava a passo sicuro. Scavalcò una roccia, si
aggrappò ad un ramo e non ansimò neanche una volta.
Era notte,
ma ci vedeva lo stesso, grazie alla luce della luna che gli tingeva i capelli
di argento e ombre nere.
Deak lo
seguiva, in silenzio e senza il minimo sforzo, con l’unica mano ficcata
nella tasca dei pantaloni. Sospirava, di tanto in tanto, e scuoteva la testa.
Lavi era
scappato dall’ospedale, ancora una volta. Era la terza nel giro di una
settimana. Era tornato nel boschetto vicino alla chiesetta, aggirando la
città per non farsi vedere –un ragazzino fasciato come una mummia
non passava poi così inosservato, neanche dopo un bombardamento aereo- e
aveva preso ad attraversare anche quello, senza un motivo preciso.
Dopo un
po’ Deak sospirò, alzò gli occhi al cielo e gli si
piazzò davanti. Lavi si fermò di botto, non essendo abituato
all’idea che avrebbe potuto tranquillamente passare attraverso il
fratello, per quanto ne poteva sapere.
«
Ohi, Lavi. » sbottò quello, fissandolo afflitto e un po’
titubante. « Ci prenderemo un malanno, così. » si
passò distrattamente una mano sulla spalla -quella dove mancava il
braccio- come a tenersi caldo. « Fa freddo, qua. » aggiunse.
L’altro
chiuse gli occhi, inspirò piano e li riaprì. « Deak, sei
morto. Non puoi ammalarti. »
« Tu
sì. »
Touché.
«
Non ha importanza. » replicò Lavi, passandosi stancamente una mano
tra i capelli. Sembrava essere diventato così adulto tutto d’un colpo, constatò Deak. Poi vide
l’occhio sano offuscarsi per via delle lacrime e si ricredette,
abbozzando un sorriso intenerito.
Posò
una mano sulla spalla dell’altro, poi sul collo e vicino la nuca, cercando
il suo sguardo con il proprio. « Ohi, Lavi… » chiamò
ancora una volta, a bassa voce.
L’altro
ci mise un po’, titubante, ma alla fine lo guardò.
« Ti
ricordi la promessa? »
«
… sì. Quella che tu non hai mantenuto. »
Suo
malgrado, Deak ridacchiò, piegando il viso di lato per nascondere un sorriso
sghignazzante. « Esatto, proprio quella. »
«
Mh. » mugugnò il fratello vivo. « Quindi? »
«
Quindi ne facciamo un’altra, ti va? »
Lavi non
rispose.
«
Anzi, devi farne tu una a me. » precisò il ragazzo senza braccio.
« Ti va? »
Ancora una
volta, Lavi non rispose. Si limitò ad osservare l’altro, in
silenzio, con un senso di nausea che gli premeva contro la gola. Gli pizzicava
fastidiosamente l’occhio sinistro.
Allora
Deak gli si avvicinò ancora, fino a poter toccare la sua fronte con la
propria. Chiuse gli occhi, e Lavi continuò a fissarlo.
« Vivi. » disse allora, senza un attimo di
preavviso. « Per me. Vivi. Semplicemente questo. »
Qualcosa
frusciò tra gli alberi, ma nessuno dei due si mosse. Era un momento
troppo doloroso e troppo crudele per poter essere disturbato da semplice paura
infantile.
«
Gira per il mondo, fai amicizia con le persone che io non potrò mai
conoscere. Ricorda tutto, non lasciare che neanche un dettaglio ti sfugga. Vivi
la tua vita e poi vienimela a raccontare, Lavi. Vivi vivi vivi. »
Il corpo di
Lavi ebbe un fremito. Poi un altro, e un altro ancora.
«
Deak… » aveva la voce roca, un nodo alla gola che sapeva di pianto.
Deak quasi
rise, senza felicità, forse un po’ incredulo. « No, non
piangere. » sospirò, e tornò ad essere serio. « Sorridi.
Come facevo io, okay? » e, come per rendere più effettive le sue
parole, sorrise una seconda volta, tranquillo, con gli occhi ancora chiusi.
« Divertiti, goditi la vita, » gli passò una mano tra i
capelli, lentamente « e non pensarmi. Dimenticati di me e non pensare al
passato. Ricorda tutto quello che vedrai, con quest’unico occhio, ma non
lasciarti condizionare da nulla. Non ne vale la pena. »
Cominciava
a fare davvero freddo. Ma la pelle di Lavi scottava, così come la sua
fronte.
«
Per favore. »
Lavi
rimase in silenzio, limitandosi a respirare piano, lento. Si sentiva morire. Le
ginocchia tremare e le viscere stringersi nello stomaco.
Poi il
fruscio divenne più insistente, e all’improvviso smise del tutto.
Il
ragazzino vivo si voltò verso il rumore, teso come una corda di violino.
Avrebbe potuto spezzarsi da un momento all’altro.
C’era
un uomo, che lo fissava. Era più basso di lui, e lo fissava serio, si
poteva vedere perfettamente nonostante l’oscurità del bosco. Lavi
lo conosceva bene, anche se forse non poi così tanto come credeva.
L’aveva visto spesso a casa loro, e i genitori lo avevano presentato come
un parente lontano.
Si chiese
distrattamente come mai fosse lì, proprio in quel momento. Forse lo
avrebbero affidato a lui –dopotutto, chi altri gli restava?- ed era
semplicemente andato a cercarlo.
Deak
rimase in disparte, limitandosi a borbottare, con un mezzo sorriso, un paio di
parole.
Ci fu un
attimo di silenzio, e non accadde nulla.
Poi la
corda si spezzò.
E Lavi
scoppiò a ridere, all’improvviso, facendo scappare in tutta fretta
un paio di grassi corvi che si erano appollaiati sui rami degli alberi. Con
forza, acuto come il bambino che ormai non era più, in modo sciocco e
superficiale.
Poco dopo
il ragazzino vivo si asciugò una lacrima solitaria, sentendosi
improvvisamente libero –così vuoto da poter essere ormai qualunque
cosa, tranne che se stesso- e sorrise nuovamente all’uomo, cercando di
trattenersi a stento.
Gli
tornò in mente il discorso che il fratello gli aveva appena fatto, - « Per favore » - e lo
comprese. Poi ripetè le sue parole, tuttavia senza la nota maliziosa con
cui le aveva pronunciate l’altro, e trattenne malamente una seconda
risata.
« Ne, vecchio panda! » chiocciò alzando una mano
verso l’alto, chiamando l’anziano come sapeva odiava essere
definito.
Lavi non
era mai riuscito a chiamarlo a quel modo, troppo educato e timoroso anche solo
per pensarlo.
Suo
fratello, invece, non faceva altro.
Vivi vivi vivi.
Con quelle
parole, Deak aveva ucciso Lavi.
Once more, with feeling.
End
Note tecniche:
Áth
Cliath = Nome irlandese con cui viene chiamata Dublino
Junior
Cycle = sarebbe la nostra seconda o terza media, ma il sistema scolastico
irlandese è differente da quello italiano. Deak e Lavi frequentano la
prima classe, che si inizia all'età di 13anni.
"Buachaillí!" = "Ragazzi!"
"Sea,
mamaì!" = "Si, mamma!"
Guinness =
E' una famosa birra irlandese
Pudding =
E' il budino. Quello a cui si riferisce la madre è il Plump Pudding,
ovvero il budino con i canditi.
“Bráthair?”
= “Fratello?”
Luftwaffe = E’ l’attuale aeronautica militare della Germania.
North Wall = E’ un quartiere operario situato nella parte
settentrionale del centro città.
Altre note:
° Il
31 Maggio 1941 era davvero un sabato. La storia si basa su un reale fatto storico.
° Gli
Irlandesi non chiamarono la seconda guerra mondiale “guerra”, essendo rimasti neutrali, bensì “emergenza”.
° Il
quartiere bombardato dalla Luftwaffe fu proprio il North Wall.
° La
bambina della tomba che trovano Deak e Lavi è, teoricamente, Lala. E il
pupazzo orribile che si porta appresso rappresenterebbe Gsor. Ho scritto che
è morta di “crepacuore” per via del mondo in cui
l’Akuma le ha strappato l’Innocence.
° Il
titolo viene dalla soundtrack del musical di Buffy.
° Oscar Wilde era, come molti sapranno, nato a Dublino.
Note personali:
Ovviamente,
io non conosco l’irlandese. Quindi probabilmente ho tirato qualche
cazzata, ma spero di no. In più, mi scuso per le imprecisioni che con
ogni probabilità ci saranno, ma non avendo partecipato all’evento
non ho potuto fare di meglio xD Ho pregato che qualcuno mi bombardasse il
giardino, ma non è successo .__. Mi sono affidata ai ricordi dei film (nonché
alla grande opera Salvate il soldato
Jimmy) e un po’ all’immaginazione (ma anche a Call of Duty,
diciamocelo), quindi speriamo bene.
Vorrei
fare una piccola precisazione riguardo Lavi e Deak, visto che, per molti, probabilmente
saranno considerati OOC. Sembrano che si siano scambiati i ruoli, vero? Beh,
alla fine, quei due sono la stessa persona (non in questa fic, dico nel manga)
quindi se uno si comporta in un modo, è come se l’avesse fatto
anche l’altro. In più, questa fic è come se descrivesse il
processo che ha portato Lavi ad essere quello che è, ovvero un coglione
che sorride sempre.
In ogni
caso, io l’ho detto che mi stavo fissando su Deak xD Quindi, suppongo che
la fic non potesse finire che in questo modo °_°