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Autore: Edward    19/07/2009    8 recensioni
[Lavi - Deak]
Poi rimasero immobili, a fissare verso il basso. La macchia rossa si allargava lentamente, tendendo i propri tentacoli viscosi come fili di ragnatela.
Deak chiuse gli occhi, e non disse più nulla.
[Lalala... ♫]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Deak, Rabi/Lavi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Il tuono scoppiò così forte e così a lungo che gli fece tremare le ossa che aveva in corpo

Titolo: Once More With Feeling
Fandom:
D.Gray-man
Personaggi:
Lavi – Deak

Pairing: //
Genere:
Drammatico, Angst
Rating:
Arancione
Avvertimenti:
Non per stomaci delicati, Alternative Universe, One-shot
Note:
E’ stato un vero e proprio suicidio. Spero piaccia, nonostante tutto, nonostante non piaccia a me.  Nonostante il mio umore al momento faccia schifo. Voglio la fottuta voce “Deak” tra i personaggi. Cazzo.

° Fiction iscritta al Contest “History indetto da Dike_Nike [2° Classificata]

° Fiction iscritta al 2nd Contest di Fanfiction indetto dal forum AllD.Gray-man [1° Classificata]

 

 

 

 

 

 

Once More With Feeling

 

 

« For each man kills the thing he loves »

[The Ballad of Reading Gaol]

  Oscar Wilde

 

 

 

 

Il tuono scoppiò così forte e così a lungo che gli fece tremare tutte le ossa che aveva in corpo.

Gli si strinse lo stomaco in una morsa d’acciaio, così come gli si chiusero gli occhi senza che se ne rendesse conto. Eppure il lampo lo aveva visto chiaramente, giusto un attimo prima, avrebbe dovuto essere pronto.

Il ragazzino strusciò i talloni contro le tegole rosse e strinse le ginocchia contro il proprio petto, chinando il viso in uno scatto nervoso. I capelli rossi oscillarono e gli finirono davanti, a pizzicargli la punta del naso.

Poi tutto smise di tremare –la casa, il suo cuore- e lui si azzardò ad aprire un occhio verde smeraldo. Prima uno, poi l’altro.

« Mhh…» mugugnò una voce alla sua destra, un po’ incerta. « Deak? » domandò poi, mentre quest’ultimo lasciava scivolare nuovamente le gambe verso il basso e si voltava verso la finestra.

Deak non rispose, ma fece segno al fratello, affacciato dalla loro camera, di raggiungerlo. Quello guardò dietro di se, poi a destra, e infine a sinistra. Scavalcò la finestra, un po’ a fatica, e si sedette affianco all’altro, sul tetto della casa.

« Era un tuono? » domandò ancora la stessa voce, lanciando un’occhiata distratta sotto di loro, adocchiando qualche metro più sotto il vialetto di casa.

Non era poi così alto.

Deak annuì, e sospirò silenziosamente, a bocca chiusa. « Chissà. » rispose, alzando lo sguardo verso l’alto. « Forse hanno bombardato un’altra città... » mormorò, sovrappensiero.

Lavi fu tentato di imitarlo, ma decise di non farlo. Si mise invece a fissare il fratello, titubante.

Non gli piacevano le guerre.

Certo, il loro paese non era coinvolto direttamente, ma…

« Che facevi? » domandò dopo un po’, lasciando che un altro cupo rombo facesse nuovamente vibrare i vetri della casa.

Era un venerdì sera dalle tonalità chiare e dall’aria fresca, e l’ora di cena non era ancora arrivata nell’Áth Cliath. Sembrava che dovesse piovere da un momento all’altro.

Lavi aveva fame, come poteva testimoniare il brontolio che proveniva dal suo stomaco, ma non lo disse ad alta voce. Solitamente era un asso nel parlare delle cose più inutili, ma ultimamente non gli riusciva poi così bene.

Non gli piacevano le guerre.

Deak attese qualche attimo, prima di rispondere. Quando lo fece, piegò il viso di lato, abbozzò un sorriso infantile e ridacchiò.

« Guarda. » rispose, cominciando a tastarsi le tasche della giacchetta. Non trovando quello che cercava passò a tastarsi la camicia bianca, e poi ai pantaloni di stoffa. Il fratello lo osservò per tutto il tempo, curioso, mentre si voltava del tutto verso di lui e incrociava le gambe. Posò i gomiti sulle ginocchia, sbattè le palpebre un paio di volte e poi trattenne il fiato.

« Ma quello… » cominciò, strabuzzando gli occhi.                

« Si! » chiocciò l’altro, tirando fuori dalle tasche dai pantaloni un pacchetto di sigarette un po’ accartocciato e un po’ rotto. « E’ di papà! » continuò il ragazzino, sorridendo. «Gliel’ho preso questa mattina, non se ne è neanche accorto! »

« Mhhh… » mormorò Lavi. Nonostante l’eccitazione del fratello, lui non era del tutto convinto di dover essere contento per una cosa del genere. Quindi in quel momento era indeciso se essere ammirato o spaventato.

Deak evidentemente rimase deluso da quella reazione, perché smise di sorridere e sbuffò, roteando gli occhi al cielo. « Andiamo, siamo al primo anno della Junior Cycle, non puoi scandalizzarti per una cosa del genere. » si lamentò, scuotendo la testa e posando il pacchetto di sigarette sopra una tegola rotta del tetto, quella su cui era caduto proprio lui qualche settimana prima.

Lavi arricciò le labbra in una mezza smorfia, piegando il viso di lato e strusciandosi una guancia contro la spalla. « Lo sai che non mi piace l’odore. » sbottò, sulla difensiva. « Mi fa venire la nausea. »

Per tutta risposa, l’altro ragazzino sbuffò. « Okay, okay. » tagliò corto, riprendendo a fissare le stelle.

Non si erano neanche accorti che il cielo avesse smesso di tuonare.

« Buachaillí! » chiamò all’improvviso una voce sotto di loro, calda e un po’ bassa così come avevano imparato a riconoscerla i due gemelli. « Ragazzi, è pronta la cena! » continuò quella, mentre entrambi si sporgevano oltre il tetto per vedere una donna agitare un braccio nel richiamare la loro attenzione. « E levate quei culi da lì, subito! Rischiate di rompervi l’osso del collo, e poi sono io quella che deve venirvi a raccogliere con il cucchiaino! »

« Sea, mamaì! » chiocciò Deak nell’alzare una mano verso l’alto, con un sorriso divertito sulle labbra. Poi si girò verso il fratello e gli fece segno di muoversi, rivolgendogli uno sguardo eloquente. « Tu non avevi fame? » gli fece notare, così che l’altro annuì, un po’ incerto. Lui, però, non glielo aveva mica detto.

Anche se a Deak piaceva, Lavi non apprezzava per niente il modo di esprimersi della madre. Lo spaventava, ecco.

Rientrarono entrambi in casa, passando dalla finestra della propria camera, e scesero veloci le scale per raggiungere la piccola cucina.

I passi risuonarono contro il legno dei gradini, e poi si spensero del tutto.

 

 

 

Era l’ora di cena, e le posate sbattevano pacatamente contro le ceramiche, a ritmo di conversazione. Intanto, il vecchio televisore poggiato contro la parete sfrigolava e trasmetteva le notizie più e meno importanti della giornata.

Della settimana. Parlando del mondo, dell’emergenza.

Il Signor Healy, padre dei gemelli, sedeva a capotavola e osservava in silenzio lo schermo lucido dell’apparecchio, sorseggiando distrattamente la propria birra scura, una Guinness fresca di frigo.

Neanche a lui piaceva la guerra, ma alla fine ci si era dovuto abituare. Bombardamenti lontani, vicini, aerei di passaggio che spaventavano le persone comuni e i comandanti di Divisione.

L’Irlanda non era entrata in guerra, ma poco contava.

Lanciò un’occhiata lenta al lato del tavolo, vedendo i figli parlottare tra di loro –uno agitava di tanto in tanto le mani e sorrideva eccitato, probabilmente Deak- e poi osservò la moglie servire con cura lo stufato che non piaceva né a lui né a Lavi, quello con le cipolle e le patate.

« Ma mamma… » si lagnò il ragazzino, imbronciando il viso e fissando la madre con aria afflitta. Lei roteò gli occhi verde scuro verso l’alto e sospirò, posando la pignatta di terracotta sul bordo del tavolo. Si avvicinò al figlio e gli si inginocchiò affianco, posando una mano sulla sedia e una sulle sue ginocchia. Lavi si girò, e lei sorrise piano. « Se mangi tutto lo stufato, » cominciò, in una specie di trattativa altamente professionale « prometto che dopo ti porto una tazza un po’ più grossa di Pudding, okay? »

« Mhhh… » l’altro arricciò le labbra e sembrò rifletterci su, incerto, mentre al di sopra della sua spalla destra si affacciava il fratello. Quello cominciò a scrutare la madre con un’espressione indecifrabile, senza aprire bocca.

Lei sospirò, rassegnata. « Okay, ne darò anche a te. » concesse.

Poi rimase in silenzio. E senza dire una parola, si voltò lentamente verso il marito, notando come la stesse fissando a sua volta.

Allora la donna scoppiò a ridere, incredula, e si alzò in piedi con un movimento fluido e un po’ brusco delle gambe. « D’accordo, d’accordo! » sbottò, alzando le mani in segno di resa « Ma mangiate tutto, dannazione, mi sono fatta venire i calli alle mani a forza di tagliare tutta quella roba! »

Tornò dalla pignatta che aveva lasciato sul tavolo e finì di servire i piatti, lanciando un’occhiata veloce al marito –lo vide sorridere divertito- e sospirò piano.

Nonostante tutto, le piaceva quel modo di fare. Sapeva di casa, di famiglia.

Posò il pentolino sui fornelli, si pulì le mani sullo strofinaccio appeso e si sedette vicino a Deak, scompigliandogli distrattamente i capelli.

Lui sorrise di rimando.

Le piaceva davvero, quell’aria di casa.

 

 

† † †

 

 

Quando tutta la famiglia finì di mangiare, il buio fuori dalla casa si era fatto più pressante di quanto avrebbe dovuto.

Poi era venuto il momento di andare a letto, e a quel punto nemmeno le stelle si vedevano più in cielo.

Quando Healy Junior si svegliò, da solo nel proprio letto sfatto, non si rese conto subito di averlo fatto. Sbattè prima le palpebre, piegando il viso di lato, e richiuse gli occhi. Si girò su un fianco, posandosi un braccio sul viso, e li riaprì.

« … bráthair? » domandò con un filo di voce, un po’ assonnato. Suo fratello non c’era. Non affianco a lui, almeno. Non a tentare di farlo cadere dal letto nell’incoscienza del sonno, non a posargli una gamba contro il fianco mentre si rigirava tra le lenzuola.

Non era affianco a lui, ma seduto sul tetto della casa, ancora una volta. Aveva lasciato la finestra aperta e fissava il cielo, in silenzio. Con le gambe incrociate e i gomiti poggiati sulle ginocchia.

Deak rimase a fissarlo in silenzio, mentre a poco a poco la pesantezza del sonno andava sfilandosi, come fili di fumo di una sigaretta che bruciava con troppa forza.

Poi sbattè le palpebre un paio di volte, e si mise a sedere. Le coperte scivolarono per terra, con un lieve fruscio. Scese dal materasso, posando i palmi delle mani contro di esso, e percorse lentamente la distanza che separava letto e finestra.

Poggiò i gomiti contro il legno e allungò le braccia, stiracchiandosi silenziosamente.

« Lavi? » chiamò a bassa voce. « Che fai? »

Deja-vu.

E il gemello si voltò a guardarlo, tra il pensieroso e l’incerto. Non rispose, attese qualche istante e tornò a fissare il cielo.

Respirava piano, con la bocca appena dischiusa, e non si muoveva. Deak lo scrutò a sua volta, fino a quando non decise di salire nuovamente sul tetto, come qualche ora prima.

« Ohi. » chiamò ancora una volta, limitandosi a rimanere sul bordo della finestra. Piegò il viso di lato e attese una qualche risposta.

Il silenzio rimase tale per un breve minuto, interrotto di tanto in tanto da qualche scoppio lontano e qualche risata acuta più vicina, rumori di sottofondo di una città che troppo spesso non dormiva di notte.

C’era odore di erba bagnata, nell’aria. C’era odore di notte e luci spente.

« Ho sognato, » cominciò all’improvviso Lavi, con voce chiara e forte, seppur non troppo alta « di morire. » Si alzò un soffio di vento, che scompigliò i capelli rosso fuoco di entrambi. « Ho sognato, » riprese a parlare il ragazzino, con calma « che c’era la guerra. »

Deak rimase in silenzio, ascoltando il fratello con pacata attenzione. Sapeva di dover comportarsi in quel modo, un po’ perché non aveva nulla da dire, un po’ perché probabilmente Lavi aveva semplicemente bisogno di parlare con qualcuno di quello che sentiva.

Deak lo sapeva, che c’era la guerra. Lo sapevano tutti.

« C’era… » la voce dell’altro tornò ancora una volta, e si smorzò. Poi riprese, e riprese anche il vento. « Ero solo, sai. C’erano le bombe. Scoppiavano, tutte attorno a me, e… » ritirò le gambe contro il petto, e chinò il viso. « c’erano i proiettili. C’erano i morti, c’era il sangue, c’era… » per un attimo la voce gli si spense, contro la sua volontà, e lui non disse più nulla. Si perse in un fremito che sapeva di panico.

Non sembrava sul punto di piangere, si rese conto Deak. Sembrava più che altro arrabbiato, per qualche motivo che non riusciva a capire.

Lavi sospirò, e chiuse gli occhi, premendo la fronte contro le ginocchia.

« Deak. » disse poi, voltandosi a guardarlo, lentamente. Aprì la bocca per dire qualcosa, ebbe ancora una volta un attimo di incertezza e la richiuse senza dire nulla.

Quello gli si avvicinò, sentendo subito il vento premergli contro la pelle nuda. Abbozzò una smorfia e si avvicinò al gemello. « Ohi, Lavi. » sbottò, a bassa voce. « Era solo un sogno. » cercò di fargli notare, nonostante sapesse che non sarebbe servito a nulla.

Perché quello che Lavi aveva visto andava ben oltre il normale sogno. Deak se lo sentiva dentro, nello stomaco. Nelle viscere che gli si stavano rimescolando così silenziosamente da sembrare serpi striscianti.

L’altro non rispose, e continuò a fissarlo. Tra lo speranzoso e lo scoraggiato. Allora Deak sospirò, passandosi una mano tra i capelli.

« Lavi… » mormorò, scuotendo la testa. Gli si avvicinò ancora un po’, alzando appena una mano per posargliela vicino all’orecchio, come a volergli confidare un grande segreto. Attese un attimo, come incerto, e vide come l’altro si tendesse tutto, aspettando quello che lui gli avrebbe detto.

Deak abbassò lo sguardo, prese fiato e lo scrutò con la coda dell’occhio. « … mi sa che hai mangiato troppo Pudding. » gli sibilò, con estrema serietà.

Poi non successe nulla.

Finchè Lavi non si voltò a guardarlo, tra l’incredulo e l’offeso –con una nota divertita e una delusa nello sguardo- e non lo scostò bruscamente, aprendo la bocca indignato.

« Che palle, Deak! » cominciò a lagnarsi, guardando distrattamente come il fratello cadesse contro le tegole del tetto e rimanesse immobile, ghignando come un idiota. « Era una cosa seria! »

Poi, entrambi chinarono lo sguardo. Quasi in contemporanea, senza farci minimamente caso.

« Era una cosa seria… » mormorò nuovamente Lavi, voltandosi a guardare da un’altra parte.

Il vento aveva smesso di soffiare, così come i tuoni avevano smesso di scoppiare.

E all’improvviso Deak tese una mano, afferrando quella del fratello. « Vieni. » gli disse, senza dargli tempo di replicare. Lo trascinò nuovamente in casa, nella loro cameretta, e salì in piedi sul letto. Quello cigolò sotto il peso di entrambi e poi rimase immobile. « Aspetta qui. » continuò il ragazzino, mettendosi prima seduto e poi sdraiato, affacciandosi oltre il materasso per allungare entrambe le braccia sotto le assi del letto.

Lavi lo osservò frugare tra i loro giocattoli di legno per un po’, forse deluso.

Ci aveva sperato davvero, per una volta.

Aveva sognato, quella notte. Aveva sognato la guerra, le bombe, i soldati morti. Aveva sognato.

Deak e Lavi non sognavano mai.

Sospirò, e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, Deak gli stava sventolando davanti al naso un pezzo di carta giallognola, sorridendo sicuro. Aveva anche una penna, stretta fra le dita.

« Facciamoci una promessa. » chiocciò, e per un istante Lavi non riuscì a collegare. Sbattè le ciglia e lo fissò dubbioso. « Ci facciamo una promessa e la firmiamo, okay? » continuò il fratello, annuendo nella speranza che lui lo imitasse.

« Mhh… » mugugnò, titubante l’altro. Non riusciva a capire dove volesse andare a parare Deak. « Che tipo di promessa? » azzardò, sperando di non sbilanciarsi troppo.

« Una promessa da adulti, ovvio! » cominciò a spiegare Deak, agitando il foglio e poi premendolo contro il letto. « Ci scriviamo quello che vogliamo, la firmiamo con il sangue e poi la nascondiamo! »

« Con il sangue? » domandò con voce strozzata Lavi, colto alla sprovvista.

Deak annuì, e ridacchiò. « Una goccia, eh, non ti sto mica chiedendo un rene. »

« Eh, vorrei vedere.. » borbottò in risposta lui, distogliendo lo sguardo. Poi sospirò, rassegnato. « Cosa dobbiamo prometterci? »

« Non morire. »

Lavi smise di respirare. Non è che gli si bloccò il respiro in gola, suscitando così quel fastidioso rumore di risucchio. Semplicemente, per un attimo soltanto, Lavi si dimenticò di respirare. « Cosa? »

« Non morire, Lavi. » continuò Deak, fissandolo improvvisamente serio. « Non morire, e non lo farò neanche io. » gli si avvicinò appena, e posò entrambe le mani sulle sue. « Anche se c’è la guerra. Anche se ce ne sarà un’altra, anche se ce ne saranno centinaia ancora –gli esseri umani sono degli stupidi, lo sappiamo. Non sanno fare altro che guerra guerra guerra- noi due resteremo insieme. »

Attese un attimo, poi chinò il viso. Strinse la presa sulle mani del fratello e poi tornò a guardarlo, così serio e  disperato che per un attimo Lavi credette che quello sguardo fosse colpa di un gioco di luci. « Okay? » domandò la voce sottile di Deak, e i dubbi dell’altro svanirono come uno sbuffo di fumo nel cielo di una notte estiva.

Lavi rimase in silenzio, sentendosi improvvisamente colpevole.

Non credeva che…

Annuì. « Okay. » Tese una mano, sfilandola dolcemente dalle dita del fratello, e afferrò piano il pezzo di carta. « Resteremo insieme. »

« Qualsiasi cosa accada. » precisò Deak, respirando piano.

« Qualsiasi cosa accada. » concordò Lavi, annuendo ancora una volta.

 

Passarono le seguenti due ore a scrivere su quel vecchio pezzo di carta ingiallita. L’aria si era fatta meno pesante, e sembrava andare nuovamente tutto bene.

Scrissero regole e punizioni, scrissero accordi e trattative. Lo fecero tra bisbigli e borbottii, sotto il fresco delle lenzuola, e quando ebbero finito firmarono, macchiando persino il materasso di inchiostro.

Scrissero i rispettivi nomi, uno sopra e l’altro sotto, e poi presero il vecchio coltellino da caccia che il padre gli aveva regalato qualche estate prima. Non aveva una gran lama, ma riuscirono comunque a far cadere qualche goccia di sangue sopra la carta, senza sporcare ulteriormente il letto.

Poi rimasero immobili, a fissare verso il basso. La macchia rossa si allargava lentamente, tendendo i propri tentacoli viscosi come fili di ragnatela.

Deak chiuse gli occhi, e non disse più nulla. Afferrò il foglio e scese dal letto, si guardò attorno e poi decise di nasconderlo in una borsa di cuoio sgualcito.

« Lo seppelliamo domani. » disse con voce sicura al fratello, annuendo convinto. « Finita la scuola, andiamo vicino al boschetto dietro la chiesa e lo seppelliamo. »

Sembrava un piano perfetto.

Lavi annuì, e attese che il fratello tornasse affianco a lui, sul materasso cigolante.

Poco dopo, andarono a dormire.

« Buonanotte... » disse lui, fissando Deak un po’ preoccupato.

« ‘notte. » rispose l’altro, con gli occhi già chiusi e il respiro lento.

Infine, con la finestra ancora aperta e un pulsare lento sull’indice della mano destra, entrambi si addormentarono.

E, entrambi sognarono.

Che cosa, non lo ricordarono mai.

 

 

† † †

 

 

Era sabato.

Deak teneva le braccia alte, perpendicolari al corpo, e camminava non troppo velocemente sul muretto di pietre bianche. Passo, passo, balzello e ancora passo.

La borsa di cuoio scuro gli ondeggiava a ritmo di andatura, lungo il fianco, e sbatacchiava silenziosamente contro le sue gambe di tanto in tanto.

Lavi gli stava affianco, in silenzio, e camminava sulla stradina fatta di terra e erbacce. Aveva caldo, e il colletto della camicia gli stringeva la gola.

Stavano costeggiando la chiesetta mezza rotta a cui nessuno andava più, e ne avevano appena raggiunto la facciata posteriore.

Quella dove c’era il boschetto. E, proprio tra i primi alberi e l’ultima vetrata raffigurante la Vergine Maria, c’era il cimitero.

Lavi, suo malgrado, storse il naso.

« Allora, » disse invece il fratello, scendendo con un balzo a sedere e lasciando ondeggiare le gambe con forse un po’ troppa forza. « lo facciamo? » domandò quasi eccitato, come se fosse del tutto dimentico della sera prima. Del vero motivo per cui erano in quel posto.

Lavi annuì, e sospirò come rassegnato.

« Okay. »

« Scegli la tomba. »

«… cosa? »

« Scegli la tomba. »insistette Deak, stringendosi nelle spalle con noncuranza. Era davvero bravo in quel genere di cose.

« Erh… » Lavi indugiò. « Credevo che volessi seppellirlo... » indicò il boschetto, che sembrava osservarli in un silenzio rispettoso e un po’ incuriosito « beh, . »

L’altro sorrise, come se non aspettasse altro. « Ho cambiato idea. » scese con un secondo balzo dal muretto e si sfilò la borsa, porgendola poi al fratello. « Su, scegline una. Un posto dove non potranno mai trovarla. » continuò a parlare, convinto.

« Oh, andiamo, ma chi vuoi che venga qui, non ci seppelliscono più neanche i morti… » si lagnò Lavi, scuotendo la testa.

Deak scoppiò a ridere, con una voce forse un po’ troppo acuta e incontrollata, come quella di un bambino. Poi si calmò e prese a sghignazzare sommessamente, nascondendo il viso dietro una mano un po’ abbronzata. « E’ per questo che la seppelliamo qui. » spiegò. « Proprio perché non ci viene nessuno! »

Effettivamente, concesse l’altro, aveva una sua logica.

« Resta comunque inquietante. » sbottò Lavi dopo un po’, sospirando. « E poi, perché cavolo devo sceglierla io? » domandò sospettosamente, assottigliando lo sguardo e poggiandosi le mani sui fianchi.

Il fratello ridacchiò ancora una volta, e si strinse nelle spalle. « Possiamo giocarcela alla morra cinese, se preferisci. » e gli mostrò una mano a pugno chiuso, come a volergli rammentare come funzionava il gioco. « Però chi perde dissotterra un cadavere, okay? »

A Lavi andò di traverso una boccata d’aria. « Cosa? »

Deak rise e scosse la testa, lo prese per un braccio e lo costrinse a seguirlo. « Okay, okay, non fa niente. Lo facciamo non appena torna quel tuo amico inglese dal militare. » cercò di tranquillizzare il fratello, anche se la cosa non gli riuscì particolarmente bene. « Se sopravvive alla guerra, ovvio. »

Nonostante le proteste di Lavi, si fermarono davanti ad una tomba, una delle prime.

« Che ne dici di questa? » domandò Deak, indicandola e lasciando andare la mano dell’altro. Quello si morse un labbro, piano, e si piegò in avanti. Sospirò.

Era di una bambina, gli sembrò di ricordare, anche se non l’aveva mai conosciuta di persona. Era straniera, forse italiana. Girava sempre con un bambolotto orribile tra le mani.

Era morta di crepacuore.

Lavi scosse la testa.

Allora si allontanarono entrambi, e lasciarono la bambina. A Lavi sembrò di sentire il fratello canticchiare, seppur a bassa voce.

Lalala

Passarono qualche minuto a leggere le incisioni sulle lapidi –figlio amorevole e amico leale, padre e marito devoto e via discorrendo- anche se le avevano già viste tutte tempo addietro.

Poi, ne trovarono una senza nome.

Entrambi i ragazzi corrucciarono lo sguardo, con la stessa espressione perplessa e le stesse identiche rughette ad increspargli il viso. Non avevano mai capito di chi fosse.

Piegarono il viso di lato, e lo fecero simultaneamente.

« Credi che possa andare? » domandò uno, in un soffio di voce. L’altro si strinse nelle spalle, come se non sapesse cosa rispondere, e i capelli rossi gli finirono davanti al viso.

Dopo un attimo di silenzio, in un tacito accordo, si misero entrambi a scavare con le mani. Si inginocchiarono per terra, cercando di non sporcarsi troppo, e conficcarono le mani tra l’erba secca e opaca che ricopriva parte del terreno.

Era un sabato pomeriggio dal sole cocente e l’aria umida, e Lavi aveva caldo. Nonostante la tomba che avessero scelto fosse situata in fondo al cimitero, sotto una quercia dai rami grossi come travi di ferro, la differenza sembrava essere minima.

Quando ebbero finito, sospirarono entrambi, stancamente, e Deak si asciugò la fronte con la manica pulita della camicia. Il buco era profondo almeno mezzo metro.

In lontananza, sentirono alcuni rombi, cupi e gorgoglianti, che gli fecero vibrare le viscere.

Forse, un altro temporale.

Lavi e Deak presero in mano la borsa di cuoio, quella che avevano comprato l’anno precedente per il primo anno di Junior Cycle, e attesero qualche istante, con aria solenne. Si lanciarono un’occhiata di assenso, e dopo uno, due secondi, la lasciarono andare.

Non gli ci volle neanche un attimo. La borsa cadde con un sibilo acuto, limpido, e colpì la terra con uno schianto assordante.

Il cimitero tremò, e i gemelli caddero all’indietro, con un’esclamazione di sorpresa e una di panico acuto nella voce, aggrappandosi all’erba secca e ai vestiti di stoffa. Il terriccio schizzò verso l’alto, ma lontano da loro, lontano persino dalla chiesa, tirandosi dietro pietre e massi grossi come sedie. I fischi e i sibili si fecero più forti, così tanto che l’aria calda dei bombardieri sembrava liquefarsi e sfrigolare sotto il fuoco dei loro motori.

Lavi alzò lo sguardo prima del fratello, così teso e rigido da sembrare un pezzo di marmo. Vide gli aerei, e il loro marchio.

Tedeschi.

Il sangue gli si gelò nelle vene, e al secondo scoppio prese a ribollirgli. Cadde un’altra bomba, e improvvisamente anche lui rischiò di cadere di nuovo.

« Lavi, muoviti! » gracchiò la voce di Deak, mentre le sue mani fredde come il ghiaccio gli stringevano attorno al braccio, intimandogli di correre. Lavi ansimò. Aprì la bocca, la richiuse e deglutì, alzandosi in piedi e muovendo un paio di passi incerti, quasi di corsa. Gli tremavano le ginocchia, ma si costrinse a non cadere.

Cadde un'altra bomba, e un'altra ancora. Ma erano lontane, nonostante i bombardieri della Luftwaffe continuassero a volare sopra le loro teste, e non avrebbero ancora dovuto colpirli.

Il cuore di Lavi batteva così forte che gli dava l’impressione di essergli finito direttamente in gola. E la sciocca idea che, se si fosse fermato solo un attimo l’avrebbe vomitato in mezzo alla strada, piegato in due sui gradini della chiesetta morta, in quel momento non sembrava poi così stupida.

Sentiva la carotide pulsare, veloce e a ritmo dei suoi piedi che sbattevano per terra, mentre il sudore del caldo di maggio gli solleticava la fronte, scivolando verso il basso e bruciandogli gli occhi.

Deak, da parte sua, aveva il cervello totalmente in panne. Sentiva una sola idea, acuta e trillante come un campanello d’allarme, graffiargli le pareti del cervello fino a farlo sentire male.

Scappa.

Era un ordine tassativo, assoluto. Al singolare.

Strinse la presa sul braccio del fratello e lo costrinse a correre più veloce, respirando così con così tanta forza da sentirsi la gola bruciare. Sarebbe andato in iperventilazione, continuando a quel modo.

Ma Deak strizzò gli occhi, scosse la testa e non smise per un solo attimo di muovere le gambe, che ormai sembravano andare per conto proprio.

Dopo pochi secondi, si resero contro di essere tornati in città. Man mano che si infilavano nelle stradine secondarie, quelle fatte di mattoni rossicci e case vecchie quanto Dublino stessa, le persone cominciavano a farsi più frequenti, a loro volta urlanti, spaventate, stringendo fra le dita bambini e mogli, anziani e fucili del tutto inutili.

I gemelli si fermarono per un solo istante, e ansimarono all’unisono. Aprirono la bocca, presero fiato, boccheggiarono e espirarono con forza, in un rantolo gorgheggiante.

Si guardarono attorno, cercando di orientarsi –quel mucchio di macerie fumanti laggiù non era forse la vecchia scuola?- e capirono di essere nel North Wall.

Una seconda volta Deak spronò Lavi a correre, perché quest’ultimo era troppo impegnato a contare i fischi delle bombe su di loro per pensare ad altro.

Non era abituato alla violenza, di nessun tipo. Di solito non riusciva neanche ad impedire a Billy Cow di rubargli la merenda all’intervallo del martedì.

E in quel momento si ritrovava a correre come un dannato verso casa, cercando di strizzare gli occhi e voltare il viso di lato ogni volta che vedeva una chiazza rossa vicino ad un corpo schiacciato del cemento, che, meschino, lasciava intravedere solo un braccio a mano aperta e un gomito piegato in un angolo innaturale.

Poi cadde un’altra bomba.

E fu così vicina e così improvvisa da sorprendere l’intera piazza, mentre Deak riuscì solo a sentire l’urlo rauco di Lavi e la sua mano che scivolava dalle sue dita, sudata e tremante.

Tese le dita, artigliando l’aria senza successo, e poi scoppiò un’altra bomba.

 

 

L’esplosione fu così forte da fargli tremare le ossa, che sbatterono letteralmente tra di loro in un scricchiolio doloroso e dal suono nauseante.

Le orecchie presero a fischiargli, e all’improvviso si placarono, non facendogli sentire più niente.

Deglutì, rotolando su un fianco, e annaspò tra la polvere e le ceneri che rischiavano di soffocarlo. Poggiò un gomito per terra, strizzò gli occhi e poi li riaprì.

Respirò piano una, due volte. Il cuore batteva forte, ma il suo respiro era lento, costante, sicuro. Un po’ distante, poiché aveva le orecchie tappate, ma comunque presente. Sembrava che qualcuno gli stesse alitando sul collo, sfiorandogli la gola con una mano gentile e carezzandogli lo stomaco allo stesso modo, fino a conficcargli le dita nella carne e stringergli le budella in una morsa dolorosa.

Lavi sorrise come un idiota, e scossa la testa.

L’aria nei suoi polmoni si fece meno, e lui non si preoccupò di respirarne altra. Si alzò invece in piedi, passandosi una mano tra i capelli, e mosse qualche passo verso il fratello.

Poi, si fermò.

Gli faceva male la testa. No, non quella. Gli faceva male dentro, era il cervello stesso a dolergli.

Lavi rimase immobile.

Sentì un altro fischio, sopra la sua testa. Un rombo cupo, segno che un altro bombardiere tedesco aveva compiuto il proprio dovere.

Ma lui non se ne preoccupò, e rimase immobile.

Poi, la patina di fumo bianco che gli aleggiava davanti agli occhi svanì, di colpo, e Lavi vide.

L’ultima cosa che ricordò, prima di essere colpito dalle rocce frantumate, era il suo urlo straziante, acuto come quello di un bambino non ancora divenuto uomo, e un braccio teso a mano aperta.

Quello che non ricordò mai, negli anni a venire, era un gomito piegato all’indietro staccato dal resto del corpo.

 

 

† † †

 

 

Erano passati tre giorni.

Giugno era arrivato rumoroso e assoluto come un temporale estivo, spazzando via Maggio con una folata di vento e una secchiata di candida devastazione.

Il corridoio del terzo piano era silenzioso, nonostante fosse appena mattino. I passi delle infermiere risuonavano secchi e precisi, limpidi e sicuri. Il dottore di turno quel giorno, un uomo sulla sessantina con la barba sfatta e lo sguardo sempre serio, affiancava le due crocerossine dall’aria stanca ma comunque ferma.

Erano stati giorni impegnativi, quelli appena passati.

Il bombardamento era stato fatto passare per un incidente, ma furono veramente poche le persone che credettero a quella versione.

Per molti le coincidenze non esistevano. Soprattutto quando si parlava di guerra.

Era appena mattino, e l’aria era ancora fresca di notte. Il caldo sarebbe arrivato più tardi, con calma, costringendo così i pazienti dell’ospedale a spogliarsi delle lenzuola umide e pesanti.

Lui se le teneva strette contro il petto, invece. Così come le ginocchia e le braccia che le circondavano, Lavi teneva le dita serrate sulle coperte, fissando con aria assente davanti a se.

Erano passati tre giorni, per il mondo.

Lavi se ne sentiva addosso almeno trecento.

C’era Deak, seduto davanti a lui. Con le gambe penzoloni oltre il bordo del letto e l’espressione distratta, mentre si fissava le punte dei piedi che ondeggiavano all’andatura che decideva lui. Piegava il viso di lato, di tanto in tanto, e lo scrutava.

 « Ohi, Lavi. » disse all’improvviso, così come faceva ogni volta che si trovavano soli. Ma lui non rispose, limitandosi a fissarlo. Gli doleva dappertutto.

Allora Deak gli si avvicinò, sbuffando, e gli posò una mano sul viso, vicino l’occhio destro. Lavi si perse il movimento a metà strada.

« Ti fa male? » domandò il fratello, con una nota di preoccupazione nella voce. Corrucciò lo sguardo e lo scrutò di soppiatto, sospirando ancora una volta.

Chissà cos’era, quella cosa che gli pesava sul cuore e lo faceva soffrire così.

Lavi scosse la testa, mentendo. L’occhio gli bruciò all’improvviso e prese a lacrimare, contro la sua volontà, ma probabilmente Deak non se ne accorse, perché c’erano le bende a fasciare la parte destra del viso.

Gli era arrivato un sasso in pieno volto, quel giorno. Se l’era cavata con poco, gli avevano detto i medici senza l’ombra di un sorriso sul viso stanco.

Lavi aveva fatto spallucce, tornando a fissare la finestra, e non aveva più prestato attenzione alle loro parole.

Deak sbuffò ancora una volta, in modo infantile e del tutto fuori luogo, e salì del tutto sopra il letto del fratello. Ritirò il braccio e piegò il viso di lato, tra il curioso e il perplesso. « Che fai, il duro? »

L’altro abbozzò una smorfia, sinceramente seccata, e lo fissò scontroso. « Che fai, il vivo? »

Deak inarcò entrambe le sopracciglia, sorpreso. « Ti da’ fastidio? »

« Sì. » replicò Lavi, distogliendo lo sguardo e stringendosi le ginocchia al petto. « Sei morto, quindi adesso lasciami in pace. »

L’altro sospirò, ancora una volta, e si grattò distrattamente il fianco sinistro, quello senza braccio. Lavi strizzò l’occhio rimasto per non guardarlo.

« Non l’ho fatto apposta… » tentò di giustificarsi, anche se senza troppo impegno. Era strano come apparivano poco importanti le cose, da morto.

Lavi sembrò sul punto di piangere, e il petto gli tremò a testimoniarlo.

« L’avevamo promesso. » gracchiò, continuando a tenere l’occhio sano serrato. « Lo so che non l’hai fatto apposta, ma l’avevamo promesso. » singhiozzò, e in quel momento la porta della camera si aprì lentamente. « Sei uno stupido… » mormorò ancora il fratello vivo, deglutendo e premendo la schiena contro la parete fredda dell’ospedale.

Il dottore entrò nella stanza, a passi lenti. Lanciò un’occhiata all’unico ragazzino presente, che sembrava stesse per piangere, e si passò una mano sul viso, stancamente.

Odiava quell’aspetto del suo lavoro.

Poi si schiarì la gola, e raggiunse il letto in fondo alla stanza. « Lavi. » chiamò piano, cercando di sembrare amichevole. Non provò neanche a sorridere.

Quello alzò lo sguardo, titubante. Non parlò, ma attese che lo facesse l’altro. Il giovane medico si costrinse a non sospirare, e quasi ci riuscì.

Poi, con un gran bel giro di parole, disse al ragazzino che la casa dei suoi genitori era stata presa in pieno da una bomba.

Erano morti entrambi.

 

 

† † †

 

 

Era la stessa sensazione di quel giorno.

Gli faceva male il cervello. Lo sentiva scricchiolare, gemere, sibilare e contorcersi dentro la sua testa, come un animale selvatico in preda alle convulsioni.

Lavi aveva lo sguardo fisso, e camminava a passo sicuro. Scavalcò una roccia, si aggrappò ad un ramo e non ansimò neanche una volta.

Era notte, ma ci vedeva lo stesso, grazie alla luce della luna che gli tingeva i capelli di argento e ombre nere.

Deak lo seguiva, in silenzio e senza il minimo sforzo, con l’unica mano ficcata nella tasca dei pantaloni. Sospirava, di tanto in tanto, e scuoteva la testa.

Lavi era scappato dall’ospedale, ancora una volta. Era la terza nel giro di una settimana. Era tornato nel boschetto vicino alla chiesetta, aggirando la città per non farsi vedere –un ragazzino fasciato come una mummia non passava poi così inosservato, neanche dopo un bombardamento aereo- e aveva preso ad attraversare anche quello, senza un motivo preciso.

Dopo un po’ Deak sospirò, alzò gli occhi al cielo e gli si piazzò davanti. Lavi si fermò di botto, non essendo abituato all’idea che avrebbe potuto tranquillamente passare attraverso il fratello, per quanto ne poteva sapere.

« Ohi, Lavi. » sbottò quello, fissandolo afflitto e un po’ titubante. « Ci prenderemo un malanno, così. » si passò distrattamente una mano sulla spalla -quella dove mancava il braccio- come a tenersi caldo. « Fa freddo, qua. » aggiunse.

L’altro chiuse gli occhi, inspirò piano e li riaprì. « Deak, sei morto. Non puoi ammalarti. »

« Tu sì. »

Touché.

« Non ha importanza. » replicò Lavi, passandosi stancamente una mano tra i capelli. Sembrava essere diventato così adulto tutto d’un colpo, constatò Deak. Poi vide l’occhio sano offuscarsi per via delle lacrime e si ricredette, abbozzando un sorriso intenerito.

Posò una mano sulla spalla dell’altro, poi sul collo e vicino la nuca, cercando il suo sguardo con il proprio. « Ohi, Lavi… » chiamò ancora una volta, a bassa voce.

L’altro ci mise un po’, titubante, ma alla fine lo guardò.

« Ti ricordi la promessa? »

« … sì. Quella che tu non hai mantenuto. »

Suo malgrado, Deak ridacchiò, piegando il viso di lato per nascondere un sorriso sghignazzante. « Esatto, proprio quella. »

« Mh. » mugugnò il fratello vivo. « Quindi? »

« Quindi ne facciamo un’altra, ti va? »

Lavi non rispose.

« Anzi, devi farne tu una a me. » precisò il ragazzo senza braccio. « Ti va? »

Ancora una volta, Lavi non rispose. Si limitò ad osservare l’altro, in silenzio, con un senso di nausea che gli premeva contro la gola. Gli pizzicava fastidiosamente l’occhio sinistro.

Allora Deak gli si avvicinò ancora, fino a poter toccare la sua fronte con la propria. Chiuse gli occhi, e Lavi continuò a fissarlo.

« Vivi. » disse allora, senza un attimo di preavviso. « Per me. Vivi. Semplicemente questo. »

Qualcosa frusciò tra gli alberi, ma nessuno dei due si mosse. Era un momento troppo doloroso e troppo crudele per poter essere disturbato da semplice paura infantile.

« Gira per il mondo, fai amicizia con le persone che io non potrò mai conoscere. Ricorda tutto, non lasciare che neanche un dettaglio ti sfugga. Vivi la tua vita e poi vienimela a raccontare, Lavi. Vivi vivi vivi. »

Il corpo di Lavi ebbe un fremito. Poi un altro, e un altro ancora.

« Deak… » aveva la voce roca, un nodo alla gola che sapeva di pianto.

Deak quasi rise, senza felicità, forse un po’ incredulo. « No, non piangere. » sospirò, e tornò ad essere serio. « Sorridi. Come facevo io, okay? » e, come per rendere più effettive le sue parole, sorrise una seconda volta, tranquillo, con gli occhi ancora chiusi. « Divertiti, goditi la vita, » gli passò una mano tra i capelli, lentamente « e non pensarmi. Dimenticati di me e non pensare al passato. Ricorda tutto quello che vedrai, con quest’unico occhio, ma non lasciarti condizionare da nulla. Non ne vale la pena. »

Cominciava a fare davvero freddo. Ma la pelle di Lavi scottava, così come la sua fronte.

« Per favore. »

Lavi rimase in silenzio, limitandosi a respirare piano, lento. Si sentiva morire. Le ginocchia tremare e le viscere stringersi nello stomaco.

Poi il fruscio divenne più insistente, e all’improvviso smise del tutto.

Il ragazzino vivo si voltò verso il rumore, teso come una corda di violino. Avrebbe potuto spezzarsi da un momento all’altro.

C’era un uomo, che lo fissava. Era più basso di lui, e lo fissava serio, si poteva vedere perfettamente nonostante l’oscurità del bosco. Lavi lo conosceva bene, anche se forse non poi così tanto come credeva. L’aveva visto spesso a casa loro, e i genitori lo avevano presentato come un parente lontano.

Si chiese distrattamente come mai fosse lì, proprio in quel momento. Forse lo avrebbero affidato a lui –dopotutto, chi altri gli restava?- ed era semplicemente andato a cercarlo.

Deak rimase in disparte, limitandosi a borbottare, con un mezzo sorriso, un paio di parole.

Ci fu un attimo di silenzio, e non accadde nulla.

Poi la corda si spezzò.

E Lavi scoppiò a ridere, all’improvviso, facendo scappare in tutta fretta un paio di grassi corvi che si erano appollaiati sui rami degli alberi. Con forza, acuto come il bambino che ormai non era più, in modo sciocco e superficiale.

Poco dopo il ragazzino vivo si asciugò una lacrima solitaria, sentendosi improvvisamente libero –così vuoto da poter essere ormai qualunque cosa, tranne che se stesso- e sorrise nuovamente all’uomo, cercando di trattenersi a stento.

Gli tornò in mente il discorso che il fratello gli aveva appena fatto, - « Per favore » - e lo comprese. Poi ripetè le sue parole, tuttavia senza la nota maliziosa con cui le aveva pronunciate l’altro, e trattenne malamente una seconda risata.

« Ne, vecchio panda! » chiocciò alzando una mano verso l’alto, chiamando l’anziano come sapeva odiava essere definito.

Lavi non era mai riuscito a chiamarlo a quel modo, troppo educato e timoroso anche solo per pensarlo.

Suo fratello, invece, non faceva altro.

Vivi vivi vivi.

Con quelle parole, Deak aveva ucciso Lavi.

 

 

 

 

 

Once more, with feeling.

End

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note tecniche:

 

Áth Cliath = Nome irlandese con cui viene chiamata Dublino

Junior Cycle = sarebbe la nostra seconda o terza media, ma il sistema scolastico irlandese è differente da quello italiano. Deak e Lavi frequentano la prima classe, che si inizia all'età di 13anni.

"Buachaillí!"  = "Ragazzi!"

"Sea, mamaì!" = "Si, mamma!"

Guinness = E' una famosa birra irlandese

Pudding = E' il budino. Quello a cui si riferisce la madre è il Plump Pudding, ovvero il budino con i canditi.

“Bráthair?” = “Fratello?”

Luftwaffe = E’ l’attuale aeronautica militare della Germania.

North Wall = E’ un quartiere operario situato nella parte settentrionale del centro città.

 

Altre note:

° Il 31 Maggio 1941 era davvero un sabato.  La storia si basa su un reale fatto storico.

° Gli Irlandesi non chiamarono la seconda guerra mondiale “guerra”, essendo rimasti neutrali, bensì “emergenza”.

° Il quartiere bombardato dalla Luftwaffe fu proprio il North Wall.

° La bambina della tomba che trovano Deak e Lavi è, teoricamente, Lala. E il pupazzo orribile che si porta appresso rappresenterebbe Gsor. Ho scritto che è morta di “crepacuore” per via del mondo in cui l’Akuma le ha strappato l’Innocence.

° Il titolo viene dalla soundtrack del musical di Buffy.
° Oscar Wilde era, come molti sapranno, nato a Dublino.

 

 

Note personali:

 

Ovviamente, io non conosco l’irlandese. Quindi probabilmente ho tirato qualche cazzata, ma spero di no. In più, mi scuso per le imprecisioni che con ogni probabilità ci saranno, ma non avendo partecipato all’evento non ho potuto fare di meglio xD Ho pregato che qualcuno mi bombardasse il giardino, ma non è successo .__. Mi sono affidata ai ricordi dei film (nonché alla grande opera Salvate il soldato Jimmy) e un po’ all’immaginazione (ma anche a Call of Duty, diciamocelo), quindi speriamo bene.

Vorrei fare una piccola precisazione riguardo Lavi e Deak, visto che, per molti, probabilmente saranno considerati OOC. Sembrano che si siano scambiati i ruoli, vero? Beh, alla fine, quei due sono la stessa persona (non in questa fic, dico nel manga) quindi se uno si comporta in un modo, è come se l’avesse fatto anche l’altro. In più, questa fic è come se descrivesse il processo che ha portato Lavi ad essere quello che è, ovvero un coglione che sorride sempre.

 

In ogni caso, io l’ho detto che mi stavo fissando su Deak xD Quindi, suppongo che la fic non potesse finire che in questo modo °_°

   
 
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