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Autore: squarciecicatrici    19/07/2009    1 recensioni
Si svegliò di soprassalto. La cantina fredda e buia in cui era sdraiato lo attorniava, un’oscura scatola umida e fredda da cui non poteva scappare. Si sollevò lentamente, lottando per non soffocarsi con le catene che, intorno al collo, quasi gli impedivano di respirare...
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parlami…

Parlami….fammi sentire ancora la tua voce….

 

Si svegliò di soprassalto. La cantina fredda e buia in cui era sdraiato lo attorniava, un’oscura scatola umida e fredda da cui non poteva scappare. Si sollevò lentamente, lottando per non soffocarsi con le catene che, intorno al collo, quasi gli impedivano di respirare. I polsi e le caviglie erano arrossati dalla stretta pressante del metallo gelido, e sulle braccia erano tremendamente visibili i segni delle unghie, testimoni dei momenti di disperazione in cui si gettava spesso. Lui però non vedeva nessuno di questi orrendi segni. Da anni conviveva col buio, quel buio vuoto che lo aveva reso cieco, cieco e insensibile ad ogni dolore o sensazione. Niente poteva più nuocergli. Nemmeno l’assenza di cibo, che oramai si protraeva da diversi giorni.

 

Ma allora…cos’era che ancora lo teneva in vita? Perché non si lasciava morire come tutti gli altri?

 

Quella voce. Forse era quella…ma era davvero reale? O era solo un parto della sua mente malata? Non lo sapeva. Più che altro, non riusciva a capirlo. Intontito com’era dal freddo e dalla solitudine, non capiva più niente. Quando apriva la bocca per sussurrare qualche parola, non comprendeva se effettivamente uscisse qualche sillaba, qualche vocale. Poteva parlare per ore, da solo, e non sentire nulla.

 

Era orribile. Aveva dimenticato il suono della sua voce.

 

E il dolore psichico si rifletteva anche a livello fisico. Ma non come a tutti gli altri, no. Ogni piaga nella sua mente era una piaga che si apriva sul suo corpo, e che stentava a guarire. Una in particolare lo stava facendo impazzire. Un’enorme lacerazione sul fianco destro, che bruciava infettata dalla scarsa cura, aperta quando aveva pianto per ore in un delirio mosso dalla follia della fame. Erano mesi che l’aveva.

 

Ma continuava a non guarire.

 

Era stanco. Molto, troppo stanco. Forse lo era tanto da non riuscire a morire. Non aveva niente, là fuori. Nemmeno si ricordava come fosse fatto, quel là fuori. Cominciava seriamente a dubitare che ci fosse qualcosa del genere.

 

Di tanto in tanto qualche immagine tornava a galla. Strappata, bruciata, come se qualcuno fosse entrato nella sua testa ad incendiare quello che era il mondo dei suoi ricordi, mondo che oramai non era che una landa cupa e desolata, governata solo da un’insensata e cruda follia che non smetteva di aumentare il suo potere, giorno dopo giorno.

 

La sua mente era appannata. Stremata. Mutilata nel profondo. Mente che non manovrava più alcun pensiero. I messaggi, le parole scorrevano come sottotitoli senza senso. Figure sbiadite si susseguivano continuamente sullo sfondo, ombre vuote raramente a tratti umani, più spesso mostruosità dalle fauci lorde di sangue, liquido nero che colava denso sulla terra secca. Una mente impazzita…

 

Eppure era quella che, con forza e folle determinazione, teneva in vita, obbligava a restare in vita tutto il resto. Ma per cosa? Per un’illusione?

Stava vivendo per un’illusione? Per una voce che, per quanto dolce e soave, poteva essere tranquillamente il suo cervello che dava segni di cedimento?

Non lo sapeva. E ciò lo faceva sentire ancora peggio.

 

Forse era solo un ricordo. Un frammento di memoria, una stilla di quel poco che gli era rimasto. Eppure quella voce continuava a tormentarlo. Era una voce celestiale. Sentiva la sua presenza, forse per via del delirio, forse per il dolore, ma la avvertiva chiara e forte. Come se ci fosse realmente una persona, lì vicino a lui, che gli sussurrava quelle parole.

 

Spesso si metteva a gridare.

 

Smettila, le diceva.

 

Smettila. Mi fai del male.

 

Ma quella continuava a chiamarlo con quel nome.

 

Arden.

 

Arden…

 

Non si rendeva conto di quanto fosse doloroso, per lui, ascoltarla? Non capiva che ogni sua parola, per quanto tenera che fosse, equivaleva a migliaia di lame cocenti e affilate che penetravano nella sua testa con ferocia e violenza?

 

-Basta!- gridò con quella poca forza che aveva, e si accasciò a terra, stretto dalle catene fredde e opache.

-Basta…

 

Le lacrime colavano lente e calde dai suoi occhi, il cui colore grigio-argenteo era spento e vitreo. Non poteva continuare così.

 

Si era innamorato di quella voce, all’inizio, quando la disperazione era senza confini e non v’era nessun’altra via di apparente salvezza. La desiderava, avrebbe voluto poterci ricollegare un viso, un’espressione sorridente e amichevole, un gesto d’affetto, una carezza, un bacio. Era l’unica consolazione, in quell’orrendo posto dimenticato da chissà quale dio. Ma ora, ora odiava quel fastidioso sussurro con tutto se stesso, detestava l’insistenza con cui gli si rivolgeva, con cui lo chiamava per nome, Arden, Arden, non poteva più sopportarlo. Era geloso, geloso, perché sapeva che quella dannata voce non era lì con lui, ma all’esterno. Non poteva raggiungerla, e quella, maledetta, non smetteva mai di tormentarlo, mai.

 

La ferita al fianco ebbe una violentissima fitta, che lo fece gemere spaventosamente. Forse la Morte…forse quella tanto agognata signora stava arrivando a prenderlo. Finalmente…

 

Sentì il dolore affievolirsi lentamente, e un lieve torpore avvolgergli le membra. Non aveva più i brividi. Non sentiva più quel freddo pungente e logorante.

 

Non aveva più bisogno di respirare.

 

Una luce bianca, calda e piacevole lo colpì in viso.

 

Luce…per un attimo fastidiosa, ma poi incredibilmente gradevole…

 

E poi più nulla.

 

Tutto cadde in un baratro nero e vuoto, che lo avvolse con una presa ad artiglio.

 

“Ora…è finita.”

 

  
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