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Autore: throughtsun    09/02/2019    1 recensioni
E che tristezza, comunque, il saluto di oggi.
Ti rivedo di sfuggita, la solita faccia (cosa mi aspettavo? Chissà perché non credevo che la tua faccia sarebbe stata così tua), mi aspettavo un sosia, l’impostore che ha presto il tuo posto da qualche mese, invece no, stessa faccia, sempre tu, stessa faccia. Stessa persona.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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E che tristezza, comunque, il saluto di oggi.

Ti rivedo di sfuggita, la solita faccia (cosa mi aspettavo? Chissà perché non credevo che la tua faccia sarebbe stata così tua), mi aspettavo un sosia, l’impostore che ha presto il tuo posto da qualche mese, invece no, stessa faccia, sempre tu, stessa faccia. Stessa persona.

Che tristezza la rapidità dei nostri sguardi, ti avrei chiesto volentieri come stavi, come ti fosse andato l’esame, sono stanca di fingere. Stanca da morire. Avevo promesso a me stessa, tra le altre futilità, che non sarei più stata così bugiarda con me stessa e con gli altri – fingo così tanto così spesso che non ne sono più consapevole, ho scoperto da poco tutte le mie falsità. Che stanchezza non scriverti, non sentirti, che stanchezza che tu non mi scrivi mai. Che stanchezza essere forti, vorrei essere debole, scriverti, perdere tutta la mia dignità, dirti che ti penso ancora, magari così sentirei di aver dato una fine degna di questo nome a una storia che ho sentito davvero, fino in fondo. Ci siamo lasciati di netto: nel tuo caso era l’indifferenza, credo, a non spingerti a scrivermi dopo i primi giorni. Nel mio caso invece è stato questo maledetto orgoglio, la razionalità, la dignità, l’autoconservazione. A che cosa mi sarebbe servito rendermi patetica? Alla catarsi. Di sicuro alla catarsi.

Che invidia per le persone capaci di rendersi ridicole e patetiche dal dolore. Che invidia che riescano a concentrarsi solo ed esclusivamente su quello che sentono, al loro bisogno di esprimerlo e comunicartelo, noncuranti delle apparenze, delle conseguenze, dei poi.

È che non sarebbe servito a niente. E penso che anche queste persone che riescono a rendersi patetiche riconoscano la futilità delle mosse disperate, ma loro riescono a seguire il cuore, a metterlo al timone, a lasciarsi guidare. Ma il cuore non ha gli occhi, è una guida inaffidabile se la rendi esclusiva, e finisci col farti male, più male ancora. Tozzi ovunque, ti ammacchi, ginocchia sbucciate, che casino. Il discorso, però, è che poi non avranno spazio per i rimpianti. Forse vorrei così tanto essermi resa patetica non perché ora potrei dirmi di averle provate tutte, prima di lasciarti andare via – non c’era altro che riuscissi a fare in quel momento, non c’era parte di me che riusciva a convincerti, non avrei potuto rimanerti accanto sapendoti indeciso o impietosito – ma perché siamo tutti un po’ attratti verso ciò che non siamo mai riusciti a fare, o a dire. Forse una di quelle persone patetiche di prima farebbe volentieri a scambio, mi cederebbe felicemente parte della sua impulsività, forse neanche lei ama essere com’è. Forse sono tutti modi per evitare di pensare al fatto che, a prescindere, impulsività, patetismo, razionalità, dignità a parte, non c’era niente che potessimo fare per evitare di essere lasciati soli. «Avrei dovuto lasciarlo fare, non inseguirlo» è il «Avrei potuto fare di più invece di smettere di provarci» degli irrazionali, impotenti quanto i ragionevoli davanti all’impietosa decisione di andarsene, e non c’è niente che gli uni o gli altri avrebbero potuto fare o dire per arrestare la caduta, la rovina, la fine. Ci convinciamo che se fossimo diversi saremmo più capaci di gestire queste situazioni, che se avessimo avuto il coraggio di pregare o quello di girare le spalle e andar via, allora tutto sarebbe stato diverso, magari. Lacrime di coccodrillo in una lotta contro i mulini a vento – la verità è che non avremmo potuto fare nient’altro che quello che abbiamo fatto. L’amore non ha bisogno di preghiere o di assoluti imposti per riaffiorare all’improvviso. È difficile accettare che nel momento in cui veniamo lasciati a noi stessi semplicemente dell’amore non ci sia più traccia.

 

In ogni caso, che tristezza il saluto di oggi. Chissà cosa hai pensato quando mi hai vista. Chissà se ti è piaciuta la mia faccia senza occhiali, chissà se l’hai trovata diversa, volevo sembrarti una persona diversa. Magari così saresti tornato – questo il pensiero fisso in quel momento. Magari adesso tornerai, scenderai le scale, e mi dirai scusa se ti sembro un cretino, ti è andato bene l’esame? Ma non l’hai fatto, perché quanta falsità avrebbe richiesto un gesto del genere? Quanto sangue freddo? Ah, no, dimentico che per te non si sarebbe trattata di falsità. Se non avessi saputo che a me una cosa del genere avrebbe irritato terribilmente forse ti saresti anche fermato. Qualcosa dentro di te si è scosso? Probabilmente no. Ho perso il potere di scuoterti nello stesso momento in cui hai deciso di smettere di amarmi – o di smettere di dirlo a te stesso e a me. Avresti voglia di scrivermi adesso? Io avrei voglia di un tuo messaggio. Ci riproverai mai a scrivermi? Non è vero che avrei voglia di un tuo messaggio. Come fare a parlare di come ci è andato l’esame quando in questi giorni non ho fatto altro che pensare a te, e a quanto mi mancano le giornate insieme, e a quanto vorrei che tu non avessi rovinato tutto. Non avrei voglia di continuare a fingere, finirei con il vomitarti tutto addosso, è un desiderio troppo impellente, ti tratterei male, e non credo che ti importerebbe poi così tanto, dopotutto, quindi non lo faccio neanche per te, ma per me stessa; me ne pentirei subito dopo. Mi pento sempre delle rare volte in cui sono onesta – sono le uniche nelle quali posso sentirmi completamente responsabile e attrice dei miei comportamenti, che grande responsabilità, meglio mentire. Ma non ce la farei, non ora che sono così esausta e stanca di fingere, ora non ce la farei. Forse è meglio che non mi scrivi più.

Vorrei rivederti. Mi aiuterebbe a ricordarmi che sei la stessa persona, stessa faccia, stessi gusti musicali. Stessa persona. Ma completamente diversa, unica consolazione sarebbe questa: non sarai mai più la stessa persona che conobbi io e di cui mi sono innamorata in inverno. Quella è stata mia e solo mia, anche se guarderai altre come hai guardato me e consiglierai loro le stesse canzoni che hai consigliato a me. Perché eravamo noi due e anche la versione di me che ho riservato a te è solo tua (non ti importa ma sappi che è così, è solo tua). Stessa persona, stessa faccia, ma completamente diversa, più grande di un giorno, di un’ora, di un mese, un piercing in più, un po’ più triste di prima. Non ti conosco più, custodisco il ricordo di quello che eri, ma vederti mi fa bene per ricordarmi che quello non esiste più, e che ora non riuscirei a stare con te, senza la garanzia che vi assomigliate.

Rileggersi e ritrovarsi patetici è una triste condizione piuttosto comune per me, e questa lettera – l'ennesima – suona proprio come un pianto stonato e sgraziato. Alcune cose sono cambiate, adesso. Ma non è questo che conta.
  
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