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Autore: PandorasBox    20/02/2019    1 recensioni
C’era una musica diversa nei loro corpi, ne erano consapevoli mentre le loro mani si cercavano timidamente, di nascosto, nell’aria ancora frizzante di un’alba di fine marzo vibrano così tante parole non dette da poter riempire cento pagine.
Così tante domande da non sapere quando e come riceveranno risposta.
Nel silenzio di quello spazio ancora vuoto, i lampioni iniziavano a spegnersi uno ad uno, il cielo a tingersi di sfumature rosate, i camion della nettezza urbana che iniziano il loro giro, le prime, pigre macchine viaggiano a velocità sostenuta su strade ancora quasi del tutto sgombre.
Devono restare professionali, si dicono, e quella serata è solo un caso, un unicum, si sono ritrovati a passeggiare insieme per sbaglio, per puro caso, non lo avevano certo programmato.
Quel che programmano, invece, sono le uscite successive.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al COW-T 9 di Lande di Fandom. Missione 2, prompt SERENO



 

 

Sarà sereno e se non lo sarà si rasserenerà


La sua logopedista si chiamava Stefania Santini, aveva i capelli castani sempre legati in una coda di cavallo e la pelle un po’ scavata di chi, da giovane, aveva sofferto pesantemente di acne e che, ancora oggi, si portava dietro una qualche dermatite che le fa squamare la pelle soprattutto quando prende il sole.

Se la ricorda con una penna di plastica rossa sempre nel taschino: non la usava mai, quella penna, ne prendeva sempre una a caso dal portapenne sulla scrivania, spesso le lasciava in giro per la stanza e dimenticava anche di averne così tante.

Quella di plastica rossa, però, non usciva mai dal suo taschino.

Era sempre struccata, Stefania, al massimo metteva qualcosa di rosa chiaro chiaro sulle labbra e Flavio le voleva un po’ bene perché il suo nome era facile da pronunciare.

Stefania Santini.

Nessuna vibrante.

Tante sibilanti, una fricativa, nasali e dentali ed alveolari.

Ma nessuna vibrante.

Flavio ha cinque anni quando chiede a sua madre perché non può prendere il suo cognome, un comodissimo De Luca, ed evitarsi quel complicato Proietti che non riesce a pronunciare bene -- a volte pensa al fatto che doveva chiamarsi Valerio, come il fratello di suo nonno, e di quanto gli sia andata bene che i suoi abbiano cambiato idea all’ultimo minuto.

«Perché quel buono a nulla di tuo padre t’ha voluto lasciare un regalo.» era di solito la risposta di sua madre, poi gli accarezzava i capelli, dritti e appuntiti, tenuti su col gel e aspettavano un altro po’ il loro turno in quella saletta bianca di un minuscolo studiolo in centro.

Fino ai sei anni non riusciva a pronunciare il suo nome correttamente, la sua lingua che si rifiutava di seguire i suoi ordini e le erre che non riuscivano ad esistere. Era diventato davvero bravo ad evitare ogni parola che contenesse quella dannata lettera, a cinque anni era già un mago della perifrasi,

Al compimento dei suoi cinque anni, sua madre aveva ben deciso che presentarsi come Flavio Poietti non avrebbe potuto funzionare ancora a lungo - non con l’inizio della scuola elementare né con la vita futura in generale- e lui aveva conosciuto Stefania.

A volte pensa a come tutto il suo lavoro l’abbia un po’ buttato al cesso iniziando il liceo, il romano assurto a lingua di socializzazione primaria e lui, con il suo italiano perfetto ed i suoi capelli rossicci, che non ci teneva a diventare la base della piramide alimentare liceale.

Ancora non si spiega come Gabriele sia riuscito a rimanere integro per cinque anni nonostante la sua, non proprio segreta, militanza negli scout.

Ci pensa spesso mentre sente Antonio esercitarsi per casa, quegli scioglilingua che ripete fino a far perdere loro anche quel poco di senso che hanno che lo fanno spesso galleggiare sul pelo dell’acqua, perfettamente in bilico tra quel che ricorda e quel che sta vivendo in quel momento.

Seduto al tavolo della loro claustrofobica cucina, picchietta con la penna sul taccuino senza riuscire a cavarne un ragno dal buco, il suo telefono che vibra impazzito e quelli del piano di sopra che continuano a spostare mobili da tre giorni senza fermarsi un secondo -- «Quasi mi manca quando scopavano all’ora di pranzo.» aveva ammesso Antonio, dando una testata al frigorifero appena poche ora prima, in mano il cartone del latte e un’espressione infastidita sulla faccia.

«A me quasi me manca quando non vivevano qua.» aveva invece risposto lui, ed Antonio s’era limitato ad annuire mentre scostava la sedia alla ricerca di Cicerone.

«Che fai, torni a battere su sta cosa che dovevamo andarcene in campagna?»

«Non dico campagna.» aveva replicato, passandosi una mano sugli occhi e prendendo posto una sedia più in là, allungando il caffè ad Antonio. «Però in una palazzina un’anticchietta più piccola e co meno...vicini? Magari pure meno studenti, proprio a volè esse vecchio.»

«Eh, è arrivato ‘o pascià. I soldi per la villetta che avevamo visto all’EUR ancora non ce li abbiamo.»

«Però era caruccia.»

«Sai cos’altro è caruccio? Mangiare. Avere la corrente. Poter pagare il telefono per avere ancora internet e guardare i meme.»

«Pensavo i porno…»

«Come se ancora avessimo l’età per i porno…»




 

«D’accordo, la prossima domanda è: qual è la parte peggiore dello stare con un cantante?» non è una domanda improvvisata, Flavio lo sa bene, e Francesca non smette di guardarlo con aria curiosa e con le labbra colorate di un rossetto di cui, sicuramente, non riuscirebbe ad azzeccare la tonalità neanche se ci provasse.

Il locale in cui sono seduti è ancora calmo, uno dei tanti buchetti sul lungotevere, ha lasciato Antonio in sala registrazione ed ha girato per quasi mezz’ora alla ricerca di un parcheggio che fosse largo abbastanza da metterci qualcosa di più ingombrante di una bicicletta.

E pure oggi ha regalato così, de core, cinque euro al Comune di Roma.

La luce aranciata si riflette sul drink che tiene in mano, riempie il liquido di piccole schegge dorate che si diverte a far volteggiare mentre ci pensa, mastica le parole, si chiede quale sia davvero la parte peggiore e, soprattutto, se davvero ce n’è una.

«Gli esercizi per scaldare la voce.» è una risposta ragionata e soppesata, la sua, frutto di un’attenta valutazione e di anni di studio -- tre anni, per la precisione, tre anni e due mesi, perché quello che si ricorda le date tende sempre e solo ad essere lui.

Antonio ricorda tutto il resto, anche i testi delle canzoni, cosa più unica che rara nel panorama musicale contemporaneo.

Francesca ride della sua risata leggera, il suo trillare televisivo, quella che Antonio definisce fastidiosa, finta ed inopportuna, prende un sorso dal suo bicchiere guardandolo con aria divertita.

«Di tutte le cosa scegli proprio gli esercizi per scaldare la voce? Nessuna lamentela perché ti sveglia alle quattro per dirti che ha scritto un pezzo nuovo o…» Muove la mano come se stesse cercando di spiegare qualcosa per cui non esiste una parola «Che ha scoperto come inserire la parola “impepata di cozze” in una canzone, non so?»

Il campanello sopra la porta del bar tintinna, gli occhi di entrambi si spostano sulla porta, ancora nessuna traccia di Giacomo che pure aveva detto sarebbe arrivato a breve, il fuso orario di Fabriano che ancora non lo abbandona nonostante ormai viva a Roma da una vita.

Giacomo che, come primo lavoro prima di riuscire a fare quel che voleva, potava le siepi. A volte vorrebbe, anzi vorrebbero perché c’entrano anche gli altri della compagnia, essere molto meno infantili e darci un taglio con le battute su Leopardi.

Vorrebbe fosse più facile, però.

«Te sei mai svegliata la mattina con uno che canta venti volte in tonalità diverse “Sarà sereno e se non lo sarà si rasserenerà”?»

«No, quello ancora no.»

«Ecco perché ‘nte sembra un incubo. La sveglia alle quattro de notte è quasi una pacchia, soprattutto quando a dormì ce vai alle quattro e mezza.»

Francesca gli regala uno sguardo annoiato, ruba una delle ultime patatine che, avevano deciso, avrebbero lasciato per Giacomo, le dita inanellate che brillano sotto alla lampada vintage appesa proprio sopra al loro tavolinetto. Si chiede quando abbia iniziato ad apprezzare quei localini un po’ hipster, quella generale voglia di vintage a tutti i costi che si porta appresso tutto quell’insieme di idee che vuole che quel che c’è stato prima sia stato, per tutta una serie di motivi, migliore di quello che c'è al momento.

« Ancora di voi non lo sa nessun altro oltre noi, vero? » scuote la testa, Flavio, si concede anche lui una patatina mentre scruta con attenzione i tratti distesi dell’altra, nessuna minima espressione, nessun commento. Francesca è cambiata così tanto, negli ultimi cinque anni, da faticare a riconoscerla, da costringerlo a rimanere guardingo per capire quando, e soprattutto come, uscirà fuori tutto quel che gli è sfuggito.

«E le cose vanno bene, no?» incalza, sporgendosi appena sul tavolo con aria circospetta, le lunghe unghie smaltate che tamburellano sul legno lucido

«Da quando abbiamo smesso di lavorare insieme, dici? Sì e no, ma adesso l’abbiamo sistemata.»

«Decisione obbligata?»

«Famo buon senso.»

Non era stata una decisione facile da prendere, né era propriamente partita da loro: un po’ della sua penna c’era da sempre nelle canzoni dell’altro, parte di quei testi erano sempre stati suoi, fin da quando aveva iniziato a lavorare per quell’etichetta che l’aveva poi lanciato.

Senza quelle quattro parole che scriveva nei momenti di noia, quelle che, aveva scoperto solo in seguito, potevano perfettamente funzionare come canzoni, non si sarebbero mai conosciuti.

Sarebbe stato un gran peccato.

« Per ora i cantautori vendono meglio, magari una canzone sola del prossimo album puoi ancora firmarla, ma un album intero da interprete, al momento, non gli conviene. ». La sentenza del produttore non era stata capitale, certo, ma aveva portato ad un silenzio di quasi una settimana, un danzare accuratamente intorno all’argomento come si gira intorno ad una ZTL.

Dopotutto lui non è un autore, Flavio lo sa bene: è solo un aspirante storico che si ritrova tra le mani la fortuna di saper scrivere altro oltre a saggi che son diventati, chissà come, virali.

Non ha alcun interesse a diventare famoso, è solo un accademico un po' eccentrico.

Antonio non l’ha pensata allo stesso modo, non subito, non per il mese che è seguito. Si è lamentato con lui, si è lamentato con l'agente, si è lamentato con quelli della casa discografica, poco mancava se la prendesse anche col cane.

Aveva creato una tempesta.

Il loro equilibrio lo hanno ritrovato così: Antonio che si rifiuta di farsi accompagnare in studio e lui che se ne tiene dignitosamente alla larga, il lavoro rimane tra le quattro mura della sala registrazioni ed a casa tutto il resto.

Flavio non è ben convinto che possa funzionare, non a lungo, ma non sarà certo lui a farlo notare all’altro. La quiete è abbastanza precaria da convincerlo a lasciarlo così, lasciare che tutto vada finché dura.

Antonio continua a ripetere che è una situazione momentanea e non ha capito bene con chi dei due stia parlando.

Gioca un po’ con il suo drink, pensa a come dire di più senza dire tutto.

«Cioè, mi correggo: c’è stata un po’ di burrasca, ora è tornato il sereno.» si affretta ad aggiungere, le sopracciglia di Francesca che si aggrottano come se stesse cercando di leggere qualcosa di particolarmente lontano, le spalle che si rilassano nonostante l’espressione scettica.

«Io non so davvero cosa fare con te.»

«Beh, potresti da’ na voce a Giacomo, così sappiamo se se l’è inghiottito il Raccordo?»  


Era stato intenso, appassionato, inspiegabile.

Così glielo descrive ogni volta Antonio, soprattutto mentre sono sul balconcino della loro camera a smezzarsi una sigaretta rollata storta, seduti sul divanetto di vimini troppo stretto che hanno fregato all’ex inquilina del piano di sotto.

Quasi quattro anni prima nessuno dei due avrebbe immaginato, chiudendosi la porta alle spalle, di cambiare la loro vita in qualunque senso possibile: doveva essere un semplice incontro di lavoro, doveva essere una cena formalmente informale, dovevano solo presentarsi e decidere cose.

Darsi appuntamento per scrivere insieme, ascoltare un paio di demo.

Era finita per diventare tutt’altro, un rifiuto educato a continuare la serata in un qualche locale, un congedarsi un po’ prima degli altri, fare la stessa strada inconsapevolmente. Ricorda ancora come aveva tenuto le mani in tasca mentre allungava volontariamente la strada verso il parcheggio in cui aveva abbandonato la macchina, il modo in cui cercava di rispondere nel modo più evasivo e, al contempo, esaustivo alle domande dell'altro.

«Praticamente la cena non me la sono goduta per colpa tua: dovevo capire se deficiente lo eri per davvero o se giocavi a non notare manco mezzo dei miei approcci.» Antonio lo dice ridendo, è ormai diventata una barzelletta, ma lui di quella sera ricorda davvero solo il modo in cui sembrava sempre sfuggirgli qualcosa.

Hanno aspettato che facesse mattina bighellonando per le strade del centro, il freddo più inclemente di quanto preventivato, per le strade solo loro e qualche goliardico neolaureato portato a spalla dagli amici e con la corona d’alloro di traverso sulla testa.

Era stato divertente.

Per citare Antonio, era stato: intenso, appassionante ed inspiegabile, ma soprattutto divertente.

C’era una luce diversa nei loro occhi, ne sono stati consapevoli fin dall’inizio, mentre cercano di non incrociare i loro sguardi, seduti sugli scalini di quella piazza ancora vuota in quella giornata non ancora iniziata ad ascoltare i suoni di una città che si sveglia.

C’era una musica diversa nei loro corpi, ne erano consapevoli mentre le loro mani si cercavano timidamente, di nascosto, nell’aria ancora frizzante di un’alba di fine marzo vibrano così tante parole non dette da poter riempire cento pagine.

Così tante domande da non sapere quando e come riceveranno risposta.

Nel silenzio di quello spazio ancora vuoto, i lampioni iniziavano a spegnersi uno ad uno, il cielo a tingersi di sfumature rosate, i camion della nettezza urbana che iniziano il loro giro, le prime, pigre macchine viaggiano a velocità sostenuta su strade ancora quasi del tutto sgombre.

Devono restare professionali, si dicono, e quella serata è solo un caso, un unicum, si sono ritrovati a passeggiare insieme per sbaglio, per puro caso, non lo avevano certo programmato.

Quel che programmano, invece, sono le uscite successive.

Lo fanno con meticolosa cura, lontano dai giorni in cui dovrebbero vedersi per lavorare, lo fanno ad orari per molti improbabili ed improponibili, in posti più o meno noti, per motivi più o meno futili.

Funzionano contro ogni pronostico, sia loro sia di chi intorno a loro lavora.

Per quasi un anno non dicono niente, poi Antonio gli lancia sulla scrivania una pagina di annunci immobiliari e sentenzia che casa sua è letteralmente troppo piccola per entrambi e che non c’è modo che possano infilare anche Aniello in quel minuscolo bilocale che gli ha lasciato suo nonno.

« Quindi dovrei iniziare a pagare l’affitto? Niente casa di nonno?»

« Ben arrivato all’alba dei trent’anni. » aveva replicato Antonio, con una gran pacca sulla spalla ed un bacio proprio all’angolo della bocca, prima di sedersi sul bordo della scrivania aspettando impaziente che Flavio si mettesse a scrutare gli annunci con lui.

Da allora hanno cambiato tre appartamenti in tre anni, hanno abbandonato un divano IKEA mezzo scassato in un soggiorno non più loro, hanno bestemmiato per mesi contro una lavatrice che faceva un po’ il cazzo che voleva lei, ma poteva andare peggio. Potevano, ad esempio, ritrovarsi per strada come Rosa e Gabriele perché i topi avevano preso possesso del loro appartamentino con la carta da parati un po’ sbiadita, potevano vedere le maioliche del bagno crollargli addosso mentre erano comodamente seduti sul trono come era successo a Lorenzo ai tempi dell’accademia.

Ancora si chiede come stiano riuscendo a mantenere tutto in piedi, tutto segreto, tutto così abilmente impacchettato da rendere impossibile a chiunque anche solo di immaginare gossip su loro due, i giornali che ogni giorno trovano una nuova fidanzata ad Antonio, le loro colazioni ormai passate a spulciare articoli online di questa o quella testata gossippara.

« A quanto pare mi hanno paparazzato con una bella bionda all’Autogrill dopo Orte. » a volte gli urla Antonio, dal bagno.

« Stavolta chi è? Tiziana o Paola? »

« Dalla foto sembra un cespuglio, Flà, mi sa nessuna delle due. »

È divertente nella misura in cui entrambi sanno che non sono altro che un mare di cazzare, un po’ di inchiostro su carta lucida (o una manciata di battute su un documento Word) per riuscire a riempire qualche pagine e non perdere lettori.

« Se vinco Sanremo ti dedico il premio. Vediamo se capiscono.»

« Perché, vai a Sanremo? »

« Per ora non ne ho idea, potrei. Dopo lo Stato Sociale ci potrebbe andare anche Salvatore ed arrivare prima. »

« Me li vedo già i titoli de domani “Felix blasta lo Stato Sociale, Lodo Guenzi risponde con un post papiro radical chic su instagram”. »

« E rispondesse: io tanto instagram non lo uso. »

« E se anche lo usassi non seguiresti lui? »

« No, lui lo seguirei. Ho un non so che per quelli coi capelli rossi. Sono un po’ strano. »



 

Antonio compare nella cornice della porta, i capelli appiccicati alla fronte, la felpa ormai diventata una seconda pelle, l’acqua che cola dall’orlo dei jeans completamente fradici. In mano stringe un telefonino il cui schermo continua ad accendersi e spegnersi ad intervalli regolari.

Potrebbe pensare ad una valanga di messaggi, soprattutto dopo quello che è successo, ma la vede l’acqua che gocciola anche da lì, vede Antonio precipitarsi verso i pensili sopra al tavolo per prendere il pacco di riso e tuffarci dentro il cellulare.

« Io mi chiedo come abbia fatto Noè a rimanere fedele a Dio quando gli ha tirato addosso il diluvio. » borbotta, il fiato ancora corto di chi ha fatto le scale di corsa ed i movimenti accelerati.

Aniello lo fissa, molto perplesso, dal suo angolo sotto al termosifone, gli occhi ancora mezzi chiusi e Cicerone sulla schiena, due paia di di sguardi persi che osservano la scena e fiutano la tensione nell’aria.

Tre, se si aggiunge quello di Flavio che, immobile, resta accanto ai fornelli con la sua bottiglia d’acqua in mano, lo sguardo fisso sul suo compagno, mentre cerca di leggere qualcosa in quei movimenti ipercinetici, in tutta quell’energia che non sembra saper bene come incanalare.

« In caso tu m’abbia chiamato. » inizia, scuotendo i capelli e schizzando goccioline d’acqua sulle pareti della cucina, il giaccone fradicio abbandonato sul bordo della sedia « adesso sai perché non ti ho risposto. Se invece mi chiedi perché mi sono fatto a piedi e di corsa. » si ferma, si volta, e per un secondo quello sguardo febbrile gli ricorda qualcos’altro, qualcosa che al momento è estremamente lontano e che spera non sia in alcun modo legato a quel che sta per dirgli.

Lo vede sfilarsi le scarpe, pararsi davanti a lui in tutta la sua umidiccia presenza -- una parte di lui vorrebbe intimargli di spogliarsi, mettersi il suo orribile pigiama del Napoli e poi dirgli qualsiasi cosa, la parte più razionale gli ricorda che ha più di trent’anni e che a se stesso dovrebbe saper guardare da solo.

Posa la bottiglia d’acqua, sente di aver le sopracciglia alzate fin quasi all’attaccatura dei capelli, la sua scarsa capacità di vivere bene la suspence che quasi lo spinge ad urlargli di strappare sto cerotto e farlo pure in fretta.

« Dicevo. Me la sono fatta di corsa perché i mezzi non passavano, il telefono era morto e la domanda c’ha bisogno di una risposta veloce: quanta roba inedita abbiamo? Inedita che non l’ha sentita nessuno, né Gabriele né Salvatore né tua madre. Dico per febbraio. »

Il momento di silenzio che segue, breve eppure pesante come un macigno, sembra dilatarsi con la stessa velocità con cui si allarga il sorriso di Antonio, con cui spalanca gli occhi, incredulo.

« La canzone è piaciuta? »

« E che se non era piaciuta ti chiedevo se ne avevamo altre per febbraio, scusa? »

« Posso urlare “andiamo a Berlino, Beppe!” oppure poi la signora Annamaria scende e ce mena e a febbraio nc’arrivamo? »

« Facciamo che non urli niente e andiamo a vedere che roba hai pronta? »

« Ce tieni proprio a vince sto accrocco d’oro, eh? O è per l’ospitata da Fazio? Guarda che non me lo scordo che la Littizzetto t’ha allisciato più de una volta.  »

« È per l’ospitata dalla D’Urso, ovvio, Barbella nel mio cuore. E per la faccia perplessa del telespettatore medio quando vinco e dedico il premio a sto Flavio che chi cazz’è. E comunque dovrei prima vincere la categoria Giovani, così, non per buttarti giù.»

« Perché saresti anche convinto di non passarla? »

« Ma che ne so, metti che al televoto arrivo primo io? E poi vince quel duo padano che canta vestito di verde? »

« In quel caso urli al complotto politico della sala stampa venduta ai poteri forti e alle grandi etichette discografiche. »

Antonio ride, con gli occhi chiusi ed i capelli ancora appiccicati alla fronte, gli ultimi due mesi sembrano non esistere, l’ennesima bufera lasciata alle spalle, torna il sereno senza che loro se lo aspettassero.

Per un secondo, e forse sarà più di un secondo ma per ora si accontenta, un futuro per lo più incerto sembra un po’ meno barcollante, come se quel vecchio ponte di legno dondolante sia finalmente stato trasformato, se non in una superstrada, almeno in qualcosa di vagamente più stabile.

Fuori la pioggia continua a cadere a secchi, scroscia giù dai tetti e lava via qualsiasi cosa ci sia in strada, loro non se ne curano, non si curano dei vestiti fradici, del fatto che la corrente abbia iniziato ad andare e venire e chissà se anche questa volta gli fotterà i modem e dovranno andare a scrocco col wifi degli studenti dell’appartamento accanto.

 
   
 
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