Karma is a
bitch, kiddo
1.
Mikasa
era una donna pragmatica. Seria, diligente e fin troppo responsabile a
lavoro,
non si concedeva molto tempo per pensare: agiva e basta; se
però qualcosa non
le tornava finiva per essere realmente spaventosa e vendicativa
finché la
problematica non si risolveva.
Per
tali ragioni, quella settimana di gennaio si ritrovò a
guardare il portafortuna
stretto tra le sue mani senza essere comunque del tutto convinta di
quanto stava
facendo; credere in quelle stupidaggini o affidare i propri desideri a
un coso che avrebbe dovuto
somigliare a una
coccinella e invece ricordava più uno scarafaggio era
realmente infantile,
persino da disperati.
Davanti
alla fontana, occhieggiò lo
scarafaggio-coccinella-mutazione-genetica stretto
tra le sue mani, infine emise un impercettibile sospiro.
Beh,
il suo desiderio, effettivamente, era un po’ disperato.
Poteva contare lo
stesso, giusto?
Di
sicuro tutta la faccenda del ‘lancia
nella
fontana questo portafortuna benedetto dagli astri e il tuo sogno si
realizzerà’
sostenuta da quella specie di vecchietto, vestito in un incrocio tra un
barbone
e uno pseudo-indovino, era una presa in giro ma, beh, tanto valeva
gettare quell’obrobrio
che aveva in mano e... chissà, magari succedeva davvero
qualcosa capace di
smuovere una situazione ormai statica da diversi anni.
Con
espressione apparentemente apatica, Mikasa si girò di
spalle, scrutò un’ultima
volta la stuatuetta portafortuna, infine mosse il braccio in uno scatto
rapido.
Udì un tonfo nello specchio d’acqua, parecchio
rassicurante sul fatto che
l’oggetto avesse centrato il bersaglio, e allora con gli
occhi chiusi,
ignorando il fatto di sentirsi sciocca e infantile, Mikasa Ackerman
espresse il
proprio altrettanto stupido ma disperato desiderio.
“Vi
prego, dei,
divinità e congiunzioni astrali. Fate che io possa rivedere
Eren.”
Il
cellulare squillò, il Requiem di Mozart. Ci stava bene in
qualunque occasione.
“Eren?”
mormorò istintivamente Mikasa, con il cuore che perse un
battito.
Rapida,
tirò fuori il telefono e rispose, ma prima di poter fiatare
sentì la voce
dall’altro capo anticiparla:
“Oi,
mocciosa, pensi di arrivare entro stasera con i fottutissimi noodles
del pranzo
o devo assecondare Hanji e lasciare che ci faccia esplodere cucina,
casa e il
dannatissimo cortile?”
Assottigliò
le labbra. Sentì un rumore di pentole e qualcosa che si
rompeva, sembrava un
piatto.
No, decisamente
non era
Eren.
“Sono
per strada. Stronzo.” Replicò, tagliente.
Ma
proprio sul filo dello stronzo,
dall’altra parte avevano già staccato il telefono.
Impegnata
com’era a uccidere a sangue freddo prima
l’indovino, poi tutti i suoi
dannatissimi parenti Ackerman, Mikasa non riuscì a scorgere,
in cielo, una
splendida cometa in fiamme atterrare.
*
“Whoa! L’hai vista quella, Eren?”
Questi
annuì, con gli occhi sgranati nei quali riluceva tutta la
bellezza di quello
spettacolo astronomico inaspettato.
Finì
di mangiare il pretzel avanzato da uno dei clienti della caffetteria,
si pulì
le mani dalle briciole sul grembiule e commentò:
“Possibile
che si veda così bene in pieno giorno?”
“Magari
è un aereo in fiamme?” dedusse l’altro,
un ragazzo dai capelli castano chiari,
l’aria osservatrice e un atteggiamento quasi
d’ammirazione nel parlare con Eren
che, per contro, tendeva a infervorarsi troppo facilmente e a non
notare certi sguardi che gli
venivano rivolti.
Sussultarono
entrambi quando udirono aprirsi la porta che si affacciava sul
cortiletto del
retro dove, in quel momento, i due si trovavano.
“Floch,
Eren, conviene che vi sbrigate a rientrare prima che Brzenska si
lamenti della
vostra assenza.”
Annunciò
il ragazzo che si era sporto dall’apertura, anche lui con il
grembiule e la
divisa da cameriere e i capelli biondi un po’ scompigliati.
Floch
annuì con un vago senso di colpa, ma Eren sbottò,
incapace logicamente di
accettare quella che per lui era un’ingiustizia:
“Era
la nostra pausa, Armin, ce la siamo guadagnata dopo aver sgobbato tutta
la
mattina e anche il pranzo. Sono il primo a lavorare quando
c’è bisogno, ma qui
stiamo venendo tutti presi in giro! E non lo accetto!
Voglio...”
Fece
per dire altro, con gli occhi che saettavano furia e senso
d’ingiustizia da
tutte le parti, ma Armin lo prese per un braccio, annuendo, per poi
interromperlo con diplomazia:
“Sì,
sì certo Eren, però tieniti le proteste per dopo
e pensiamo a tenerci il
lavoro, perché abbiamo un affitto da pagare e
l’università, quindi non possiamo
esattamente concederci di contestare la politica aziendale dopo le
feste.”
“Ciò
non toglie che Eren abbia ragione, se non ci fosse lui a dire le cose
come stanno
staremmo tutti chini con la testa bassa” intervenne Floch con
una luce vivida
negli occhi, entrando, evidentemente già dimentico della
pausa di cinque
risicatissimi minuti per sostenere con energia la causa del suo collega.
“Taccagna
e approfittatrice – sbottò Eren, lanciando nel
frattempo un’occhiata a Floch –
aspetti solo che finiamo questo girone infernale di lavoro e gliele
farò
scontare tutte.”
“Certo
Eren, giusto il tempo di lasciare passare il mese di gennaio e ci
pensiamo, ok?
– convenne Armin, con un sorriso morbido sul volto accaldato
e un leggero,
impercettibile, tic all’occhio – ora, pensiamo alle
venti ordinazioni in
sospeso, ti va? E a Jean dalle cucine che insiste perché ci
diamo una mossa a distribuire
le portate visto che sono le quattro passate, che ne dici?”
Eren
si allacciò meglio il grembiule per sbottare istintivamente,
al solo sentire
nominare quello stronzo dell’aiuto-cuoco: “Faccia
da cavallo può anche
andarsene a fanc... – ma si interruppe, vedendo lo sguardo
spazientito di
Armin, correggendosi – va bene, va bene, ci penso io. Andiamo
a portare queste
ordinazioni e facciamo in modo che la gente esca di qui pregandoci di
tornare!”
Annuì,
capace di caricarsi con energia e spirito di autoconvincimento
esemplari.
Poi
corse verso le cucine, litigando brevemente con Jean in uno scambio di
insulti per
partire infine verso la sala. Floch fece un fischio.
“Wow,
Eren sa sempre come affrontare alla grande ogni situazione, anche se la
vita
non è stata esattamente gentile nei suoi
confronti.”
Armin
sospirò, sapendo bene a cosa il collega si stava riferendo,
poi scrollò le
spalle: “Più che altro –
guardò con un’aria quasi rassegnata Floch e la sua
espressione di timida contemplazione – è che Eren sa crederci tantissimo.”
*
La
sera, Eren rientrò nell’appartamento
più morto che vivo. Dopo essersi tolto
l’apparecchio
acustico, crollò sul letto della sua stanza con la faccia
sul cuscino, senza
nemmeno le forze di farsi una doccia. Pazienza, ci avrebbe pensato
l’indomani,
oltre a raccattare i libri e le robe lasciate sparse per la camera,
cercare di
studiare qualcosa in vista dell’esame del giorno successivo e
arrancare la sera
per il turno di chiusura della caffetteria che, in via del tutto
eccezionale,
avrebbe tenuto aperto in vista di una festa di compleanno; questo
voleva dire
gente che si sarebbe ubriacata come se non ci fosse stato un domani,
vomito da
pulire e rischio di litigarci, perché Eren sotto stress
diventava una palla
rabbiosa d’aggressività.
Si
rigirò sul materasso, poi afferrò il cellulare e
decise di posticipare la
sveglia, esattamente come aveva posticipato la doccia. Anche se Armin
aveva in
programma di fare un gruppo di studio, Eren avrebbe potuto aggregarsi
in
seguito e godersi, finalmente, un attimo di tempo per ricaricare le
pile in
vista delle pessime giornate che lo aspettavano.
In fondo, che
mai
potrebbe capitare?
Autoconvicendosi
di star facendo la cosa giusta con la solita ammirevole fiducia in se
stesso,
Eren si addormentò nel letto, mentre il telefono, al suo
fianco, si spense e si
riaccese improvvisamente.
*
“Levi,
secondo te come potrei descrivere meglio questa cosa?”
Domandò
la donna, all’improvviso.
L’interpellato
deviò gli occhi dallo schermo, appoggiò un gomito
sullo schienale della sedia e
fissò la sua interlocutrice, anche lei davanti al computer
con una matita in
precario equilibrio sul labbro superiore, un’altra matita
incastrata tra i
capelli castani spettinati e gli occhiali scivolati fin sul naso.
“Quale
cosa?”
Domandò,
con voce piatta.
Hanji
Zoe, scrittrice e in parte collega del succitato Levi a cui si stava
rivolgendo, gesticolò un istante con le mani, nel tentativo
di dare la forma a
qualcosa per cui, un secondo dopo, Levi si pentì di aver
chiesto informazioni
più specifiche:
“È
che c’è lui, sopra di lei. Ma non proprio che
vuole entrare per vie normali,
più tipo...”
“Oi,
stop, fermati – Hanji lo guardò, per poi tornare a
concentrarsi sulla matita
prima che cadesse, dunque Levi inspirò brevemente
– le entra con il cazzo nel
culo? È questo che vuoi dire?”
Hanji
lo fissò un istante. La matita le cadde dalle labbra. Poi
annuì, lentamente, e
altrettanto lentamente sorrise con quel misto tra beatitudine ed
esaltazione
che inquietavano la maggior parte degli esseri umani, poco consapevoli
del
carattere eccentrico della donna.
“Sì,
sì esatto! Precisamente quello! –
appuntò qualcosa sulla scrivania, mentre Levi
la fissava inespressivo dopo aver roteato gli occhi seccato –
È che forse
dovrei metterci in mezzo qualcosa di più poetico. Alle donne
in età da marito
non è che piacciano queste cose tanto dirette.”
Levi
afferrò per i bordi la tazza di the bollente, ma
continuò a fissare la sua
interlocutrice, mentre il leggero vapore gli ondeggiava quieto davanti
al naso:
“Che
mucchio di stronzate.”
Concluse
alla fine, asciutto.
Hanji
fece un lamento un po’ scenico: “Grazie tante, eh!
Non sei tu che deve vendere
squallidi romanzi rosa con aitanti stalloni dai muscoli improbabili che
cavalcano ricche ereditiere annoiate – si arrestò
un attimo, picchiettando un
dito sulle labbra – o erano ricche ereditiere vogliose?
Mmm... devo rivedere
questo punto.”
Allora,
Levi smise definitivamente di ascoltarla, sbottando mentre si alzava:
“Con quei
romanzi rosa mi ci pulisco il culo. Riprendi a scrivere il tuo cazzo di
libro
di fantascienza.”
Concluse,
chiudendo il dizionario dei sinonimi e dei contrari che usava per
tradurre,
spegnendo il monitor.
Hanji
fece un mezzo sorriso: sapeva che quello era il modo brutale di Levi
per farle
un complimento e incoraggiarla a scrivere ciò che davvero le
piaceva. Almeno,
dopo anni di amicizia era più o meno così che
interpretava quel mix letale di
carattere scostante, diretto in maniera brutale e del tutto privo di
tatto
tranne in casi totalmente inaspettati e, spesso, con un accompagnamento
del
tutto indelicato. Come quando Hanji era scoppiata a piangere davanti al
finale
di Band of Brothers e Levi, seduto sul divano al suo fianco, le aveva
sporto un
fazzoletto commentando: “Asciugati il moccio,
quattrocchi.”
“Stasera
magari do un’occhiata a quella parte nello spazio e vedo di
lavorarci su. Posso
prendermi anche una pausa dai maschioni aitanti.”
Gli
fece l’occhiolino alla parola maschioni
aitanti ma Levi si limitò a farle una mezza
smorfia, per poi riprendere a
ignorarla del tutto mentre apriva la porta che dava sul corridoio e, al
fondo,
alla sua stanza.
“Vai
già a dormire?” domandò ancora Hanji,
consapevole che l’appetito sessuale di
Levi era un mistero la cui scoperta, probabilmente, avrebbe decretato
il
prossimo premio Nobel alla Scienza.
Dal
corridoio non le arrivò alcuna risposta, eccetto una porta
che si chiudeva in
maniera brusca. Segno che... sì, Levi andava a dormire, e
sì, essendo una cosa
ovvia a quel punto non necessitava nemmeno di una risposta.
L’uomo,
provando un profondo senso di sollievo all’idea di essersi
già lavato da capo a
piedi prima di concludere le ultime righe della traduzione,
occhieggiò di
sfuggita i suoi libri sulla teoria della traduzione, i vari dizionari
inglese-tedesco e inglese-giapponese; poi, più accanto,
qualche compendio sulla
contabilità, dei faldoni ordinati per anno e una rubrica
ancora cartacea con i
numeri di idraulici, elettricisti e... sì, persino pompe
funebri.
Perché
in quei cinque fottutissimi anni tutto ciò era diventato una
costante nella sua
vita, più precisamente da quando Hanji si era ritrovata per
le mani un intero
palazzo, ereditato da un prozio morto che aveva intestato tutto
all’unica
nipote che si fosse degnata di ricordarsi di lui. Ancora più
precisamente, dal
momento in cui la suddetta ereditiera continuava a reputare gli
immobili
interessanti solo per essere picconati, rilevare le tubature di gas,
acqua e
cavi elettrici, assistendo con entusiasmo a tutti gli interventi di
riparazioni, mentre progettava storie strampalate su tecnici riparatori
sexy e
casalinghe annoiate, dunque non esattamente un esempio di zelo
burocratico o di
ottica improntata sul guadagno.
Era
una donna con molta fantasia, ma senso pratico rasente lo zero, ragion
per cui
era totalmente inadatta per gestire inquilini indisponenti, rendiconti,
cattivi
pagatori e disastri sostanzialmente nucleari.
Levi
si era trovato progressivamente sempre più invischiato nei
suoi casini, a
cominciare da quando era andato a picchiare uno stronzo che aveva quasi
un anno
d’affitto arretrato e si lamentava pure degli spifferi del
fottutissimo bagno.
Incazzato, irritato dal vedere Hanji a sua volta irritata, Levi un
giorno era
andato a suonargli la porta, il tizio gli aveva aperto e senza dire una
parola
Levi gli aveva assestato un pugno dritto in faccia, per poi prenderlo
impietosamente a calci:
“Comincia
a pagare, figlio di puttana, o il culo congelato mentre vai a cagare
sarà
l’ultimo dei tuoi problemi.”
“Levi,
com’è che finisci sempre per parlare di
cacca?” era stato tutto quello che,
visto lo spettacolo, Hanji aveva commentato. Sì, nemmeno le
reazioni di
quest’ultima di fronte alla violenza erano decisamente
normali.
Così,
più o meno da quell’occasione era stata questione
di... mesi, giorni? Levi
nemmeno lo sapeva con certezza, fatto stava che lui si era ritrovato ad
aiutare
Hanji a gestire quella specie di condominio, creando un piano di
ristrutturazioni e, soprattutto, pulizie come si doveva,
perché le scale
facevano schifo da quanto erano luride, i mancorrenti erano talmente
saturi di
germi da poter prendere fuoco e i vetri erano sostanzialmente un
simulatore di
nebbia dalla sporcizia accumulata in anni.
In
cambio della precisa gestione, Hanji gli aveva offerto di condividere
un
appartamento un po’ troppo spazioso per lei; se
all’inizio Levi aveva rifiutato
categoricamente, con il tempo, dietro insistenza dell’amica e
ben poco disposto
a cercare qualcosa che non fosse una topaia puzzolente, Levi aveva
deciso di
concederle un’occasione di prova per capire se avrebbe dovuto
pensare a come
seppellire il cadavere della donna o, semplicemente, pensare di
comprare un letto
da ficcare nella stanza assegnatagli.
Ebbene,
sorprendentemente, i pensieri di Levi erano stati dirottati verso la
seconda
delle possibilità perché Hanji, nonostante alcuni
momenti d’invadenza, sapeva
essere a suo modo riservata con una sorprendente empatia, in altri casi
semplicemente si estraniava nei suoi deliri creativi. Ancora
più spesso, loro
due soffrivano d’insonnia cronica e si ritrovavano alle tre
di notte a
riguardare qualche vecchissima puntata di Doctor Who, mentre Hanji
agitava un
cacciavite fingendo che fosse un potentissimo Cacciavite Sonico.
Quella
sera, però, Levi sentiva una stanchezza micidiale addosso,
gli occhi infossati
che si chiudevano e la voglia di gettarsi nel letto per non riemergerne
fino al
mattino seguente.
Con
addosso una maglietta dotata della scritta I
solo killed 39 titans and all I got was this loosy T-shirt e
un paio di
boxer neri, il traduttore si gettò di peso sul letto,
schiacciando una guancia
contro il cuscino.
Dilatò
impercettibilmente le narici.
C’è
puzza di
fottutissimi noodles, arriva dalla cucina. Se non penso io a mettere
via gli
avanzi, né la mocciosa, né la quattrocchi si
ricordano...
Cos’è
che doveva ricordarsi? Levi smise di pensarci. Ebbe un’idea,
prima di
capitolare definitivamente: non aveva visto la spettacolare cometa che
era
passata quella sera nel cielo. Hanji gli aveva quasi rotto
l’osso del collo per
fargli alzare la testa, ma era stato comunque troppo tardi.
Non
seppe perché, ma Levi ritenne di essersi perso qualcosa
d’importante.
*
Aveva
sentito suonare una sveglia e sussultò di colpo,
perché partì alla riscossa il
ritornello di Fluorescent Adolescent degli Artic Monkeys –
che, per carità, li
amava ma non ascoltava quella canzone da secoli. Eren si mise di scatto
a
sedere, spalancando gli occhi nella semioscurità mentre il
suo cervello gli
diceva di non ricordarsi di aver salvato quel brano, ma lo mise a
tacere; forse
aveva cambiato sveglia la sera prima e non se l’era ricordato.
A
tentoni, mentre la musica continuava, cercò il cellulare.
Rise, sull’onda di
una crisi isterica, perché il comodino incasinatissimo con
quell’affidabile pila di
libri e fumetti su
cui era solito posare delicati oggetti tecnologici era sparito,
mentre la musica continuava a volume sufficientemente alto
da poterla sentire entrargli nel cervello.
Allungò
l’altra mano e finalmente scoprì che il comodino
doveva essersi trasformato in
una mensola quadrata, bassa, mangiandosi anche i fumetti nel frattempo
visto
che era sostanzialmente vuota eccetto un libro rilegato messo
simmetricamente
rispetto al lato. Ma quando mai Eren metteva le cose simmetricamente
ordinate?
Eren
afferrò il telefono e realizzò che doveva
trattarsi di una chiamata e non una
sveglia. Vide anche che erano le sette del mattino, infatti era strano:
andava
bene ogni buon proposito, ma svegliarsi a quell’ora era da
suicidio.
Rimase
però interdetto quando vide che era... Mikasa a chiamarlo.
Non si sentivano da
più o meno dalla fine del liceo, quando sia lui che Armin
avevano seguito rispettivamente
l’uno sua madre ed Eren i suoi genitori, lasciando Mikasa in
balia dei propri
parenti, quelli Innominabili di cui non parlava mai; purtroppo,
l’ultima volta
che si erano visti tutti e tre non era finita esattamente benissimo.
Dopo
un istante Eren rispose. Notò anche uno sfondo dello schermo
con una cabina
azzurra – altra roba che non si ricordava minimamente di aver
cambiato.
“Mikasa?”
Domandò
aggrottando appena le sopracciglia. Dette un colpo di tosse, sentendo
la
propria voce più bassa del solito.
Si
sarebbe aspettato quantomeno un Eren!
Detto con un po’ di stupore e l’aggiunta di una
frase schiva, com’era tipico
del carattere silenzioso di Mikasa, invece l’unica risposta
che ebbe fu un
gelidissimo:
“Sto
andando a lavoro, Kenny è ancora sverso
nell’ingresso. Ho fatto il possibile
per il vomito.”
Eren
tacque.
Mmmh,
non esattamente la conversazione che si sarebbe aspettato, insomma.
“Kenny?”
domandò dopo un istante. Non sapeva se magari aveva
difettato qualcosa nelle
orecchie. Ma, sorprendentemente, non aveva mai sentito così
bene. Si tastò
dunque le orecchie, realizzando di non aver nemmeno messo
l’apparecchio
acustico.
Sentì
benissimo anche un sospiro
spazientito dall’altra parte:
“Mi
stai prendendo in giro? Sì, Kenny, nostro zio, il primo
stronzo a parimerito
della famiglia Ackerman. È uscito con una tipa ed
è rientrato in casa giusto
per vomitare sul tappeto d’ingresso del condominio.
L’ho lasciato lì, sono già
in ritardo.”
“Kenny
– ripeté Eren, perplesso – me ne avevi
accennato insieme all’altro tizio, è lui
il secondo stronzo? Insomma, Mikasa, sono passati anni, dopo tutto
questo tempo
mi chiami per parlarmi di tuo zio annegato nel vomito? Ok spezzare il
ghiaccio,
ma qui c’è decisamente qualcosa che mi
sfugge.”
Dall’altra
parte Mikasa tacque un istante.
Dopodiché
replicò: “È per i noodles,
vero?”
Sembrava
irritata. Lei si sentiva irritata,
questa era bella. Eren
scattò in
piedi – strano, si sentì... basso.
Annusò l’aria, concedendo:
“Sì,
c’è puzza di noodles, non è questo
il...”
“Lo
sapevo, tipico. Sai che c’è? La prossima volta la
cucina lavatela da solo! Ci
sentiamo, Levi.”
A
Eren parve di udire un sussurato nano
malefico, ma non ne fu certo perché la chiamata
era stata brutalmente chiusa.
Però
aveva sentito chiaramente un Levi. L’aveva chiamato Levi?
Mikasa aveva bevuto?
Alle sette del mattino era tragica anche per chi soffriva
d’alcolismo, ma lei
gli era sempre sembrata una donna ben più che responsabile.
Eren
si passò una mano tra i capelli, scostandosi un ciuffo nero
da davanti agli
occhi, mentre contemplava una stanza ordinata, almeno quello era un
pensiero in
meno all’idea di dover gestire strambe telefonare e pulire
pure camera che...
Un
momento.
Da
quando aveva i capelli neri?
E,
soprattutto, da quando aveva una stanza ordinata? Si guardò
attorno. Il cuore
prese a battere più veloce, sgranò gli occhi,
confuso. Quelli... quelli non
erano i suoi oggetti, ora che li osservava attentamente: niente poster
dei
Kinky Talks, il suo gruppo preferito e sconosciuto a quegli sciocchi
comuni
mortali ignoranti di musica, niente bersaglio per le freccette con la
faccia di
Jean traforata, niente ulteriori fumetti e videogiochi sparsi.
Eren
si toccò la faccia. La sentì più
spigolosa, i capelli più lisci, poi abbassò lo
sguardo e vide una maglia mai indossata, e più sotto dei
boxer neri che non
ricordava di aver indossato: suvvia, che senso aveva indossare la
biancheria
intima a letto?
Quando
qualcuno entrò spalancando di botto la porta al grido
euforico di:
“Levi!
Lo stalliere e la ricca ereditiera! Hanno fatto sesso, ce
l’ho fatta! Contro
ogni mobile in arte povera disponibile!”
“Cazzo!”
Urlò Eren, irritato e spaventato dal vedere entrare
all’improvviso una tipa
altissima con gli occhiali e la faccia da esaltata che
ribatté:
“Sì,
è fantastico vero? Sono entusiasta
anch’io!”
*
C’era
stato un tempo in cui Levi aveva pensato di possedere un notevole
controllo
sulla propria vita; certo, esistevano comunque degli imprevisti che lo
costringevano a variare leggermente gli intenti prefissati, ma in un
modo o
nell’altro l’uomo era sempre riuscito a evitare il
disastro totale e salvare la
giornata.
Ecco,
quella volta Levi ebbe la smentita di qualunque cosa detta di cui sopra.
Aprì
gli occhi dopo aver faticato diversi istanti, come se le palpebre gli
si fossero
incollate sopra. Istintivamente dilatò le narici per
cogliere ancora l’odore
rivoltante dei residui di cibo del giorno prima, ma soprendentemente la
puzza
di noodles era stata sostituita a qualcosa che ricordava puzza
di stanza d’adolescente fetido in abiti da universitario.
Il
Maligno.
Mikasa
aveva tanti difetti, tra i quali essere un’universitaria, ma
perlomeno non
puzzava. Aprì gli occhi, sollevò le coperte e
sentì un fastidio immediato,
procurato da un freddo alle palle che rappresentava l’ultima
ciliegina sulla
torta di quella mattinata già cominciata di merda.
Si
alzò a sedere, stropiacciandosi lentamente gli occhi, per
poi abbassare lo
sguardo e rimanere pietrificato.
Realizzò
due cose, quella mattina: prima di tutto, di essere nudo. Niente
maglietta
comprata online, niente boxer neri, nulla. Seconda cosa e,
possibilmente ancora
più sconvolgente, il cazzo... non era il suo. Proprio zero,
nada, errore di
sistema.
Scattò
in piedi, rivoltando le coperte, rigirandosi con le natiche
all’aria e i
gioielli di famiglia, per poi guardarsi attorno braccato:
c’era caos, caos e
disordine. E... polvere. Cristo Santissimo la vedeva, sopra ogni
scaffale pieno
di dispense, fumetti, fotocopie, libri e altri testi imprestati dalla
biblioteca come ogni universitario pezzente sembrava fare
d’abitudine. Per non
parlare di poster di tizi sconosciuti, una foto trapassata da freccette
in
plastica e videogiochi vari.
Fottuto,
era fottuto.
Afferrò
il lenzuolo, se lo mise addosso come un mantello e aprì la
finestra, prima di
morire soffocato, poi pensò, guardando la porta della
stanza: Hanji. Deve
essere là fuori nella cucina a cercare di preparare un
caffè
filtrato che sa di acqua sporca, ma Dio solo sa quanto mi vada bene
anche la
sua brodaglia schifosa in questo momento.
Aprì
la porta, incurante di essere sostanzialmente un incrocio tra un
maniaco e un cos
player fallito di un antico romano.
Dall’altra
parte, invece, il brillante e gentile Armin Artlet fece per sorridere
nel
sentire Eren già in piedi e lo cominciò a
salutare con un:
“Ciao,
Eren, che bello ved...”
Si
bloccò. Anche l’altro si arrestò, con
una mano ancora sulla maniglia.
Armin
guardò un po’ spiazzato Eren con i capelli come
sempre disordinati, sulle
spalle le lenzuola, un’aria affannata e tutte le sue
nudità allegramente
all’aria. Non che Armin non avesse avuto occasione di vederlo
nudo in quegli
anni di convivenza, ma sicuramente mai con un prototipo barbone di
mantello,
specie di prima mattina, in cui Eren non si alzava nemmeno se gli
avessero
regalato un biglietto al concerto di una delle band sconosciute che
piacevano
soltanto a lui.
Levi,
dall’altra parte, aveva visto un tizio biondo, coi capelli
che ricordavano un
incrocio tra He Man e un fungo, lo sguardo fastidiosamente pacifista e
le labbra
che avevano detto qualcosa ma lui aveva colto appena un suono leggero.
La cosa
che lo inquietò è che gli ricordava Erwin, e
sapeva, poteva giurarci sul suo
set di panni elettrostatici, c’era un motivo più
che valido per quella
somiglianza, ma in quel momento i suoi neuroni si connettevano a
rallentatore.
“Che
hai detto? Alza la voce!” ribattè dunque, per poi
guardarsi attorno. Un divano
sfondato, mobili recuperati forse alla discarica, poster da hypster di
eventi
musicali e film pieni di denunce sociali, pareti dalla tappezzeria
imbarazzante
mai cambiata nel corso dei secoli. La camera universitaria era
tramutata nel
salotto universitario. Levi sentì un moto di disgusto
salirgli alla bocca dello
stomaco.
Armin
sospirò, alzando la voce: “Eren!
L’apparecchio acustico! Hai dimenticato di
metterlo?”
Levi
lo fissò, smettendo di guardare la pila di piatti sporchi
con residui di cibo
precotto e si girò verso il ragazzetto biondo. Aveva parlato
a rallentatore ma
se non altro era riuscito a capire tutto, compreso un nome mai sentito
prima.
“Eren?
Chi cazzo è Eren?” gli era uscita di getto quella
domanda, la testa che aveva
cominciato a vorticargli per quell’insieme di cose mai viste,
né sperimentate.
Armin
cercò di non guardare l’amico come se stesse
osservando una persona con
evidenti problemi mentali, ma non fu certo di esserci riuscito. Con
tutto il
tatto possibile disse sempre a voce alta, mettendo su un sorriso
conciliante:
“Dai,
non scherzare. Jaeger, Eren Jaeger. Sei tu, su, fingere una crisi
d’identità
non ti aiuterà denunciare Brzenska per sfruttamento sul
lavoro.”
Levi
lo fissò, senza battere ciglio. Deglutì un solo
istante, poi lentamente annuì,
due volte, cercando di riprendere il controllo di se stesso o,
perlomeno, di
quanto era rimasto di sé.
“Il
bagno. Dov’è?” domandò
asciutto.
Armin
aveva conosciuto Eren sotto molte sfaccettature bizzarre, ma se non
altro era
sempre stato estremamente discreto e autonomo nell’espletare
le proprie
funzioni corporali. Però non volle questionare e
indicò la porta al fondo del
corridoio:
“Laggiù.”
Lo
vide annuire, molto più serio del solito, e dirigersi verso
il bagno.
Levi
dovette impiegare un istante per calibrare piede e cervello, rendendosi
conto
che, oltre a non sentire un cazzo, si avvertiva sbilanciato e
fastidiosamente
più in alto del normale. Non ebbe tempo per pensarci. Con
ancora indosso il
lenzuolo spalancò la porta del bagno, la richiuse con un
gesto secco e si
fiondò verso lo specchio.
Rimase
paralizzato, con le mani inchiodate al lavandino – che, per
giunta, aveva delle
incrostazioni di dentifricio risalenti probabilmente al pleistocene
– ma Levi
era impegnato a vedere altro per notare i residui bellici di tardo
adolescenti
fuori controllo.
Aprì
appena la bocca, poi la richiuse.
Non
vide riflessi nello specchio i propri occhi un po’ affossati
nelle occhiaie, né
i capelli neri che tagliava alla stessa maniera da anni: ricambiavano
il suo
sguardo, infatti, due occhi verdi decisamente più grandi e
vitali dei propri,
contornati da capelli castani spettinati e sopracciglia piene.
Si
sfiorò lo zigomo maggiormente morbido, con un velato accenno
di barba, e lasciò
lì le dita, la testa che gli vorticava, la salivazione
assente. Non aveva mai
visto nulla di più bello in quegli ultimi anni, anche se
faticò a sentire la
propria voce quando mormorò:
“Eren.
Io sono... te.”
Sproloqui di una zucca
Ebbene sì, dopo eoni finalmente sono tornata a scrivere sul fandom di AOT. In realtà avevo in testa questa storia da mesi e l'ho scritta nei vari ritagli di tempo. Ora è giunta quasi alla fine e, siccome avevo bisogno di qualcosa di leggero e carico d'ironia, ho pensato: pubblichiamo! Quindi beccatevi questo racconto (sarà di 11/12 capitoli credo) che spero vi farà fare qualche risata, anche se ogni tanto ci saranno delle punte di angst perché, suvvia, altrimenti non sarei io XD Ma comunque il tutto sempre alternato a eventi un po' bizzarri, inseguimenti, e via dicendo; nonostante il filo ironico, la storia non sarà mai demenziale e, soprattutto, cercherò sempre di rendere IC al massimo ogni personaggio che vi prenderà parte.
Due ultimi punti prima di salutarvi:
1. L'idea dello scambio di corpi è superusata: negli anime, nella letteratura, nei film e via dicendo. Tanti saluti. Posto ciò, lo svolgimento di trama sarà totalmente mio personale e, spero, con imprevisti divertenti/dinamici.
2. Ogni capitolo avrà il titolo di una canzone (questo, per esempio, è degli Artic Monkeys), titolo sul quale potrete cliccare per sentire la canzone stessa e avere un po' l'idea del ritmo. Cercherò sempre in ogni capitolo di mettere un riferimento a tale suddetta canzone scelta, perché mi diverto a mettere richiami vezzosi, e perché in un certo senso il titolo richiama il contenuto del capitolo stesso.
Giunti fin qui, vi ringrazio per aver letto. Come sempre, recensioni, opinioni e quant'altro sono ben gradite. Alla prossima!