Serie TV > Il commissario Rex
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Autore: Tetide    21/07/2009    8 recensioni
Chi si ricorda la serie televisiva "Il commissario Rex"? Questa è una fic piccola piccola incentrata proprio su quella serie, anche se di tono assai diverso dalla serie stessa: si tratta dei pensieri della criminologa Patricia Nebok, la compagna del commissario Moser, dopo la morte di questo. Un pò sperimentale, un pò strappalacrime.
Genere: Triste, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DA QUANDO NON CI SEI DA QUANDO NON CI SEI

Disclaimer: questo lavoro è una fanfiction ispirato al telefilm “Il commissario Rex”, e non ha alcuno scopo di lucro; i personaggi non mi appartengono,  ma sono di esclusiva proprietà degli autori Peter Hajek e Peter Moser, delle società di produzione Mungo-Film, ORF e SAT. 1, oltre che delle società di distribuzione rispettive per ogni Paese. Il diritto d’autore è tutelato dalle leggi sul copyright e qui non ne è intesa alcuna violazione.

Chi ricorda la serie Austriaca “Il commissario Rex”? Io la seguivo con molto piacere, e la trovavo coinvolgente e piena di colpi di scena; soprattutto, mi piacevano le prime stagioni, quelle con il bellissimo commissario Ricard Moser (Tobias Moretti); e proprio al momento della sua uscita di scena è ambientata questa one-shot: si tratta dei pensieri della sua compagna, la criminologa Patricia Nebok, all’indomani della morte del commissario Moser.  


… E non ci sei. Non più.
Sono passati giorni, notti, minuti: ma tu non tornerai più.
Giorni, notti,  minuti… quanto tempo è passato? Non lo so. La mia coscienza è andata via con te.
In questo luogo dalle pareti coperte di asettiche piastrelle lucide bianche, dove sono dello stesso colore anche i mobili, i letti, tutto quanto mi circonda… da quanto tempo mi trovo qui? Non lo so più. So solo che tu non ci sei.
Da quando non ci sei, non ci sono più neanch’io. Non sono morta con te: semplicemente, ho cessato di esistere. Ho cessato di vivere, continuando a vegetare. Mi trovo qui, e basta.
Non ho coscienza del presente, non esiste più il presente: se qualcosa è rimasto di me, sono i ricordi del passato, del nostro passato insieme; ricordo due amanti felici, due anime che si erano unite da poco, trasportate dai marosi della vita: dividevamo tutto. Tutto. Il lavoro ci univa; la notte eravamo insieme, sempre. Non ci siamo mai lasciati un momento.
Ricordo ancora quello che mi dicesti quella sera, la nostra ultima sera.
“Quando tutto questo sarà finito, ce ne andremo lontano”.
Ed ora, tutto questo è finito. Ma tu non ci sei.
Ricordo il tuo dolce sorriso di quella sera, ricordo il calore della tua mano sul mio viso: ogni tanto continuo a sentirla, lo sai? La sento di più, da quando tu non ci sei.
Ricordi lontani di felicità, di noi due assieme… tu che venivi a salvarmi da quel pazzo… poi più nulla! I miei pochi ricordi di quel luogo maledetto dove hai lasciato la tua vita, sinistro e squallido come solo i teatri di omicidi e sevizie sanno essere, sono tinti di grigio, di un cupo color ruggine: lo stesso colore che, permeando silenziosamente ogni cosa laggiù, urlava, urlava…
Urla di dolore, urla di orrore: quegli oggetti sinistri ed inanimati avevano occhi e voce, perché troppo male avevano visto, di troppo terrore erano stati testimoni. E ti hanno visto andar via da me.
Talvolta, nei miei ricordi, riaffiora il suono di quel proiettile, quell’esplosione che ha spezzato la tua vita e la mia anima; e mille echi, adesso, lo moltiplicano all’infinito, sui muri bianchi ed asettici, sulle mattonelle lucide, nell’aria senza luce di questo luogo.
Di quel che accadde poi, non ricordo più nulla.

Tante persone entrano ed escono da questa stanza; mi vengono vicine, mi parlano; io le vedo, le sento, ma non posso rispondere: non posso muovermi. Sono come morta.
Molti di essi li conosco, eravamo colleghi, un tempo; mi vengono vicino, si appoggiano al letto e mi dicono “Patricia… torna da noi! Devi tornare!”. Sento le loro mani sulle mie, ma non mi muovo: il mio corpo è lì, su quel letto, ma io sono in un altro luogo, un luogo dove non esiste coscienza, né tempo.
Eppure li sento, anche da qui: “Collasso nervoso totale… crollo di tutte le funzioni motorie, della parola, persino delle reazioni al dolore”, “Ma lei può sentirci, dottore? Può vederci?”, “Non lo so. Probabilmente sì”.
Mi hanno fatto di tutto, qua dentro. Prima i sedativi, un sonno perenne: “Rischio suicidio”, dicevano; poi le scosse, quelle piccole scosse alle mani ed ai piedi come tante punture di spillo, che si perdevano nelle mie gelide membra, senza portare risultato alcuno. “Nessuna reazione… la situazione è grave…” continuano a ripetere.
Ma è tutto inutile, perché io sono fuori da questo corpo, dal mio corpo. Sono come morta.
Mi hanno anche messo davanti uno specchio, credendo che avrei reagito rivedendo me stessa; ma tutto quello che ho visto è stata l’immagine di un cadavere di donna, grigio, immobile, gli occhi spalancati, una bocca pallida e senza vita; le mie labbra sono semiaperte, i capelli mi sono cresciuti un po’ oltre le spalle: sembro una bambola di porcellana appoggiata su di un tavolo. Ed una bambola non si può muovere.

“Signor Boch, benvenuto. Sono lieto che abbia risposto alla mia chiamata! Forse, vederla aiuterà la signora a reagire dal suo stato”,
“E’ quello che spero, dottore. Col suo permesso, ho portato qui anche il cane”,
“Quale cane?”,
“Rex, il pastore Tedesco. Era il cane di Ricard. Spero che possa aiutare Patricia: gli era molto affezionata, come ad ogni cosa che apparteneva a Ricard”.

“Ecco, la signora è in questa stanza, sul letto là in fondo. Prego, signor Boch!”.
Un’ombra si avvicina a me, un’ombra che diventa presto una sagoma: è Christian Boch, uno dei colleghi di Ricard. Si china su di me, mi guarda; “Patricia, si ricorda di me?”, mi dice. Vederlo mi fa uno strano effetto: ho come l’impressione che anche Ricard, il mio Ricard, stia per entrare da un momento all’altro in questa cella dai muri lucidi. Ma so bene che non è così: lui se n’è andato, non tornerà mai più.
Cosa si è posato sul letto accanto a me? Posso avvertire il contatto di qualcosa di morbido e coperto di peli… un mugolìo strano… ora lo vedo… sì, è Rex, il cane di Ricard. Anche lui mi guarda, come tutti gli altri: vorrebbero tutti riportarmi a questo mondo, dal quale sono fuggita lasciando solo il mio corpo su questo letto.
Si china anche lui su di me, mi sfiora con il muso le mani… le mie mani morte, immobili… lo sento, è la prima sensazione fisica che provo da tempo, da tanto tempo… è come se Ricard mi stesse chiedendo di tornare indietro attraverso il suo cane… Ricard…
“Ricard…”,
“Dottore, venga! Venga, presto! Ha parlato! La dottoressa Patricia ha parlato!”,
“Come? Come dice, signor Boch? E’ impossibile, si trova in quello stato da settimane, ormai!”,
“Le dico che ha parlato! Venga a vedere!”,

Lui vuole che torni. Che continui a vivere. Per entrambi. Non posso deluderlo: non lo farò!
Riposa in pace, amore; tornerò, continuerò a vivere per te: per noi.

 


  
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