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Autore: Reaperonzolo    31/03/2019    2 recensioni
[Mercymaker]
“Non si è sempre chiamata così, ovviamente...il suo nome era Amélie Guillard. Prima che lo sostituisse con “Lacroix”, il cognome che utilizzò da quel momento in poi dopo essersi sposata...”
Un incontro fortuito, un'amicizia stretta, un amore non corrisposto. Il rapporto tra Amélie e Angela passò attraverso queste fasi.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I’m happy for her
 

Storia partecipante all'iniziativa "Red as your lips 2019" indetta dal gruppo facebook LongLiveToTheFemslash.
Prompt ricevuto: My BFF is getting married. I'm happy for her.: A è la testimone di nozze della sua migliore amica. E dell'unica donna che abbia mai amato.
Storia partecipante all'iniziativa "Bananawatch Fanfiction Saga" del blog tumblr  https://overdrugs-mayhem.tumblr.com/
Il testo contiene delle parole in francese di cui troverete la traduzione in basso, a fine fanfiction.

 

 

Il vento gelido invernale le sferzava violentemente il viso e la faceva tremare, nonostante fosse ben coperta dalla sua sciarpa beige e dal caldo berretto di lana. Si portò una mano tra i capelli e, con grande fastidio, notò che erano arruffati e pieni di neve.

Bell’idea uscire a piedi e con questo tempo, in nome della salute.

Però aveva iniziato a tempestare quando ormai era a metà strada - prima il tempo aveva retto - e non poteva più tornare indietro. Strinse il grosse borsone che portava con sé e sperò solamente che Torbjorn fosse in casa.

Arrivata davanti all’ingresso premette immediatamente il campanello e si mise ad aspettare. Udì un tonfo sul pavimento e passarono diversi secondi prima di sentire dei passi avviarsi verso la porta. Che cosa stava facendo Torbjorn?

Finalmente la porta si aprì e le sue narici vennero inondate dal profumo dolce e gustoso del cioccolato caldo appena fatto aromatizzato all’arancia.

Cioccolato svizzero, non c’è dubbio.

Si aspettava di trovare il basso e barbuto collega di una vita, invece le si parava davanti una giovane donna dai capelli rossi, raccolti in una coda di cavallo. Era più alta di lei e più massiccia. La maglietta nera che indossava, su cui vi era disegnata la simpatica scritta “I like exercise because I love eating”, lasciava ben vedere le spalle larghe e i muscoli scolpiti delle braccia.

“Angela! Da quanto tempo!”

“Brigitte?”

La ragazza la abbracciò vigorosamente; poi si fece da parte per farla entrare. “Entra che si gela fuori.” Angela non aspettava altro e balzò subito in casa, trascinandosi dietro la pesante borsa. Mentre si toglieva cappotto e cuffia, squadrò la stanza in cui si trovava: davanti a lei, addossato alla parete, vi era un lungo tavolo da lavoro sui cui erano appoggiati diversi attrezzi; bulloni, cacciaviti, chiavi. Fu tuttavia uno strumento ben più grosso a catturare la sua attenzione. Sulla sinistra c’era un grosso scudo grigio costituito da una barriera energetica per subire i danni e dotato di un pregevole ornamento al centro, un leone in pietra a cui erano stati dipinti gli occhi di giallo. Chiunque l’avesse costruito non solo era un bravo ingegnere, ma aveva anche il senso del gusto. Sulla destra, su di un altro ripiano, c’era un piccolo piano cottura, da dove proveniva il delizioso profumo di cioccolato che aveva sentito all’ingresso. Sulle mensole immediatamente più in alto erano riposte delle tazze e numerosi sacchetti e scatole contenenti dolciumi, immaginò Angela. Le pareti erano abbastanza spoglie, fatto salvo per alcuni poster e immagini, raffiguranti armi e sistemi offensivi e difensivi.

La stanza in cui si trovava aveva tutta l’aria di essere un’officina meccanica. “Ma...ho sbagliato ingresso?” Nonostante fosse stata più volte a casa di Torbjorn e della sua famiglia in passato, Angela si ricordava che l’officina fosse nel piano inferiore della casa.

“Ah, no no...io e papà abbiamo fatto delle modifiche recentemente.” disse Brigitte, mentre prendeva il cappotto di Angela e lo sistemava sull’appendiabiti in un angolo della stanza. “Dato che sia io che lui passiamo gran parte del tempo qui, abbiamo deciso di spostare l’officina meccanica, cosicché anche i clienti possano trovarla più facilmente. Solamente...dobbiamo ancora mettere un’insegna o una cosa del genere.”

Brigitte notò che aveva lasciato a terra il suo bilanciere con ancora attaccati i due pesi. “Scusa per il disordine, stavo facendo esercizio.”

“Scusami tu, non volevo disturbarti, pensavo...”

“Non preoccuparti Angela. Sono davvero contenta di rivederti.” La rassicurò con la sua voce gioviale. “Ho messo tanto ad aprirti perché mi sono sistemata un attimo.”

Solo ora notò che Angela era in piedi al centro della stanza, le guance ed il naso colorati di rosso ed i capelli scompigliati. Si sfregava velocemente le braccia per darsi calore.

Brigitte sogghignò. “Passeggiata di salute?”

L’altra sbuffò. “Lascia perdere. A volte mi chiedo ancora perché mi do’ retta.”

“Accomodati pure.” Indicò un divanetto dall’altro lato della stanza. “io preparo le tazze per la cioccolata.”

Angela fece come le era stato consigliato e sospirò di sollievo: finalmente cominciava a scaldarsi. Prese un elastico dalla tasca dei pantaloni e si legò i lunghi capelli biondi, ancora umidi e fuori posto. Ma perché non li aveva lasciati corti, come quand’era giovane?

“Allora...cosa ti porta qui? Avevi un appuntamento con papà? Purtroppo è uscito, ha avuto degli imprevisti...strano che non te l’abbia detto.”

Le parole fecero scattare qualcosa in Angela che prese subito, dalla tasca dei pantaloni, il suo mini holopad e controllò i messaggi. Figurava proprio una notifica.

 

Dottoressa Ziegler, purtroppo ho avuto un imprevisto e mi tocca spostare l’appuntamento. In casa, però, c’è mia figlia, Brigitte. Sarebbe sicuramente molto contenta di rivederti e può aiutarti con la tua roba da riparare. A presto.

- Torbjorn Lindholm

 

Si morse il labbro inferiore. “Uh...oggi non ho proprio la testa.” Sospirò sconsolata. “Ho letto adesso il suo messaggio.”

Brigitte ridacchiò: “Sempre indaffarata e con tanti pensieri in mente...”

Angela si alzò e le andò vicino per aiutarla a versare la cioccolata. Aprì la mensola e rimirò tutte le tazze, bene in fila. Non erano tazze casuali, avevano dei segni di riconoscimento, per così dire...appartenevano a lei e ad i suoi ex colleghi di Overwatch.

“Non ci credo...le hai ancora?”

Brigitte spostò lo sguardo per capire a cosa si riferiva e sorrise. “Certo! Sono ricordi importanti.”

Angela provò a riconoscerle tutte: Fareeha, Ana, Jack, Lena, Reinhardt...Ne prese poi due; una circolare che ricordava il muso di un gatto e la sua, una semplice tazza in porcellana sulla quale era disegnata una piccola croce rossa e la scritta “self medicating”.

“Hai sempre avuto un’ampia immaginazione.” disse Brigitte, mentre versava la cioccolata calda.

“La scelta era tra questa oppure quella del bellissimo stetoscopio rosa in offerta. Ho optato per quella più sobria.”

L’amica sogghignò e si sedette sul divanetto, invitando l’altra a fare lo stesso.

“Winston sta richiamando tutti i vecchi agenti di Overwatch. Molti si stanno già adoperando per ricostruire il quartier generale qui a Zurigo.” Si fermò, con gli occhi che brillavano per l’emozione.

“Combatterò anche io stavolta.”

Angela si ustionò la lingua. “Cosa?!”

La ragazza più piccola aveva un ghigno divertito dipinto sul volto. “Hai sentito. Finalmente quelle storie...quegli eroi di cui mi hanno sempre parlato mio padre e Reinhardt...anche io entrerò a farne parte!”

Angela sapeva che era quasi impossibile cercare di contenere l’entusiasmo della sua amica quando quest’ultima era decisa su qualcosa, ma ci provò comunque. “E’ troppo pericoloso, Brigitte. Non si tratta di storie eroistiche...cioè, sì...veniamo visti così, ma la realtà è comunque diversa!”

“Lo so. Per questo ho seguito Reinhardt quando è stata sciolta l’organizzazione.”

“Ma...”

“Angela.” Il suo tono pareva essere quello di una persona che ha ben chiare in mente le sue priorità. “Non posso più stare solo a guardare.” La dottoressa la fissò a lungo; cercava di captare un qualsiasi segno di insicurezza, timore o ripensamento negli occhi dell’altra. L’avrebbe compreso, dopotutto, e anche sostenuto: combattere significava rischiare anche la vita.

Tuttavia, non scovò alcuno di questi segnali. Lo sguardo e la determinazione di Brigitte le ricordavano una sua vecchia, carissima conoscenza. La persona che la spinse ad entrare in Overwatch, colei che sosteneva lei ed i suoi progetti, le sue ambizioni. L’unica, anche, di cui si fosse mai innamorata…

Prima che tutto si sgretolasse.

Angela sospirò e, con un mezzo sorriso, porse la mano a Brigitte che la prese vigorosamente. “Benvenuta nel club allora.”

La dottoressa sapeva che, d’ora in avanti, avrebbe avuto più di un occhio di riguardo verso la sua giovane amica, non poteva permettersi che si facesse del male.

Parlarono ancora un po’, sorseggiando le loro cioccolate aromatizzate, ormai tiepide; poi l’attenzione di Brigitte si catalizzò sul grosso borsone a terra. “Qualcosa da riparare? Fammi vedere, forse riesco a fare qualcosa.”

Angela si alzò e tirò fuori dalla borsa la sua tuta Valkyrie, una corazza leggera che usava sui campi di battaglia. Aveva decisamente visto giorni migliori: vi erano tanti graffi qua e là; alcuni, più profondi degli altri, erano veri e propri squarci che avevano lacerato il tessuto. Ma la cosa più preoccupante in assoluto erano le ali, robuste strutture a forma di ala d’angelo che permettevano ad Angela di volare, letteralmente, da un alleato in pericolo all’altro. Si era quasi staccato il punto in cui l’ala era sigillata alla parte posteriore della tuta e vi erano grossi buchi su entrambe le strutture.

Brigitte le lanciò uno sguardo preoccupato. “Ma… che significa?” disse, mentre portava la tuta Valkyrie sul tavolo di lavoro, sgomberandolo da tutto il resto.

La voce di Angela si incupì improvvisamente. “A volte...le cose non vanno come speravi. Questo ti porta a fare delle cose stupide...e a pagarne le conseguenze. La cosa più brutta in tutto questo è essere consapevoli di avere una parte di colpa.”

“Angela, chi è stato?”

“Quel rimorso che non se ne andrà mai...” ignorò la domanda, persa nei dolorosi ricordi.

“Chi è stato a farti questo, Angela?” la voce più alta di Brigitte la scosse dal suo monologo ad alta voce e le uscì appena un sussurro: “Widowmaker”.

“Non si meritava un destino così crudele.” Constatò la dottoressa, tornata alla realtà.

“Che cosa le è successo?”

“Torbjorn e Reinhardt non te ne hanno mai parlato?” Angela chiese curiosa.

Brigitte scosse la testa. “Solo qualche cenno generale. Che è un’assassina formidabile e non sbaglia mai un colpo.”

“E’ una storia lunga...” Angela aveva un tono basso e sconsolato, come se le costasse un’enorme fatica rievocare quei ricordi.

In quel momento il vento forte, proveniente dall’esterno, fece tremare la porta dell’ingresso, segno che la tempesta non era diminuita.

Brigitte rivolse un rassicurante sorriso ad Angela. “Avremo tempo.”

Poi iniziò a raggruppare degli attrezzi da lavoro. “Intanto io cerco di fare qualcosa per la tua povera corazza.”

Così Angela cominciò il suo racconto. “Non si è sempre chiamata così, ovviamente...il suo nome era Amélie Guillard. Prima che lo sostituisse con “Lacroix”, il cognome che utilizzò da quel momento in poi dopo essersi sposata...”

 

 

Anno 2062, città di Ginevra, Svizzera

 

Angela Ziegler sbuffò rumorosamente mentre scartabellava i numerosi documenti presenti sulla sua scrivania. Guardò il suo orologio da polso e fece una smorfia: erano già le 18:30, tardissimo! Questo succede quando lasci del lavoro indietro e decidi di farlo tutto in una sola volta...

Sentì bussare alla porta e un’infermiera entrare nel suo ufficio, portando con sé un bicchierino di plastica fumante. “Helen! Grazie mille!”

“Pensavo potessi averne bisogno.” Helen le fece l’occhiolino. “Lavoro protratto?”

Angela alzò gli occhi al cielo e bevve un sorso di caffè, concentrandosi sulla sensazione di calore che scendeva nel suo corpo. “Mmh...non sai quanto. Ma ancora altri 40 minuti e penso di aver finito, più o meno...”

Helen fece una risatina nervosa e si schiarì la voce. “Uhm, ecco, per quello...non avere fretta di finire...credimi.”

Angela inarcò un sopracciglio, temendo di aver capito di che cosa stesse parlando la sua collega.

L’ufficio del suo dirigente, il dottor Stevenson, era dall’altra parte del corridoio, al piano superiore. Da dietro la porta proveniva un certo brusio, segno che stava parlando con qualcuno. Ignorò la cosa e, accantonando le buone maniere, fece irruzione nella stanza. “Steve!” chiamò, con voce alta e burbera.

“Oh-oh, ed eccola qui! Il nostro amatissimo e intelligentissimo primario del reparto di chirurgia!” disse, mentre si girava immediatamente verso di lei e indicandola con fare entusiasta. Nella stanza c’era anche un ragazzo che non aveva mai visto: basso, magro, con gli occhiali e la postura dritta e attenta. La salutò con un timido cenno della mano.

Steve continuò, ignorandola. “Stavo spiegando al nostro nuovo tirocinante i membri dei diversi reparti.” Si rivolse di nuovo al ragazzo. “La dottoressa Ziegler è un vero portento! Simpatica e carina con tutti...” abbassò leggermente la voce, mettendosi una mano vicino alla bocca “...adesso è un po’ su di giri perché le ho cambiato il turno. Ma - riprese con tono alto e gioviale - se fai bene il tuo lavoro, ti potrà ricompensare con questi deliziosi zuccherini.” Allungò la mano metallica verso la taschina superiore del camice di Angela.

“Non sono zuccher...ugh! Noi dobbiamo parlare.” E diede un colpetto alla mano dell’omnic, per allontanarla.

Quest’ultimo si girò verso il tirocinante, sospirando. “Scusa un attimo, giovanotto. Ma resta pure qui.”

Si rivolse di nuovo verso Angela, aveva un’aria furiosa.

“Non posso stare questa notte.” Il dottor Stevenson ricalcò tali e quali le parole della dottoressa, non era la prima volta che le sentiva.

Alzò le braccia al cielo, esasperato. “Lo so, cara! Ma pensaci: ti ho mai fatto un torto? Faccio queste scelte perché sono necessarie!”

Angela incrociò le braccia al petto, ancora decisa a non mollare l’osso. “E che è successo di così urgente?”

“Forse te ne sei dimenticata, ma stasera si esibiscono i danzatori dell’Opéra di Parigi, la più famosa compagnia di ballo francese. Dobbiamo essere preparati al meglio se dovesse succedere qualcosa.”

Si morse il labbro con fastidio, se ne era decisamente dimenticata. “E nessuno poteva sostituirmi?”

“Sei la migliore in questo reparto, dottoressa...e mi spiace deluderti, ma no, non abbiamo altro personale al momento.”

Angela non si diede ancora per vinta e provò ad elencare tutti i colleghi medici che conosceva. “Louis?”

“A casa in malattia.”

“Sophie?”

“E’ in ferie da pochi giorni, non ti ricordi?”

“Che mi dici di Zoe?”

“E’ incinta!”

Aveva finito le opzioni: a quanto pare questa notte l’avrebbe passata in ospedale. Sospirò, sconsolata, e accettò la situazione. Stevenson le si avvicinò e le mise le mani sulle spalle. “Ziegler, ragiona per costi e opportunità: domani avrai la giornata libera!”

Angela annuì, anche se non del tutto convinta, e andò verso la porta, girandosi un’ultima volta verso il tirocinante. “Scusami per questa sceneggiata...”

“Thomas”.

“...Thomas. Ci vediamo.” Abbozzò un sorriso e se ne andò.

 

*

 

Angela si trovava nella sala mensa dell’ospedale: aveva finalmente finito il suo lavoro arretrato ed era arrivata l’ora di cena. Il suo orologio da polso indicava che erano solo le 20:30, aveva ancora tanto tempo davanti, perciò decise di prendersela con calma. Si fece anche un regalino, prendendosi pure il dessert: una grossa fetta di crostata ai mirtilli.

Stava consumando, lentamente, il suo pasto quando scorse un’ombra sedersi di fronte a lei: alzò gli occhi e vide Thomas, che reggeva il suo vassoio.

“Dottoressa Ziegler! Posso sedermi con lei?”

Angela si pulì velocemente gli angoli della bocca con il tovagliolo di carta e annuì con la testa.

Si era appena seduto e aveva messo il formaggio sui suoi spaghetti, quando parlò, distrattamente: “A volte i capi sanno essere fastidiosi, eh?”

Angela si fermò ed ingoiò, formulando una risposta. “In realtà il dottor Stevenson è sempre stato corretto con me, come ha detto lui. Siamo in buoni rapporti. Semplicemente...sono stata colta in contropiede.”

“Certo, certo...non volevo insinuare nulla. Pensavo solo che dev’essere brutto quando si vedono i propri piani scombussolati in modo così precipitoso.”

“Eh sì...diciamo che avrei passato la serata in modo completamente diverso.”

Thomas accennò un sorriso. “Cena con qualcuno di speciale?”

“Oh, no no...niente di simile. Diciamo che avrei lavorato. A qualcosa che mi piace veramente.”

“Non le piace lavorare in ospedale?”

Angela scosse la testa. “Non voglio dire questo. Diventare medico e curare le persone è sempre stato il mio obiettivo. Tuttavia penso...non esiste un modo per rendere il processo più veloce? Più efficace, anche...si salverebbero molte più persone, in meno tempo.”

Il ragazzo sembrava dubbioso. “Uhm, mi viene difficile vedere realizzata una cosa simile...”

“Utilizzando le giuste tecniche di nanobiologia, si potrebbero costruire degli strumenti indispensabili per il trattamento di malattie e lesioni gravi. Ad esempio, curare un taglio profondo in pochi secondi...”

“Non credo di riuscire a capire fino in fondo il suo progetto, ma la stimo comunque, dottoressa Ziegler.”

“E’ naturale. Non preoccuparti.” Angela sorrise e poi porse a Thomas qualcosa. “Tieni. Questi sono gli “zuccherini” di cui parlava Stevenson. In realtà sono dei buonissimi cioccolatini svizzeri. Provare per credere.” Gli fece l’occhiolino e Thomas ebbe modo di provare che mai parole furono più vere.

Passarono diversi minuti prima che uno dei due parlasse. “Chissà se succederà davvero qualcosa stasera...sa, per l’Opéra di Parigi...”

Angela scosse la testa, come se avesse appena sentito una barzelletta. “Ma figurati...quelle persone sono ballerini e ballerine professioniste. Sarà il classico, lungo turno di notte in cui non capiterà nulla...”

 

*

 

Ore 22:00. Lo spettacolo dell’Opéra era già cominciato da un po’ e Angela e l’infermiera di reparto sfrecciavano nel corridoio verso la stanza 42.

“Le avete messo il ghiaccio?”

“Certo”

“Avete somministrato antidolorifici?”

“Già fatto anche quello. Dovrebbe essere pronta anche la radiografia.”

Angela annuì con la testa ed entrò nella stanza, seguita dall’infermiera. La paziente era stesa a letto, immobile, con la caviglia destra rialzata: si vedeva subito cosa non andava, si era gonfiata e aveva assunto una forma strana.

“Buonasera, sono la dottoressa Ziegler. Mi hanno informata circa la sua probabile frattura alla caviglia destra. Nome ed età, per favore.”

“Amélie Guillard. 25 anni.”

Nome e accento francesi, pensò. “Riesci a parlare bene la mia lingua?”

“Sì, certo.”

Angela sospirò sollevata. “Menomale. Il mio francese è molto basilare.”

“Ha qualcuno che possiamo avvisare? Genitori, compagno, parenti...”

Non, sono da sola. Sono qui in trasferta con i miei compagni dell’Opéra di Parigi.”

All’improvviso le ultime parole scambiate prima con Thomas assunsero un significato piuttosto divertente.

Angela annotò le ultime informazioni generali della sua nuova, giovane paziente e le rivolse un caloroso sorriso. “Allora...com’è successo?”

Amélie sembrò ricambiarlo. “Prima dell’inizio dello spettacolo ero nella sala grande a fare delle prove. Le ho fatte milioni di volte...ancora non mi capacito di come possa essere successo.” La voce di Amélie, ora, era decisamente infastidita. Nonostante tutto, mantenne un atteggiamento sorprendentemente calmo e quasi impassibile per tutta la durata del racconto. Angela ne rimase sorpresa: era vero che le avevano già iniettato l’antidolorifico...ma aveva avuto utenti che si rotolavano sul pavimento per cose ben minori.

“...in ogni caso ora sono completamente inutile alla compagnia.” Concluse Amélie, con una punta di rammarico.

“Capita anche ai migliori, Amélie.”

Che bellissimo nome, ora che lo pronunciava per la prima volta!

“Lo sa...sono una perfezionista, purtroppo. Mi divora il fatto di aver sbagliato e di aver rovinato lo spettacolo.”

“Capisco. Ma vedrà che riuscirà a perdonare sé stessa e tra un po’ di tempo ritornerà ad essere la talentuosa ballerina di sempre.”

J’espère que c’est vraiment comme vous dites, docteur.” mormorò, più a sé stessa che all’altra.

La loro chiacchierata venne interrotta dall’infermiera di prima, che entrò e diede i risultati della radiografia ad Angela. Quest’ultima li alzò leggermente e li mise controluce, per riuscire a vedere meglio: nero su bianco, si notava quello che già aveva prospettato dando una rapida occhiata alla caviglia di Amélie.

“Purtroppo è una frattura scomposta.” Disse, mentre porgeva le lastre alla donna. “Si può vedere qui e qui.”

“E’ molto grave?” chiese Amélie, demoralizzata.

“Non troppo. Però è stata una bella caduta e quindi non posso allineare le ossa manualmente, ma solo tramite intervento chirurgico. Mi dispiace, Amélie.”

La donna sospirò sconsolata. “Ainsi soit-il. Non vedo molte altre alternative, alla fine...”

“L’intervento non sarà molto lungo. Dopodiché la riabilitazione avrà una durata che varia dalle 6 alle 12 settimane, in base alla gravità del caso e ai comportamenti del paziente.”

“Mi atterrò fedelmente alle prescrizioni mediche, non si preoccupi.” Amélie le fece l’occhiolino.

Angela sorrise soddisfatta. “Normalmente ci sarebbe da aspettare, ma, per fortuna, oggi non è così. Procederemo non appena sarà tutto pronto. La mia collega le illustrerà le procedure di preparazione. Per il resto, eseguirò personalmente il suo intervento; si riferisca a me per qualunque cosa.”

“Sono in buone mani, allora. Au revoir, docteur.

Angela sorrise stupidamente, le scaldava sempre il cuore quando un suo paziente le faceva dei complimenti. Confermavano la sua professionalità in quanto medico e la sua gentilezza in quanto persona. Cosa c’è di meglio?

Ricambiò il sorriso e uscì dalla stanza.

 

*

 

L’indomani mattina la dottoressa Ziegler stava uscendo dall’ospedale. L’intervento alla nuova paziente, la notte appena passata, era andato bene; probabilmente ora stava riposando. Cosa che doveva fare anche lei, e al più presto: tra lavoro arretrato ed intervento chirurgico non aveva più alcuna energia per tenere gli occhi aperti.

Fuori, all’aperto, il cielo azzurrino prometteva che sarebbe stata una bella giornata. Finalmente stava anche arrivando la stagione che preferiva, la primavera. Alle 6:30 la città era ancora piuttosto addormentata: giravano poche auto e pochi pedoni, di ritorno da una nottata passata in un locale della zona o per essere smontati da un turno notte che aveva fatto anche lei; oppure erano persone in viaggio, altri che si godevano la brezza mattutina…

Le piaceva osservare i dettagli e, magari, indovinarli pure.

Il suo sguardo fu catturato da un piccolo manifesto attaccato ad un palo, ormai afflosciato su se stesso. Lo raccolse per guardarlo, immaginando che fosse uno di quei volantini che ritraevano foto di animaletti persi. Invece, il manifesto spiccava per colori sgargianti e accesi – rosso, arancione, giallo – e regnava la scritta, a caratteri cubitali:

“UNISCITI AD OVERWATCH”

E, come sottotitolo: abbiamo bisogno del tuo supporto!

Sullo sfondo, tante persone generiche che combattevano convinte per la suddetta organizzazione.

Alzò gli occhi e ne vide almeno una decina, attaccati al muro. Una parete costellata di volantini promozionali da parte dell’organizzazione che diceva di perseguire la pace.

Angela accartocciò il suo e lo buttò nel cestino più avanti: giurò che mai e poi mai avrebbe dato il suo aiuto ad un’organizzazione che aveva approcci militaristici per mantenere la pace nel mondo.

 

*

 

La giornata libera trascorse tranquillamente e – forse – troppo velocemente: ogni volta che scopriva qualcosa, saltavano fuori altre mille questioni. Angela si ritrovò a pensare, non per la prima volta, che sarebbe stato ottimo dedicarsi completamente alle sue ricerche. Lavorando in ospedale, infatti, aveva poco tempo per farlo. Non che lavorare in quel luogo non le piacesse, anzi: anche in quei tempi bui, mentre aumentavano sempre di più le risse tra omnic ed umani, il suo ospedale si distingueva, includendo entrambe le razze e promuovendo, così, pari opportunità e dignità.

Il giorno dopo, prima di andare nel suo ufficio, decise di passare nella stanza 42. La giovane donna era stesa nel letto, la caviglia adeguatamente fasciata sospesa attraverso l’uso di alcuni cuscini.

“Buongiorno, Amélie.”

Amélie smise di leggere e appoggiò la rivista che aveva tra le mani. “Salve, dottoressa.”

Angela prese una sedia e si sedette vicino al suo letto. “Come si sente, oggi?”

La donna si mise a ridere di getto, davanti ad un’Angela confusa e perplessa. “Ancora con questi convenevoli? Dottoressa, avrà la mia età, non mi menta!”

Angela capì solo adesso il perché delle risate di prima e riformulò la domanda. “Ah, scusa. La forza dell’abitudine. Come stai oggi, allora?”

Beaucoup mieux! Mi sento bene. Non ho avuto alcuna ricaduta.”

“Mi fa piacere sentirlo. Comunque non sono proprio una tua coetanea, ma neanche così vecchia: ho 29 anni.”

“C’ero andata vicina. Te ne avrei dati 27.”

“Ne sono lusingata!”

“Sai...per avere quest’età e ricoprire un ruolo così importante ce ne vuole...complimenti.”

Angela sorrise, profondamente riconoscente. “Da che pulpito! Hai 25 anni e fai parte di una delle compagnie di ballo più famose al mondo.”

Amélie rise, leggermente imbarazzata. “Mmh, touché, chérie. Inizio a pensare che non siamo così tanto diverse.”

“Senti...” iniziò Angela, che era andata lì con l’intento di parlare solo della sua caviglia “...l’intervento è andato bene e abbiamo sistemato l’osso. Tuttavia, anche quando ti dimetteremo, non potrai ricominciare subito con la danza. Per precauzione. E perché non sarai ancora completamente guarita.”

Amélie annuì. “Mh, l’avevo immaginato. Bhè, la compagnia mi sostituirà facilmente.”

“A proposito di questo...hai bisogno che li avvisi?”

“Grazie per esserti proposta ma, no, lo faccio pure io.”

Angela si fermò a pensare, non sicura di quello che stava per dire. “Purtroppo le cure mediche non sono completamente gratuite...ma so che sei sola e non so fino a che punto la compagnia ti aiuti, quindi...”

“Angela, davvero, non devi preoccuparti di nulla!” la interruppe Amélie “la compagnia mi coprirà le spese mediche e poi, anche se fosse, non ho problemi di quel tipo...” ammise, nuovamente imbarazzata.

Angela la guardò stupita. Stava per chiederle spiegazioni, quando Amélie continuò. “Magari te ne parlo un’altra volta, okay? Vorrei continuare a parlare, ma sono veramente stanca.”

Angela si alzò e scattò verso la porta, non aveva considerato quanto tempo erano rimaste a chiacchierare. “Nessun problema. Prenditi il tempo che vuoi.” Dopo averla salutata, si dileguò nel corridoio.

Quella notte, rannicchiata nel letto, la dottoressa Ziegler faticava a prendere sonno: aveva in mente una paziente ben precisa. Eppure ne aveva visti tanti, ogni giorno. Ma Amélie aveva qualcosa, qualcosa in più...sarà per le battute sempre pronte che le riservava, la sua disponibilità a chiacchierare, a condividere le sue esperienze...fatto sta che Angela era decisa ad approfondire la sua conoscenza con lei, ovviamente se Amélie fosse stata d’accordo.

Ed Angela ne ebbe modo, eccome, e Amélie non oppose mai alcuna resistenza.

Durante la riabilitazione in ospedale ebbero modo di conoscersi in modo più approfondito: passavano molto tempo insieme, condividevano la pausa pranzo, Angela le parlò persino delle sue ricerche e, dopo tanto tempo, trovò un’interlocutrice realmente interessata.

Oggi erano finalmente giunte le dimissioni di Amélie e la dottoressa si offrì di farle un controllo generale.

“Togli la maglietta per favore.”

Amélie fece come le era stato detto e mostrò la schiena nuda ad Angela. Quest’ultima indossò lo stetoscopio e appoggiò il suo terminale contro la pelle chiara di Amélie, la quale sussultò per il freddo dello strumento.

“Colpa mia, scusa! Non l’ho scaldato prima. Faccio in fretta.”

Poi la fece sdraiare supina sul letto e procedette all’auscultazione di cuore e cavità addominale. Mentre ascoltava il regolare battito cardiaco, le cadde lo sguardo sul petto di Amélie: aveva un addome piatto, liscio, e dei muscoli non troppo scolpiti, probabilmente grazie agli allenamenti che faceva. Facevano da contorno due piccoli seni, sodi, che probabilmente stavano in una mano. Senza volerlo, la pelle della sua mano, che teneva il terminale dello strumento medico, entrò in contatto con quella di Amélie e il suo corpo fu attraversato da un fremito che si adagiò a livello del bassoventre.

Ma che diavolo le succedeva?

Si tolse, velocemente, lo stetoscopio dalle orecchie e lasciò rivestire la sua amica.

“Sei sanissima, Amélie. Grazie per esserti fatta controllare. Ho notato solo che hai un battito cardiaco un po’ più basso del normale.”

“Ah, quello. Me l’avevano già detto, è per gli allenamenti che faccio.”

“Immaginavo. Se dovessi affaticarti fammi sapere immediatamente.”

Ne t’en fais pas, docteur.

“Ti riaccompagno a casa. Stasera vuoi passare da me per la cena?”

Amélie annuì, contenta. “Desideravo da tanto vedere il tuo appartamento!”

Angela rise, mentre porgeva le stampelle alla donna. “Mmh, io lo chiamerei più antro. Vedrai tu stessa.”

 

*

 

Erano appena le 20:00 quando Amélie si presentò a casa di Angela: suonò, ma non rispose nessuno; così si permise di entrare, dato che la porta non era chiusa a chiave. Forse doveva ricordare ad Angela qualche concetto sulla sicurezza…

Si guardò intorno. L’appartamento non era di certo un antro, ma era veramente piccolo. Si trovava nel soggiorno: la stanza non era illuminatissima e, al centro, c’era un piccolo tavolo già apparecchiato adornato da un grazioso porta candele acceso. La stanza non aveva molto altro: spiccava un divanetto nero a due posti, delle piantine – morte – sul davanzale della finestra e due porte, per il bagno e la camera da letto, immaginò.

Non c’erano televisione o altri apparecchi elettronici. L’appartamento sarebbe stato immerso nel silenzio se non fosse per il lieve brusio che proveniva dalla stanza accanto, non delimitata da una porta. Angela doveva essere lì dentro.

“Angela, sei qui?”

La donna era appoggiata al lavello e teneva in mano un holopad, davanti a lei si muovevano diverse figure in bianco e nero. Appena vide Amèlie entrare, spense subito il video e la salutò calorosamente; anche se era chiaro che qualcosa l’avesse turbata: glielo si leggeva negli occhi.

“Amélie! Non ti avevo sentita entrare. Ero un po’ assorta...” disse, mentre ritornò a guardare preoccupata lo schermo dell’holopad.

“Di cosa si tratta?”

Angela glielo porse. Le immagini in movimento mostravano diverse scene in cui una donna matura, sulla quarantina, dibatteva e cercava di argomentare in tribunale ed in tanti altri luoghi. Lesse velocemente il titolo del notiziario e le parole in grassetto che saettavano davanti ai suoi occhi. “O’Deorain accusata di aver violato norme etiche”, “La famosa genetista irlandese nei guai per le sue spregiudicate e perverse ricerche”, “Ricerche fasulle: la carriera spezzata di Moira O’Deorain”.

Ripetè, lentamente, il suo nome nella mente, immaginando il perché di tutte quelle accuse. La donna in questione le pareva eccentrica anche nell’aspetto: capelli corti e rossi, viso spigoloso dai tratti spiccatamente androgini ed occhi di due colori diversi, rosso e blu, sottili e minacciosi, di persona che non mette volutamente in discussione le sue tesi.

Ridiede l’holopad ad Angela, che lo spense e lo appoggiò sul ripiano della cucina. “Ugh, quella donna mi fa venire i brividi.”

Angela sospirò. “E non hai ancora letto le sue ricerche. Le pesanti accuse che si è beccata sono dovute alla condivisione di una sua ricerca riguardo un programma genetico in grado di modificare la struttura cellulare del DNA.”

“DNA? Non è anche il campo in cui ti cimenti?”

La risposta che le diede Angela sembrava risentita. “Io non altero le strutture genetiche, semmai le ripristino. E’ una cosa ben diversa. Non ho nulla a che spartire con quella donna.” Il disprezzo che traspariva dalla sua voce colpì Amélie che decise di non indugiare oltre; le avrebbe chiesto spiegazioni in un altro momento o glielo avrebbe detto lei stessa, quando ne avesse sentito il bisogno. Piuttosto, fece riemergere l’argomento “cena”, aiutandola a portare i piatti in tavola.

“Volevi fare colpo su di me?” chiese Amélie, una volta sedute, osservando la tavola imbandita e lo sfarfallio delle candele accese.

Angela notò malizia nel suo tono di voce, anche dove questa non c’era. “No no, bhè...in un certo senso volevo...sì, farti sentire a tuo agio.” Concluse la frase tutta d’un fiato, pregando che Amélie non avesse notato il suo nervosismo.

“Mmh...vediamo se ci sei riuscita.” Amélie le lanciò uno sguardo divertito, mentre prendeva la bottiglia di vino posta sul tavolo e leggeva attentamente l’etichetta. “Mmsì, direi di sì...posso sentirmi a mio agio con questo vino.”

Angela rise, lasciando scivolare via tutto il nervosismo accumulato prima. “Okay, ti confesso che l’ho scelto un po’ a caso, non uno che costasse troppo, ma neanche un vino da quattro soldi. Sono stata nel mezzo, insomma.”

“E hai fatto bene chérie, questo andrà benone. Un giorno ti mostrerò la mia cantina di vini, se vorrai.”

“Mmh, davvero?” la dottoressa rispose incuriosita, mentre metteva in bocca uno squisito pezzo di carne che aveva cucinato. “Di tua proprietà?”

“Ormai sì. I miei genitori erano molto all’antica e mi hanno lasciato in eredità il loro castello. Dentro vi è una grossa cantina di pietra, ovviamente.”

Angela smise di mangiare improvvisamente, guardandola stupefatta. Amélie ridacchiò. “Quella faccia l’avrò vista centinaia di volte nella mia vita! Ogni volta che parlo dello Chateau Guillard...”

Angela riacquistò la funzionalità di masticare ed ingoiò il boccone. “Tu sei proprietaria di un castello? Uno vero?”

“Proprio io. Ti ricordi quando ti dissi che non avevo problemi di soldi, in ospedale?” Amélie fece un gesto con le mani, per confermare quello che stava dicendo. “Mi mette sempre in imbarazzo parlare di queste cose.”

Angela scrollò la testa, convinta. “No, non devi. Sono solo stupita. Non immaginavo fossi una specie di... contessa.”

“Bhè, non esagerare adesso! Non vivo neanche lì...cerco di tenerlo a posto, ma a volte è difficile...vorrei che non ci fosse.” Sospirò, mentre spostava con la forchetta le palline di pepe nero presenti sulla sua carne. “Non lo vendo perché mi sembra di fare un torto ai miei genitori...e poi perché, in fondo, ci passo ancora del tempo, quando mi va.”

“Se ti serve qualche aiuto per le pulizie o la riverniciatura io sono disponibile.”

Amélie la guardò divertita. “Quante altre cose sai fare, docteur?”

Angela scrollò le spalle. “Non penso sia difficile riverniciare qualcosa...e poi in due si fa prima, no?”

Amélie si tirò dietro l’orecchio una lunga ciocca di capelli corvini e fissò Angela, senza apparente motivo. Quest’ultima sostenne il suo sguardo finché poté, prima di abbassarlo, imbarazzata. Riuscì a scorgere gli angoli della bocca di Amélie che si arricciavano all’insù.

“Ti sono profondamente grata per tutto quello che fai, Angela...davvero. Ma è un mio principio; non ti farò lavorare quando andremo allo Chateau. Faremo qualcos’altro, te lo prometto.”

 

*

 

Il tavolo del soggiorno, ormai sparecchiato dalla cena, era stato spogliato di ogni orpello decorativo e Angela ci aveva appoggiato, invece, delle bende, degli spilli e un particolare strumento che non aveva mai visto.

“Sei sicura che non sarà una cosa pericolosa?” chiese Amélie preoccupata mentre l’amica distendeva il suo braccio nudo sotto a delle bende.

“Non preoccuparti. Al massimo ti do’ istruzioni su cosa fare.”

Amélie alzò un sopracciglio interdetta; questo non era affatto d’aiuto!

“Okay...vediamo se anni di ricerca hanno portato a qualcosa.” Angela inspirò e si forò un pezzettino di pelle con lo spillo, da cui cominciò subito ad uscire del sangue. Prese poi il misterioso strumento – una specie di pistola futuristica con dei raggi metallici alla sue estremità – e sparò alla ferita.

Amélie non credeva ai propri occhi: anziché il proiettile, dalla canna della pistola fuoriusciva un tenue raggio di luce dorata che si avviluppò intorno alla piccola ferita che si era inferta Angela. Giunsero bassi mormorii di preghiera dalla sua voce: “Bitte, bitte bitte...

La dottoressa era così concentrata ed elettrizzata che Amélie non osava disturbarla chiedendole nulla; limitandosi a trattenere il fiato. Passò poco meno di un minuto prima che la nebbiolina dorata cominciò a diradarsi.

Poi, il grido di gioia di Angela.

“Ha funzionato, Amèlie! Guarda!”

La donna prese delicatamente il braccio di Angela e passò le dita dove poco prima c’era la ferita sanguinante: di essa nemmeno l’ombra.

I suoi occhi scansionavano, stupefatti, ora il braccio ora il viso di Angela, vicino alle lacrime, da quanto era contenta.

Poi, anche gli angoli della sua bocca si curvarono all’insù, in una risata malcelata, e buttò le braccia attorno al collo dell’amica sussurrandole frasi di approvazione. “Lo sapevo che ce l’avresti fatta. Sei un genio, Angela.”

Quest’ultima strinse forte il corpo di Amélie a sé, appoggiando la testa sulla sua spalla, una lacrima che scendeva velocemente sulla guancia. Questo era il primo vero momento di intimità che condividevano ed Angela sentì più calore di quanto, forse, avrebbe dovuto sentire.

Fu Amèlie la prima a staccarsi, desiderosa di rivolgerle un sacco di domande.

“Cosa farai adesso?”

“Pubblicherò tutto in rete, così da attirare l’attenzione della gente. E poi continuerò a migliorare la tecnica...è passato troppo tempo da quando ho azionato il raggio alla guarigione della ferita. E’ un sistema ancora troppo lento.”

Amélie annuì, pensierosa. “Vuoi rendere più veloce il ripristino cellulare, giusto?”

“Esattamente.”

“Ora mi puoi spiegare che cosa accade se le cellule venissero alterate?”

L’intimoriva un po’ riportare al discorso la questione di Moira O’Deorain, ma la curiosità era troppo forte. Ed Angela le stava nascondendo qualcosa.

Angela sospirò e si sfregò gli occhi. “Uuh, succedono cose...brutte. Molto brutte.” Aggiunse, mentre i suoi occhi azzurri incontrarono quelli di Amélie. “Incontrai Moira tempo fa, ad un convegno scientifico. Quest’ultimo trattava proprio delle nuove tecnologie da utilizzare in campo medico. Non era venuta in veste da relatrice, e neanche io. Ho avuto modo di approfondire la sua conoscenza più tardi, a convegno concluso. Da quel momento in poi, entrammo parzialmente in confidenza: Moira si sentiva sicura a mostrarmi le sue ricerche ed io le mie. Ma...” lo sguardo di Angela s’incupì improvvisamente “avrei tanto voluto non vederle affatto. Mi mostrò i suoi metodi...cavie vive, coniglietti per lo più. Ne alterava la struttura genetica, per l’appunto. Li faceva diventare dei mostri, degli abomini. Ricordo che erano aggressivi, tanto...alcuni avevano mutato persino la forma e quelli che non superavano i suoi dolorosi esperimenti andavano incontro a morte certa.”

Angela si fermò e fece un gesto stizzito con la mano. “Farneticava sempre che insieme saremmo diventate due alleate formidabili per il progresso scientifico. Ma ben presto capii che i suoi obiettivi erano lontani anni luce dai miei, decisamente più ortodossi. Ruppi immediatamente ogni contatto con Moira e giurai che non l’avrei mai più rivista. Per un po’ di tempo lei provò a convincermi...dopo i costanti rifiuti iniziò ad accusarmi di codardia, di essere troppo modesta e stupida per capire le sue potenzialità...i cambiamenti che avrebbe voluto portare nel mondo. Ugh, la detesto. Non ebbi più sue notizie fino ad oggi.”

“Dev’essere stato orribile vedere quegli esperimenti...”

“Ne rimasi inorridita...”

“Bhè, ma adesso non è più un pericolo per nessuno dato che la sua carriera è colata a picco, no?”

Angela si mise a ridacchiare; una risata priva di divertimento. “Credimi, O’Deorain non si fermerà davanti a questi ostacoli, è troppo ambiziosa e sicura di sé. In un certo senso, si può dire che sia abituata ai continui rifiuti.”

Amélie odiava il fatto di aver tirato in ballo quella questione. La dottoressa si era incupita ed era pensierosa e, per quanto riguardava lei stessa, la storia di quella genetista le aveva messo una brutta sensazione addosso. Fino ad ora, non aveva mai seriamente preso in considerazione l’esistenza di persone che, sfruttando l’odierna tensione tra omnic ed umani, perseguivano i loro loschi scopi...c’erano ancora tante cose di cui non era a conoscenza.

“Bhè, ma per fortuna...” andò vicino ad Angela e le prese entrambe le mani “...abbiamo ancora persone come te...buone e coraggiose, che ambiscono a migliorare questo mondo.”

Angela sbattè le palpebre e un colorito roseo le andò a imporporare le delicate guance chiarissime. Sorrise subito. “Già...immagino proprio che tu abbia ragione.”

“Sai una cosa? Ci sono un sacco di volantini per strada di Overwatch, quell’organizzazione che mira a mantenere la pace nel mondo. Dovresti...”

“Non lo farò. Mi spiace deluderti.” Il tono di Angela non era irritato né spazientito. Tuttavia, la risolutezza con cui lo disse colse Amélie in contropiede.

Pardon?”

“E’ un’organizzazione militare. Va contro i miei principi.”

Amélie alzò gli occhi al cielo, sbuffando in modo teatrale. “Sei ingestibile a volte. Ne parli già come se ci avessi lavorato per anni!”

“Non è difficile immaginare cosa vogliono fare, guarda anche solo i volantini!”

Amélie alzò un sopracciglio, scettica. “Io vedo solo persone volenterose e determinate. Persone che morirebbero per avere una come te lì dentro.”

“Può darsi...” cominciò Angela, per poi apostrofarsi subito “...ma non è detto!”

Andarono avanti ancora per un po’ a discutere, finché Amélie non dichiarò bandiera bianca, per il momento.

Giurò che sarebbe ritornata sull’argomento, costi quel che costi.

 

*

 

3 marzo 2063, compleanno di Angela

 

La piccola imbarcazione solcava il lago di Annecy ad una velocità impressionante, tanto che Angela faticava a tenere gli occhi bene aperti. Amélie le indicò un punto con la mano, alzando la voce per sovrastare il rombo del motore. “Vedi quell’isolotto laggiù? Lì c’è lo chateau Guillard, ormai ci siamo.”

Era passato un anno da quell’incontro casuale in ospedale e le due donne erano diventate inseparabili. Si trovavano sul lago di Annecy, vicino all’omonima città, nel sudest della Francia. Amélie tenne fede alla sua promessa – portare Angela a visitare la sua sontuosa dimora di famiglia – e scelse proprio il giorno del suo compleanno per rendere il tutto ancora più memorabile.

Scesero dalla barca e, mentre Amélie parlava in francese con l’accompagnatore, Angela rimirò la struttura che aveva davanti: era enorme, proprio come aveva immaginato. Dappertutto c’erano scale che portavano a diversi luoghi al chiuso e all’aperto; con una netta predilezione per questi ultimi: erano infatti numerosi i parapetti e le terrazze spaziose che adornavano l’edificio, probabilmente per dare la possibilità agli ospiti di godere della splendida vista sul lago e sulla città di Annecy, in lontananza.

Lo chateau era costruito in pietra, finemente rilegata, per dare un aspetto più regale e meno rustico. I tetti del castello e delle sue piccole torri erano verniciate di un blu scuro, piuttosto sbiadito e invecchiato dal tempo. Facevano da contrasto, alla sommità delle due torri principali, due bandiere color ocra, che recavano sicuramente lo stemma della famiglia.

Bienvenu au chateau Guillard, Angela. Estasiata?” Amélie congedò il loro accompagnatore che si allontanò subito con la barca.

Angela le rivolse uno sguardo colmo d’eccitazione. “Da dove cominciamo?”

La visita al castello durò tanto: di sicuro perché era enorme e poi perché Amélie non tralasciava alcun commento, alcuna spiegazione sulla sua storia e su quella della sua famiglia. Ad esempio, apprese che anche i genitori di Amélie morirono quando lei era ancora giovane, ma almeno ebbero la possibilità di seguire e sostenere la figlia nel suo iniziale percorso da ballerina professionista: si spensero quando la giovane Amélie aveva 17 anni. Angela, invece, a volte faticava a ricordare il viso dei suoi genitori…

Alla fine della visita Amélie condusse Angela in un piccolo spazio aperto, a sua detta, quello che preferiva. Un affascinante pergolato svettava sopra le loro teste. La zona era già parzialmente all’ombra, ma era decisamente l’angolo più tranquillo e “verdeggiante” del castello: c’era un albero alla loro destra, che godeva ancora degli ultimi raggi di sole del pomeriggio, e dei rampicanti alle loro spalle, dall’ingresso in cui erano entrate.

“E’ bello che i tuoi genitori abbiano mantenuto le zone verdi.”

Amélie ridacchiò. “Ti aspettavi degli interni dorati?”

“No, ma apprezzo molto questo stile.” Angela sorrise alla battuta.

“Sì, i miei hanno mantenuto uno stile piuttosto classico e all’antica. Lo apprezzo anche io.”

Dei bicchieri da vino ed una bottiglia erano lì accanto a loro, appoggiati su di un ripiano di marmo. Trascorsero altri minuti di conversazione generale, quando Angela, spinta da un’irrefrenabile coraggio, si sdraiò sulla piccola panchina di marmo, appoggiando la testa sulle gambe di Amélie; quest’ultima non sembrò opporre resistenza e cominciò a toccarle distrattamente i capelli. Avrebbe tanto voluto girare la testa e affondare il proprio viso nel suo corpo caldo ma si forzò a fermarsi; forse non era il momento.

Si limitò a godersi la sensazione delle mani di Amélie che giocherellavano con i suoi capelli, avvolgendo ciocche dorate intorno alle dita.

Le uscì un lieve sospiro. Sarebbe stato così semplice alzarsi sui gomiti e colmare la distanza che avevano…

La voce di Amélie smorzò l’idillio. “Allora...ci hai ripensato riguardo ad Overwatch?”

Angela rise, una risata leggera e melodiosa, e i suoi occhi seguirono la rotta di un uccello che volava diversi metri sopra le loro teste. Ne seguì tutto il tragitto finché non era più visibile e sussurrò: “Forse...ci hai pensato per tutto questo tempo?”

Amélie picchiettò scherzosamente le sue unghie sulla fronte dell’amica. “Ti sembro una che lascia i discorsi a metà?”

“Ma non era a metà, avevo preso una semi-decisione.

Amélie ridacchiò e poi di nuovo silenzio, per alcuni secondi. “Sai, prima di andarmene da Parigi e venire qui è successa...una cosa. In un quartiere vicino alla compagnia di ballo c’è stato uno scontro tra omnic ed umani, una specie di faida. Sono morte almeno sei persone.” Amélie smise, improvvisamente, di accarezzare i capelli di Angela, ponendo le braccia ai suoi fianchi per raddrizzare la schiena. La dottoressa si rigirò sul posto, un braccio che penzolava nel piccolo vuoto sotto di lei. Ora i suoi occhi azzurro cielo si erano impossessati di una fila di formiche che portavano rifornimenti ad un formicaio lì vicino.

“Capisci quello che intendo, vero?”

“Capisco, Amélie...” Angela sospirò, chiudendo gli occhi.

“Quegli individui sono morti perché nessuno era lì per loro, nessuno ha fatto in tempo. E cose del genere continuano ad aumentare.”

Quelle parole mossero qualcosa dentro di lei. Un senso di rabbia e di giustizia mancata presero prepotentemente controllo dei suoi pensieri.

Si girò nuovamente e la guardò. “Da domani mi metto in contatto con Overwatch e vedo che obiettivi hanno. Sempre che mi rispondano...”

Il sorriso soddisfatto che si formò sul viso di Amélie era impagabile. Si abbassò e posò le labbra sulla sua fronte. Angela perse un battito.

 

*

 

Entrare in Overwatch non fu complicato. Pochi giorni dopo la pubblicazione online delle sue ricerche, le arrivò una mail dall’organizzazione. A quanto pare, erano davvero desiderosi di averla nel team:

 

Salve, dott.ssa Angela Ziegler. Sono il comandante Jack Morrison, responsabile di Overwatch. Ho letto attentamente le sue ricerche e mi hanno stupito. Potrebbero rivelarsi un’ottima risorsa per l’organizzazione e, lei, un ottimo membro. Tutto quello che ha fatto, se sviluppato e potenziato, potrà salvare milioni di persone in tutto il mondo e contribuire massicciamente alla nostra causa. Abbiamo bisogno di persone dotate come lei in squadra.

So che, attualmente, lavora a Ginevra; per discutere di altri importanti dettagli possiamo usufruire di una video chiamata. Essendo a Zurigo, la sede principale di Overwatch, potrebbe risultarle scomodo arrivarci in questo momento.

Sperando di sentirla al più presto, le porgo i miei più sinceri auguri.

 

Comandante Jack Morrison

 

Angela rilesse la mail decine e decine di volte. Mentirebbe se dicesse che la proposta – e i complimenti ricevuti – non le avessero solleticato l’orgoglio.

Poi ripensò al discorso di Amélie. Quanti attacchi c’erano stati nel mondo, senza che lei lo venisse a sapere? Quante persone soffrivano? E quanti avrebbero sofferto ancora?

Il comandante Morrison aveva ragione, e anche Amélie: Angela era dotata e le sue ricerche avrebbero potuto rivoluzionare i parametri della medicina moderna. Il mondo aveva bisogno di lei.

E poi, avrebbe comunque potuto fare dei passi indietro, se le cose si fossero messe male o se gli obiettivi di Overwatch fossero stati troppo in contrasto con i suoi.

Arrivò così il 16 marzo 2063, la data della sua partenza per Zurigo, il giorno che avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Diede un’occhiata veloce al suo appartamento: aveva tolto le cose più importanti e le aveva messe in uno scatolone, non erano molte, dopotutto. Per essere un appartamento preso in affitto e poco vissuto, ad Angela dispiaceva un po’ doversene separare. All’improvviso vide la maniglia abbassarsi ed Amélie fare capolino da dietro la porta d’ingresso. Si salutarono con un abbraccio.

“Pronta per la partenza?”

“Sì...devo portare giù solo questo scatolone, il corriere arriverà a breve.”

“Mi ripeti dove vai a stare a Zurigo?”

Angela sorrise candidamente alla preoccupazione dell’amica. “Overwatch mi ha offerto una stanza in un hotel. Nel caso volessi, però, ci sono delle stanze nel quartier generale, apposta per i membri. Dovrò valutare.”

“Tutto a posto con l’ospedale?”

“Mh-mh. Stevenson sembrava triste, suppongo...ma mi ha congedata senza problemi. Vuole un autografo se diverrò famosa.”

“Sicuramente non lo deluderai.” Disse Amélie, strizzandole l’occhio.

Ci fu un breve attimo di silenzio, in cui Angela osservò bene il volto ed il corpo di chi aveva davanti a sé, consapevole che non l’avrebbe rivisto tanto presto.

Si mordicchiò il labbro inferiore. “Mi mancherai, Amélie.”

Quest’ultima fece un cenno con la mano. “Ah, non essere così drammatica. Zurigo è una delle prossime tappe della compagnia di ballo. Ci rivedremo! E poi posso venirti a trovare.”

“Lo farai?” cercò di non far uscire un tono supplicante anche se, dall’espressione di Amélie, non sembrava essere riuscita nell’impresa.

“Ma certo.” Si abbracciarono di nuovo e Angela affondò il naso nei suoi capelli, inspirando piano. “Ti voglio bene.”

“Ora va’. Aspetto notizie, chiamami!”

“Lo farò il prima possibile. A presto Amélie!”

 

*

 

I primi mesi in Overwatch furono una scoperta dietro l’altra. Jack era una persona gentile, ma risoluta allo stesso tempo. Dopo le prime chiacchierate, abbandonò ben presto l’idea del “militare da strapazzo” che si era erroneamente costruita. Sembrava adatto ad una carica così importante. Conobbe tante altre persone, molti dei quali sarebbero stati i suoi compagni di squadra durante le missioni.

Ah, le missioni.

Angela non ne aveva ancora fatta una, ma il momento si avvicinava sempre di più.

Giustamente, Jack aveva deciso che le sue ricerche dovessero essere adeguatamente modificate e sviluppate, quindi per il momento passava la maggior parte del tempo nel suo studio. E che studio! La tecnologia dell’organizzazione era la più avanzata che avesse mai visto; il fai-da-te nel suo appartamento era, ormai, un ricordo lontano.

Naturalmente – se l’era immaginato – iniziarono a giungere alcuni compromessi: innanzitutto Jack pretese che Angela ricevesse un addestramento militare, come tutti gli altri. All’inizio oppose resistenza, ma capì ben presto che il suo lavoro non riguardava solo la ricerca: sul campo di battaglia il suo aiuto era più incisivo e avrebbe salvato moltissime persone. Ora, quindi, aveva una fedele amica attaccata alla cinta della sua corazza da combattimento, costruita apposta per lei.

Quel giorno, nello studio, ricevette una chiamata da Amélie.

“Buongiorno, Angela. Come procede la salvezza del mondo?” il suo holopad materializzò la sua figura.

“Ho potenziato il flusso curativo, ora agisce in pochi secondi! E non userò più una pistola, ma una staffa...io e Ana pensiamo che sia più pratica.”

“E’ grandioso! Ana? Chi è? Raccontami tutto!”

Angela sorrise alla curiosità dell’amica. “Vediamo...da dove posso cominciare? Ho incontrato diversi membri di Overwatch, molti dei quali mi accompagneranno anche durante le missioni. Non vi ho ho ancora preso parte, ma presto comincerò; me l’ha confermato anche il comandante Jack Morrison, un uomo mite e gentile, senza dubbio.”

Amélie ascoltava attentamente, facendo cenni positivi col capo. “Ana Amari è uno dei membri fondatori di Overwatch, il braccio destro di Morrison. Ha una decina d’anni più di me ed è anch’essa un medico.”

“Oh, vi siete trovate dunque?”

Angela scrollò la testa. “Mmh, non proprio. E’ una persona abbastanza silenziosa e schiva...non parla molto di sé. Non sapevo neanche che avesse una figlia, se non fosse qui anche lei per qualche giorno!”

“Dalle tempo. Vedrai che si aprirà.”

“Penso di sì. In ogni caso mi ha fatto i complimenti per le mie ricerche. Si è dimostrata interessata e stiamo lavorando alla sua stessa arma insieme, creata con le tecniche da me sviluppate.”

“E’ un ottimo passo in avanti. Chi altri hai incontrato?”

Angela ci pensò su un attimo. “Ah, sì! Reinhardt Wilhelm. Dovresti vederlo, è un armadio! Ed è la persona più vivace e buona che abbia mai incontrato. Attualmente fa parte della squadra d’assalto dell’organizzazione, lo vedrò spesso. Condividiamo gli stessi ideali di conquista della pace nel mondo e, inoltre, parliamo spesso in tedesco, essendo anche la sua lingua madre. E’ un amico, ormai. E poi...ho conosciuto Torbjorn Lindholm, un vecchio amico di famiglia di Reinhardt...credo che abbia circa nove figli.”

Amélie sgranò gli occhi, esterrefatta. “Cosa?!”

Angela si mise a ridere. “Anche io ho avuto quella reazione. L’ultima si chiama Brigitte. Ormai ha 16 anni, la vedo spesso. Sta molto nell’officina del padre e viene sempre a farmi domande: che sia un futuro medico? Chi lo sa, in ogni caso è adorabile!”

“Mi fa molto piacere che il nuovo lavoro ti stia appassionando così tanto.”

“Avevo sottovalutato la sua importanza. Ora non ho più pregiudizi, agirò sempre e solo quando le cose saranno chiare ai miei occhi...ma sto parlando solo di me, cosa mi dici tu?”

“Oh, niente di così eclatante e paragonabile a quello che stai facendo lì...tuttavia io ed il gruppo ci stiamo preparando per la messa in scena de “Il Lago dei Cigni”, interpreterò sia Odette che Odile.”

“Ma è fantastico! Sarà impegnativo, immagino.”

“Molto. Abbiamo appena cominciato le prove, ci vorranno dei mesi per preparare il tutto in modo impeccabile.”

“Mi piacerebbe venirti a vedere quel giorno. Saresti stupenda.”

Amélie ridacchiò e abbassò gli occhi. “Bhè, perché no? Spero solo che tu non abbia impegni più importanti quel giorno.”

Niente è più importante, pensò. Ma non lo disse.

 

*

 

I mesi passavano ed Angela si stava abituando sempre di più alla sua nuova vita, all’interno dell’organizzazione. Fu promossa responsabile delle ricerche mediche da parte dei capi di Overwatch; un compito inaspettato, ma fortemente desiderato. Il suo meticoloso lavoro da scienziata la portò a costruire un sistema di pronto intervento che cambiò per sempre la sua presenza in battaglia: la tuta di risposta rapida Valkyrie.

Un capolavoro d’ingegneria, bianca e dorata, composta da due grosse ali cibernetiche poste dietro la sua schiena. La tuta Valkyrie le permetteva – letteralmente – di volare da un alleato in pericolo all’altro, curando il più possibile e nel minor tempo possibile. Nessuno nel mondo vantava un’armatura del genere; era diventata un simbolo di pace, un angelo sui campi di battaglia, conosciuta da tutti. Il suo nome in codice durante le missioni, Mercy, lasciava ben pochi dubbi su cosa fosse in grado di fare.

Ma se da una parte i trionfi sul campo di battaglia e nel suo studio apportavano fama e notorietà, a volte il peso di queste ultime si faceva sentire, quando la sua carriera si macchiava di certe ombre.

Proprio uno di questi giorni, nel luglio 2063, fece i conti con la sua prima, rovinosa sconfitta.

Era mattina presto ed era appena ritornata, con la sua squadra, nel quartier generale di Overwatch; dopo aver passato una lunga ed estenuante notte in una cittadina spagnola, dove numerose bande armate imperversavano nelle strade.

Si barricò nella sua stanza, chiudendo porte ed oscurando finestre, non volendo essere ricevuta da nessuno: lì, nell’oscurità, si lasciò andare ad un logorante pianto che premeva per uscire già da molto tempo prima. Provò a chiamare anche Amélie, una, due volte...il telefono squillava a vuoto e lei riattaccò bruscamente, imprecando.

Dopo essersi calmata, premette di nuovo sul suo nome e aspettò l’inoltro della chiamata; sentì fino alla fine la sua voce registrata e, finalmente, parlò.

“Amélie? Ciao, sono io...sono Angela.” La sua voce era ancora un po’ roca dal pianto di prima. “E’ da un po’ che non ci sentiamo...che non ci sentiamo come si deve, inteso.” Le uscì una risata nervosa, disperata. “So che è prestissimo e probabilmente sarai ancora a letto, ma ho bisogno di parlare con qualcuno...come te. Ieri notte ero a Granada, una cittadina spagnola. Abbiamo saputo che erano in corso diversi scontri e ci hanno mandati per salvare degli ostaggi. Non...non sembrava una cosa diversa da quello che avevo già visto. Erano in un capannone chiuso da far evacuare. Ana mi stava dicendo che era troppo pericoloso, ma io insistetti e andai.” La voce le si smorzò ancora, ma riuscì a trattenere le lacrime. “E’ stato orribile, Amélie. Vidi un sacco di volti prima che un’esplosione li fece saltare in aria...tutti quanti. Ana mi trascinò fuori che ero semi cosciente. Era furiosa...e spaventata. Mi diceva che cosa pensavi di fare, potevamo perderti, questa è una guerra e non un semplice scontro tra bande...aveva ragione, ma non riuscivo a capacitarmi di quello che avevo appena visto. Penso che non ci riuscirò mai.” Tirò su col naso e indugiò sul tasto per chiudere la chiamata. “Vorrei che fossi qui vicino a me, in questo momento. Spero di non sembrare patetica...magari chiamami appena puoi, eh?”

Ma la scia negativa di quel giorno, purtroppo, non sarebbe finita presto.

Più tardi, decise di inviare ad Amélie un messaggio, dato che non l’aveva richiamata.

Perché non l’aveva richiamata? Sapeva che era impegnata, però...cercò, tuttavia, di mettere a tacere la spirale di pensieri negativi.

 

Questa giornata non mi lascia tregua.

Ho appena scoperto che il fucile di Ana, che avevo costruito appositamente per curare, è stato manomesso da Torbjorn, il quale l’ha modificato a scopo offensivo!

E forse ho confermato una cosa che pensavo da prima: Ana mi vede come una sorta di rivale, è più anziana ed è qui da molto più tempo di me, oltre che essere il primo medico fondatore di Overwatch. Inoltre, abbiamo pensieri veramente contrastanti...lei non ci pensa due volte ad usare strumenti di offesa se necessario. Io no. Ho paura che possa vedermi come una persona senza spina dorsale, forse? Solo perché non condivido i suoi principi? Non so. Tu cosa faresti?

 

La risposta di Amélie, seppur breve, arrivò alla sera e le fece tirare un sospiro di sollievo.

In questi mesi si erano sentite, certo, anche viste, a volte. Ma non erano gli incontri più diradati che la facevano preoccupare, quanto il fatto che avvertiva una Amélie più distante e distaccata quando parlavano o si vedevano. Sembrava diversa; come sospesa in chissà quali pensieri, fatti che le erano accaduti...e che non le raccontava.

Ma forse si stava facendo troppe paranoie.

 

*

 

Angela non era mai stata una campionessa in quanto a relazioni affettive. Aveva avuto relazioni sessuali soddisfacenti in passato, ma non erano evolute e andate oltre quel contesto. Con alcune persone non avrebbe mai costruito una relazione, ma con altre...ci si poteva provare un po’ di più.

E’ strano, divertente persino, come il passato, le cose che non si elaborano, riaffiorino quando meno ce lo si aspetta, e ti fanno ripiombare in quello stato di confusione che si pensava di aver superato.

Il tempo passava ed Angela, ora, doveva fare i conti con la sua incapacità relazionale e i sentimenti, ormai stabili e continui, per Amélie.

Che cosa stava aspettando? Perché aveva paura a dirglielo?

Non poteva ripetere gli stessi errori, non con lei.

Prese la sua decisione una calda giornata di fine agosto, alla sua scrivania, nel suo studio. Si sbrigò a compilare tutte le carte che aveva davanti, cosicché potesse chiamare Amélie con tutta tranquillità. Una scarica d’adrenalina la pervase al solo pensiero.

Mentre lavorava, nel corridoio sentì il vocione di Reinhardt. “Non ci credo, Ana! Non vado ad un matrimonio da un sacco di tempo!”

Quella che dovrebbe essere la voce di Ana si aggiunse, ridacchiando. “Verrà anche Brigitte?”

“Non credo. Sai come sono i ragazzini a quell’età...si annoiano sempre a questi eventi.”

Non riuscì a seguire tutta la conversazione che la porta del suo studio si aprì improvvisamente e si parò davanti a lei una ragazza esile e minuta. “Woohoo, dottoressa Ziegler!”

Era Lena Oxton, il nuovo cadetto di Overwatch.

Angela le sorrise. “Lena. Avevi bisogno di me?”

La sua voce squillante sovrastò le altre e notò che Reinhardt e Ana si stavano allontanando. Si chiese di che matrimonio stessero parlando; chissà se li aveva visti, Overwatch è così grande!

“Winston ti vuole vedere. Per dei pareri medici e altro...ha detto che è urgente.”

“Faccio una telefonata importante di pochi minuti e sono subito da voi.”

“Grazie tesoro! A dopo.” Lena uscì con la stessa velocità di com’era entrata.

Angela sospirò: il momento era giunto. Prese il suo holopad e chiamò Amélie.

Le rispose immediatamente una voce con uno spiccato accento francese. “Oui?

“Amélie, sono Angela.”

“Angela! Che bello sentirti!” Amélie le rispose con estrema gioia, sembrava molto contenta.

“Volevo...” si parlarono sopra a vicenda e, dopo essersene accorte, scoppiarono a ridere. “Vai tu, vai tu.” Disse Angela con il sorriso sulle labbra, mentre schiacciava un pulsante per materializzare la figura di Amélie davanti a sé.

“Ho delle buone notizie, chérie: la compagnia si trasferisce a Zurigo, ed io con loro. Si terrà lì la prima de “Il Lago dei Cigni”. A proposito, sei invitata. E le altre notizie...” fece una pausa, tentennando sulle parole che stava per pronunciare e mordendosi il labbro “...Andremo in un ristorante lì da te per parlarne. Me l’hanno consigliato in molti, sarà piuttosto elegante, quindi vestiti bene.” Amélie le strizzò l’occhio. “Adesso ti mando l’indirizzo di dove ci troveremo. Voglio proprio vedere che faccia farai con quello che ho da dirti.”

Angela sapeva che forse intendeva altro, ma il suo cuore accelerò bruscamente e sentì il viso in fiamme. “Mi hai preceduto, anche io volevo invitarti a cena, stasera.”

Amélie le lanciò un’occhiata compiaciuta. “Sembra che avremo molto da dirci. 20:30 va bene?”

“E’ perfetto.”

Au revoir, docteur. A stasera.”

Riattaccò e ad Angela pareva di volare, di essere sospesa in aria, ma senza tuta Valkyrie. Il suono del suo cuore rimbombava contro le costole; non riusciva a smettere di pensare a quello che le avrebbe detto Amélie quella sera: era forse ingenuo pensare – sperare – che avrebbe confessato il suo amore ad Angela?

 

*

 

Trovare un vestito adatto fu la cosa più complicata. Optò per un vestito nero di seta, corto fino a mezza coscia, con una scollatura abbastanza pronunciata. Le scarpe già ce le aveva: anch’esse nere, col tacco. Considerando la stagione, nonostante fossero chiuse in punta, Angela le preferì a quelle aperte perché più eleganti.

La dottoressa stava aspettando nel luogo indicato da Amélie, con il lieve venticello che le faceva svolazzare delle ciocche bionde davanti al naso, che prontamente rimetteva dietro le orecchie. Fortunatamente quella sera tirava una bella arietta, almeno non sarebbero morte di caldo. Poi, finalmente, la vide: una Dea. Il bellissimo corpo di Amélie era fasciato da un vestito grigio chiaro, tendente all’argento, asimmetrico e più lungo del suo. Portava delle scarpe nere, aperte in punta e una collana le adornava il sottile collo bianco. Rise appena vide Angela dall’altro lato della strada e, una volta guardato a destra e sinistra, attraversò e la raggiunse, abbracciandola. Dopodiché un taxi le condusse alla destinazione prescelta.

Il ristorante francese in cui si trovavano era davvero elegante, tanto che Angela si sentì lievemente fuori posto, anche se non lo diede a vedere. Su di un palchetto al centro della sala c’era una piccola orchestra che intratteneva gli ospiti con musica blues, un suono gradevole e non troppo alto, tale da non frastornare i numerosi invitati.

Le due donne presero posto ad un tavolo già prenotato e iniziarono a sbirciare il menù. Per fortuna, accanto alle diciture in francese c’erano anche le traduzioni in inglese, o Angela si sarebbe dovuta far dire tutto il menù da Amélie. “Ahh, non so cosa prendere! Come mai hai scelto un posto così chic?”

“Volevo che fosse un posto ricordabile. Non ci vediamo come si deve da tanto e...ti basta il fatto che sei una persona importante per me? E mi piace trattare bene le persone importanti.”

Eccolo di nuovo, puntuale come un orologio svizzero. Il tu-tum frenetico del cuore di Angela.

Amélie continuò. “Comunque io prendo una tartàre di manzo.”

“Anche io.” Si apprestò a dire Angela, chiudendo il menù.

Un cameriere si avvicinò subito al loro tavolo e Amélie ordinò anche un costoso vino francese, Angela era sicura che fosse costoso!

Riempirono i loro calici e fecero un brindisi. “Al nostro tempo passato insieme!”

“Che possa durare in eterno.”

La cena andò avanti tranquilla, tra aneddoti di missioni passate e passi di danza. La band al centro della sala ora stava intonando canzoni più calme e melodiose.

Amélie ruppe il silenzio che si era andato a creare tra di loro. “Dunque...sembra essere arrivato il momento della mia confessione.” Ridacchiò alla sua battuta e i suoi occhi nocciola scandagliarono la stanza ed il viso di Angela, ridenti. Sembrava che stesse pensando ad una cosa estremamente piacevole.

Angela trattenne il fiato.

“E’ stata una cosa così veloce e improvvisa...ma non sono mai stata più sicura in tutta la mia vita.” Guardò Angela negli occhi, questa volta non distolse lo sguardo, e sorrise. “Angela, io...mi sposo il prossimo mese. Con un uomo stupendo.”

 

*

 

Ci sono volte, sul campo di battaglia, in cui una granata o qualche altro ordigno ti esplode lì vicino e senti un fastidiosissimo ronzio nelle orecchie, che ti seguirà per un po’ di tempo, perdi la cognizione del luogo in cui sei e non senti più nulla. Tutto intorno a te tace, il tuo cervello sembra rivestito di ovatta e stai fermo, lì, intontito, incapace di fare qualsiasi cosa. Ma è pericoloso stare fermi: perché il mondo intorno a te gira, si muove, e tu devi fare altrettanto, qualunque cosa accada.

Lo sapeva bene Angela, a Granada, prima di essere trascinata via da Ana che la riportò bruscamente alla realtà.

Adesso, stava rivivendo quelle stesse situazioni in un ristorante francese a Zurigo.

Con la mano tremolante appoggiò la forchetta che aveva in mano per evitare di farla cadere, un gesto meccanico, nulla più. La voce le morì in gola.

Le parole di Amélie la fecero ritornare alla realtà. La sua espressione felice si tramutò ben presto in seria preoccupazione. “Angela, tutto a posto? Sei impallidita all’improvviso.”

Angela prese nuovamente coscienza del posto in cui era, i suoi sensi si risvegliarono e venne invasa dal profumo di cibo, il vociare delle persone e la melodia dell’orchestra lì vicino. “Io...s-sì, sto bene. E’...meraviglioso quello che mi hai detto.” Cercò di tirare su il più bel sorriso di facciata che avesse mai fatto. Ma Amèlie era perspicace e sembrava ancora dubbiosa, nonostante tutto. “Sicura? A me non sembri stare bene...”

Angela si morsicò la lingua. “In effetti non molto...ho un senso di nausea che mi accompagna dall’inizio della serata, ma speravo di averlo ricacciato indietro.”

Prima che Amélie potesse dire qualsiasi cosa si alzò. “Vuoi scusarmi? Devo andare in bagno...torno subito.”

Il tripudio di odori e suoni nella stanza erano troppo per lei, aveva bisogno di calmarsi, stando da sola. Si avviò velocemente verso la toilette, lasciando seduta al tavolo un’Amélie preoccupata ed interdetta; evitando in tutti i modi i suoi sguardi inquisitori.

Si diresse velocemente verso il bagno, rischiando di incespicare sui tacchi alti e spinse la porta delle signore; per poco non facendo male ad un’altra donna che stava uscendo. Si rintanò nel primo bagno libero senza dare alcuna spiegazione. Abbassò la tavoletta del WC e vi si sedette sopra, appoggiando il capo al muro dietro: la testa le girava terribilmente e le orecchie le ronzavano. Non faceva altro che pensare alle parole di Amélie , alla felicità con cui glielo aveva detto. Improvvisamente, tutto acquisì un senso: nonostante l’impegno costante per la compagnia che, certamente, le portava via molto tempo; Angela e Amélie si videro meno in questo periodo perché quest’ultima usciva con qualcuno. Ciò spiega anche il senso di distacco ed allontanamento che Angela avvertiva in sua presenza quando erano insieme.

Era tutto così marchiato nero su bianco da farle venire i brividi.

Sentì bussare alla porta e una voce di donna, probabilmente quella di prima, parlare in tono preoccupato. “Si sente bene, signorina?”

Dannati ficcanaso. Perché si impicciano dappertutto?

Le rispose una fievole voce. “Sto bene. Ho solo bisogno di stare da sola.”

La donna insistette ancora, un po’ dubbiosa, ma poi si arrese e se ne andò.

Dentro al bagno, seduta sopra la tavoletta, Angela si ritrovò a pensare che aveva fatto bene a non mettere il trucco quella sera.

 

*

 

Ritornò al tavolo dopo una manciata di minuti.

“Angela! Come stai? Cos’è successo?” si informò subito Amélie.

Angela prese posto al tavolo e si strofinò gli occhi. “Nausea. Non è stato piacevole.”

“Ce ne andiamo subito, allora. Prendiamo un taxi insieme, così ti riaccompagno a casa.”

Angela disse di sì, anche se avrebbe voluto dire di no. Tutto quello che desiderava ora era stare da sola, ma il ristorante distava veramente troppi chilometri da casa sua.

Durante il viaggio di ritorno nessuna delle due proferì parola, ma per motivi ben diversi.

Amélie la accompagnò fin nella sua stanza. “Eccoci qua. Non obbligarti ad andare al lavoro se non stai bene.”

Angela abbozzò un sorriso. “Promesso.”

“Quando starai meglio dimmelo...così possiamo anche finire il discorso di stasera. Va bene?”

Angela rispose affermativamente anche se, dentro di lei, voleva urlare.

“Buonanotte Amélie.”

“Buonanotte Angela.”

Quando vide la porta chiudersi e sentì i passi che si allontanavano, caddero contemporaneamente tutte le speranze che aveva nutrito fino a quel giorno: una dopo l’altra, inesorabili.

Restò da sola e si trascinò fino alla camera da letto.

 

*

 

1 settembre 2063

 

Si era, effettivamente, assentata dal lavoro per qualche giorno. Non erano stati molti, infatti era dovuta rientrare per l’inizio del nuovo mese. Overwatch non aveva fatto molte domande; ad Amélie disse, invece, che era stata ammalata. Quella sera si trovavano insieme nell’appartamento di Angela, la quale stava preparando del caffè.

“Come ti senti, Angela? Qualche giorno fa mi hai fatta spaventare.”

“Bene, ormai. Ho ripreso anche a lavorare oggi.” Si sentiva un po’ colpevole ad ingannare Amélie in quel modo, ma che altro poteva fare?

Sì, sai, quando hai detto che ti saresti sposata mi è venuto un mancamento. Quella sera volevo dirti anch’io che ti amo! No, non se ne parla.

“Perfetto, allora.”

Angela odiava ammetterlo, ma da quel giorno, le loro conversazioni si erano fatte più risicate; svuotate di quelle emozioni e tonalità che usavano mettere.

Amélie procedeva in punta di piedi, come se dovesse selezionare con cura le parole da dire ed Angela non poteva biasimarla; avrà notato che qualcosa non andava nel suo comportamento ed era solo questione di poco tempo prima che saltasse fuori l’argomento.

Ma Angela non poteva biasimare neanche sé stessa, dopotutto.

“Allora...vuoi riprendere il discorso di ieri?” Angela poggiò le tazzine da caffè sul tavolo. Il suo cuore avrebbe tanto voluto non riaffrontare quell’argomento mai più, ma la sua parte razionale sapeva che avrebbe dovuto farlo.

“Si chiama Gérard Lacroix ed è francese, come me. Ci siamo incontrati durante i miei spettacoli. Pensa che ballava anche lui in passato. Poi ha smesso.”

“Oh? E cosa fa ora?”

Amélie sogghignò. “Non indovinerai mai. Lavora in Overwatch anche lui. L’hai mai visto?”

Angela alzò le sopracciglia stupita. “Non ho mai sentito il nome...ma l’organizzazione è grande, mi sarà sicuramente sfuggito. Descrivimelo.”

“Ha dei capelli neri molto corti e un paio di baffetti sottili adorabili. Carnagione chiara, come la mia più o meno...alto, non particolarmente massiccio.” Mentre raccontava stava chiaramente vagando con l’immaginazione.

“Desolata, non l’ho proprio visto.”

“Non fa niente, avrai modo di farlo a breve.” Disse Amélie sorridendo ad Angela e poggiando la tazzina vuota sul tavolo, facendo tintinnare il cucchiaino al suo interno.

“Dunque siete due amanti della musica e della danza classica...che tipo è, poi?”

“Bhè...è un uomo buonissimo. Gentile, cordiale, dolce. Abbiamo iniziato ad uscire proprio quando tu entrasti in Overwatch...forse l’hai anche notato, eh?”

Angela ridacchiò, una risatina di pura cortesia per non far impensierire Amélie. “Ma perché non me l’hai mai detto?”

“Bhè, pensavo di farti una sorpresa. Sei l’amica più importante che ho, volevo...stupirti. Ho fatto male?”

Angela fece cenno di no con la mano. Amélie non poteva capire quanto l’avesse stupita davvero…

Dopo un attimo di silenzio, giunse nuovamente la sua voce. “Senti, Angela...perché non andiamo insieme a scegliere il mio abito da sposa? Le mie compagne di danza morirebbero per venire, però...ecco, ci tenevo a chiederlo a te.”

La dottoressa non sapeva bene cosa dire: da una parte era lusingata che la sua presenza prendesse ancora un posto preminente nella mente di Amélie, ma dall’altra affiorava anche un senso di dolore, difficilmente trascurabile, ogni qualvolta la immaginava con l’abito da sposa, in compagnia di un altro. Già il giorno del matrimonio sarebbe stato doloroso, e non poteva rifiutarsi – o, almeno, non se la sentiva proprio –; prendere parte ai preparativi della futura sposa era davvero straziante.

“Io...” si inumidì le labbra prima di continuare. “Ti ringrazio di cuore per la tua offerta, ma...ho troppo lavoro da sbrigare, non sono sicura che farei un buon lavoro.”

“Non riesci neanche a liberarti un solo giorno?”

“No...mi dispiace, Amélie.”

Quest’ultima si mostrò comprensiva, anche se il dispiacere nei suoi occhi si leggeva perfettamente. “Capisco. Immagino di non poter comprendere fino in fondo cosa significhi essere la responsabile dell’area medica di un organizzazione così importante. Dopotutto, faccio ancora fatica a capire cosa faccia Gérard nello specifico.”

Angela stava per rispondere scusandosi di nuovo, quando Amélie la bloccò con voce implorante. “Ma almeno sarai mia testimone? Per quello non accetto ripieghi!”

La frase era più un ordine che una sollecitazione o una richiesta. Angela non oppose resistenza. “Va bene. Ci sarò.”

“Il matrimonio si terrà il 12 settembre. Io e Gérard stiamo preparando tutto, vogliamo che sia perfetto. Poi ti faccio sapere tutte le informazioni aggiuntive.”

“Grazie, Amélie.”

“Ci credi che tra poco sarò la signora Lacroix?”

Angela stava pensando di alzarsi e portare via le tazze da caffè, ma sentendo l’ultima frase, rimase seduta al suo posto. “Cosa? Pensavo anteponessi o posponessi il tuo cognome...non toglierlo così.”

“Ci ho pensato anch’io...ma odio le presentazioni lunghe. Così ho optato per tenere il suo...e poi suona molto bene.”

“Pensavo fossi legata al tuo vecchio nome di famiglia.”

“E’ così, infatti.”

“Ma lo stai eliminando!”

“Ma non sto annullando proprio un bel niente, Angela! Se ti dà particolarmente fastidio, sul campanello – per te – ci sarà “Amélie Guillard”, così...”

Angela la interruppe, notando di averla lievemente scossa con le sue lamentele riguardo il cognome da mantenere. “Non serve arrivare a ciò. Volevo dirti che...bhè, io non cambierei mai il mio cognome da nubile in caso di matrimonio.”

“Capisco. Ma sono scelte ed io ho scelto di mantenere Lacroix”.

Angela annuì, ancora dubbiosa. Il fatto che veramente la infastidiva era che, dopo la cerimonia, sarebbe stata spogliata anche dell’ultimo segno conoscitivo di quando si erano incontrate.

“Hai ragione.” Replicò. “Dopotutto è il tuo matrimonio.”

 

*

 

12 settembre 2063

 

Il sole caldo di quella domenica mattina filtrava dalla finestra e creava giochi di luce sulla pelle nuda di Amélie.

“Sei bellissima.” La voce di Angela arrivò dalla soglia della porta. Amélie girò poco poco la testa per vedere di chi si trattasse e ritornò a guardare lo specchio, sorridendo. “Mi puoi dare una mano con questa?”

Angela le si avvicinò e prese la collana dalle sue mani.

Amélie sospirò lievemente al contatto della sua pelle con il freddo metallico del gioiello. “Ecco fatto. Un incanto.” Angela posò un rapido bacio alla base del collo e poi la circondò con le sue braccia. “Sarà un piacere condividere la mia vita con te.”

Il basso, ma deciso bip bip della sveglia troncò l’idillio, penetrando bruscamente nel sistema nervoso di Angela: stropicciandosi gli occhi si mise seduta e guardò alla sua sinistra. La sveglia segnava le 7:30, era arrivata l’ora di alzarsi e prepararsi.

 

*

 

La località che avevano scelto Amélie e Gérard per il loro matrimonio era davvero incantevole, non c’era alcun dubbio. Avevano prenotato un intero parco immerso nella natura, il cui punto forte era un grazioso lago artificiale davanti al quale si sarebbe tenuta la celebrazione. Non fu la prima ad arrivare, c’erano già molti invitati: tanti lavoravano in Overwatch, infatti li conosceva oppure li aveva anche solo visti o sentiti nominare. C’era, poi, un folto gruppo di ragazzi e ragazze dell’età di Amélie, anche più giovani, che ipotizzò fossero i colleghi della compagnia di ballo.

Fino all’arrivo degli sposi, Angela si trattenne con il testimone di Gérard, un tale Gabriel Reyes. Si diceva un ottimo amico di Gérard, Jack e Ana, avevano lavorato spesso insieme; anche se Angela non lo aveva mai visto prima d’ora.

Gabriel aveva la carnagione piuttosto scura ed un volto e un corpo segnati dal tempo, nonostante gli avrebbe dato al massimo cinquanta anni. Aveva una voce profonda ed una barba molto folta che gli incorniciava la bocca: insomma, il contrario di Gérard.

Poi, finalmente, il momento giunse e gli sposi fecero la loro comparsa tenendosi a braccetto.

Angela pensò di non avere mai visto Amélie così felice, e anche così bella: il vestito bianco che portava non aveva le spalline e dalla vita in giù era finemente decorato con delle rose bianche cucite su di esso. Aveva i capelli raccolti, solo alcune piccole ciocche ribelli le ricadevano ai lati del viso; la delicata acconciatura era “protetta” da un lungo velo trasparente.

Gérard era anch’egli elegante, nella sua semplicità: indossava un completo nero ed una camicia bianca, un farfallino anch’esso nero sotto il collo ed una rosa rossa sul bavero sinistro della giacca.

Camminarono sorridenti fino ad arrivare davanti a colui che avevano scelto per la celebrazione del matrimonio: in pieno spirito pacifista, avevano optato per un omnic, probabilmente un amico. Dopo le consuete frasi di rito Gabriel si alzò e portò sul tavolo gli anelli d’oro bianco ed i due sposi se li scambiarono. Venne il momento del bacio, al cui Angela abbassò leggermente lo sguardo e si sentì male per averlo fatto, anche se Amélie non stava di certo guardando nella sua direzione.

Dopo la celebrazione, gli invitati cominciarono a disperdersi per tutto il parco, mentre i camerieri del ristorante che gli sposi avevano prenotato, cominciarono a sistemare i tavoli, portando fuori diverse pietanze. Angela parlò con alcuni colleghi di Overwatch, sbocconcellando qualcosa di tanto in tanto. Ad un certo punto notò che gli sposi erano impegnati a farsi fare delle foto in riva al lago e Angela pensò bene di fare una passeggiata: aveva bisogno di stare da sola. Imboccò la strada che circondava il lago dall’altro lato, pensando di passare inosservata.

Camminò, rimuginando su quello che aveva appena visto: Amélie e Gérard erano inseparabili; scherzavano, ridevano, c’era una sintonia palpabile: tutti se ne sarebbero accorti. Era la giornata più bella di sempre per Amélie, mentre Angela voleva sprofondare: fare chiarezza sul suo stato emotivo la faceva sentire ancora più male di quanto non fosse già. Sapeva benissimo che agli occhi degli altri il suo atteggiamento sarebbe stato considerato da “malati”, ma Angela aveva una ragione, ben definita, che non avrebbe mai potuto confidare a nessuno. Questo stato la logorava lentamente.

Era arrivata in un punto del lago dove sorgeva un piccolo canneto alla sua destra. Vicino alla riva c’era una fila di anatroccoli che seguiva la mamma. Si abbassò e sgretolò il tozzo di pane che aveva rubacchiato da un tavolo, immaginando che ci fossero stati degli animali nei paraggi.

Sentì una voce alle sue spalle. “In realtà non bisognerebbe dare da mangiare agli animali in questo parco, ma sono veramente troppo bellini per non farlo, vero?”

Angela buttò in acqua le ultime briciole di pane e si alzò, girandosi. “Amélie.”

Quest’ultima era in piedi dietro di lei. Si era tolta il velo dietro la nuca, per essere più comoda, ed ora una cascata di capelli corvini le ricadeva sulla schiena. “Ti ho vista mentre venivi qui. Non mangi con gli altri?”

“A dire il vero ho preso già qualcosa, ma non ho molta fame.”

“Capisco. Ora che siamo da sole, mi puoi dire perché continui ad evitarmi?”

Ecco. Sapeva che questa discussione sarebbe arrivata, prima o poi.

“Non ci siamo scambiate due parole da quando sono arrivata qui. Ed i giorni precedenti non sono stati meglio. Ho pensato di tutto...che te la fossi presa per la storia del cognome, che in fondo non volessi essermi testimone di nozze, che non ti piacesse mio...marito, che avessi fatto qualcosa di sbagliato.” Era difficile sostenere lo sguardo pieno di dolore, ma allo stesso tempo risentito di Amélie, veramente difficile.

“Dimmelo tu, Angela. Dimmi che altro posso fare per te, dimmi cos’è successo tra noi.”

Angela si passò la lingua sul labbro inferiore, tastando il lucidalabbra che si era messa prima. “Non è colpa tua, Amélie...nè di Gérard. E’ una questione che riguarda me e solo me. Io sono felice per voi...davvero.”

“Ne sei così sicura? Perché questi atteggiamenti non corrispondono all’idea che ho io dell’amica felice per me e il mio matrimonio.” Amélie lottava per non far scendere le lacrime che le si erano create agli occhi, ma senza riuscirci. Un rivoletto d’acqua salata si liberò e scese giù, cadendo velocemente a terra.

Angela voleva buttarsi nel lago dietro di lei e lasciarsi annegare. “Non farmi dire cose che non puoi capire, Amélie.”

“Potresti almeno provarci, non? Mi dicevi spesso che ero intelligente e perspicace.”

“Il punto è che non capisco anche io! Non capisco come possa essere successo, perché a te, a me, perché è andata così. In questo momento mi sto odiando.”

“Ammettere gli sbagli è il primo passo per perdonare sé stessi.”

“Forse è stato davvero uno sbaglio. Un gigantesco, e stupido, sbaglio. Non capiresti mai, Amélie.”

“Dillo.” La voce di Amélie non lasciava vie d’uscita, Angela era in trappola.

Ugh. Al diavolo. Tanto Amélie l’aveva già persa, no?

“Io...mi sono innamorata di te. Ecco, ora lo sai.”

Piombò un innaturale silenzio tra le due. “Perché non me l’hai detto prima?”

Stavolta era il tono di Angela ad essere risentito. “Sarebbe forse cambiato qualcosa?”

Amélie posò lo sguardo a terra, aveva perso le capacità di dire alcunché. “No...però avrei potuto capire prima, suppongo. Mi dispiace molto, Angela. Io...non sapevo di questa cosa...”

Angela sospirò e fece dei passi in avanti. “Sarà meglio tornare. Tutti si staranno chiedendo dove sia finita la sposa.”

Amélie non si mosse subito. “Che cosa ne sarà di noi due, ora?”

“Tu continuerai la tua vita...ed io la mia. In futuro...si vedrà. Non ho molte idee al momento.”

Amélie annuì, poco convinta, e ritornarono alla festa.

Angela non si era tolta un peso e, per quanto riguarda Amélie, si poteva quasi sentire il rumore dei pensieri nella sua testa, tanto erano numerosi.

 

*

 

Angela si prese il viso tra le mani, massaggiandolo. “E questa è la fine della storia.”

Brigitte, che aveva finito di riparare la sua corazza, era poggiata contro il tavolo da lavoro con le braccia conserte. Il racconto l’aveva lasciata sgomenta. “Cosa successe dopo?”

“La seconda parte della storia è la più drammatica. Magari ti racconto tutti i dettagli un’altra volta. In ogni caso, all’inizio, facemmo quello che ti dissi prima: continuammo le nostre vite. Non riuscimmo mai a recuperare il rapporto che avevamo prima...qui credo che buona parte della colpa fosse mia. Un giorno Amélie sparì: così, di punto in bianco. Gérard era disperato ed io con lui, anche se non lo davo a vedere. Si mobilitò mezza Overwatch per le ricerche e dopo diverse settimane, la trovammo. Era in stato confusionale ed io mi offrii per tenerla sotto controllo, giorno e notte.”

Angela guardò Brigitte con una smorfia di orrore sul volto. “Io...io ero sicura delle cure che le stavo somministrando. Non ho mai visto niente del genere…il giorno in cui la dimisi, i suoi segnali vitali erano perfetti. Aveva ricominciato con le sue normali attività.

Ma, pochi giorni dopo le dimissioni, Gérard venne trovato morto, assassinato, nel suo letto e Amélie era sparita, di nuovo. E’ facile ricollegare i fatti, vero? Overwatch fece molte ricerche a riguardo, ma cercò di insabbiare il tutto. La conferma definitiva arrivò quando Ana, in missione, venne gravemente ferita e perse l’occhio destro. Sosteneva di essere stata colpita da un cecchino professionista a cui lei non avrebbe sparato proprio perché trattasi di Amélie. Da lì, anche le relazioni all’interno di Overwatch cominciarono a sgretolarsi: venni a scoprire della Blackwatch, la cellula terrorista dell’organizzazione, di cui facevano parte Gérard, Gabriel Reyes e molti altri...proprio perché Gérard non era un uomo qualunque, si ritiene che la Talon, il principale nemico di Overwatch, abbia apposta adescato la moglie per poterlo eliminare facilmente. Fui la prima a lasciare l’organizzazione e gli altri seguirono a ruota.”

Angela finì il discorso con un lungo sospiro affranto. “Insomma, un losco insieme di intrighi, sotterfugi, notizie taciute e pericoli sottostimati.”

Brigitte si sedette vicino a lei, circondandole le spalle con un braccio. “Però eccoti di nuovo qui...ad aiutare l’organizzazione che ti ha tradito.”

“Mmh, pensavo di non essere una masochista, invece...”

Brigitte rise e la spintonò amichevolmente. “C’è sempre speranza, Angela. Per tutto.”

Angela la guardò: la bambina che, anni fa, fantasticava di diventare un’eroina, seguendo le orme di suo padre, di Reinhardt, e di tutti gli altri che aveva conosciuto, ora era davanti a lei ad incoraggiarla. I suoi sogni si erano parzialmente avverati: certo, non era straricca e famosa come aveva pensato anni fa, ma stava per entrare a far parte di qualcosa di estremamente più soddisfacente, di rivoluzionario. Pensò quindi che, forse, doveva seguire anche lei il suo cuore, abbandonare i rimorsi e non smettere di sperare.

 

Alcuni mesi prima…

 

Iniziava ad accusare i primi sintomi della stanchezza, nonostante i litri di caffè che aveva ingurgitato prima. Riavviò, per l’ennesima volta, il video che aveva davanti.

Ormai aveva imparato a memoria tutte le scene, ma ce n’era una, una frase in particolare che continuava a rimbombarle nella mente, come se non avesse ancora colto il significato nascosto.

“...Possiamo nuovamente cambiare le cose. Il mondo ha bisogno di noi, ora più che mai. Siete con me?”

Angela Ziegler bloccò di nuovo il video e scostò alcuni fogli alla sua destra: le sue ricerche su Widowmaker.

 

Sì.

Per il mondo.

Per Amélie.

 

 

Traduzioni:

 

Non = no

J’espère que c’est vraiment comme vous dites, docteur = spero che sia davvero come dite, dottoressa

Ainsi soit-il = così sia

Au revoir, docteur = arrivederci, dottoressa

Beaucoup mieux! = molto meglio!

Chérie = cara

Ne t’en fais pas, docteur = non ti preoccupare, dottoressa

Bitte, bitte bitte = ti prego, ti prego, ti prego

Bienvenu au chateau Guillard = benvenuta allo chateau Guillard

 

  
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