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Autore: UngaroSpinato    31/03/2019    0 recensioni
Sono passati più di vent'anni da quando era divenuto cosciente della sua vecchia vita. Da allora fece del suo meglio per mantenersi il più lontano possibile da quelli che una volta erano solo personaggi di un libro, ma ora la sua stessa curiosità lo aveva spinto nel mezzo della trama. Ora deve scegliere: essere o non essere? Agire e cambiare la storia o lasciare che segua il suo corso naturale?
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Harry Potter
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
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Per chi non lo sapesse il clima scozzese è abbastanza mite, se si tiene in considerazione la latitudine: Edimburgo presenta una temperatura annuale media di circa 10 °C, molto più elevata di quella moscovita che non sale più in alto dei 6 °C al di sotto dello 0. Essa, con l’avanzare della mattinata, va gradualmente ad alzarsi fino a raggiungere quei venti gradi che la renderebbero facile da apprezzare anche in maglietta. Allora il turista preparatosi per fare un giro non ha che da mettersi in marcia per godersi il fresco e, se avventuroso, togliersi la maglietta per prendere il sole. Se poi a questo ardire si aggiungesse anche un pizzico di fortuna, avrebbe potuto trovarsi di fronte a un castello che, per la natura che lo circonda e la bellezza dello stesso, parrebbe ritagliato da una fiaba e incollato nella realtà.
Un lago dalla superficie piatta accarezzava lo sguardo del visitatore e le sue acque, completamente nere ed impenetrabili ad occhio nudo, catturavano la sua immaginazione: e mostri e violente tempeste vi prendevano vita in un attimo, divorando o distruggendo ogni intruso che avesse osato provare a passarvi. Al suo centro risiedeva una piccola isola, le cui rive erano scoscese e sassose, segno inequivocabile di come un tempo l’ambiente selvaggio si fosse opposto con cocciutaggine all’invasore umano; sulla sommità accoglieva un unico sempreverde, sentinella solitaria che faceva da testimone nel corso dei secoli.
Traversato il lago, il visitatore incontrava il primo segno di presenza umana in questo mondo, dei moli di pietra dalle ragguardevoli dimensioni. Il punto di attracco venne una volta costruito in legno, materiale reperibile ed economico e facile da lavorare; con il passare dei secoli si decise di sostituirlo con la pietra: e così grossi e solidi massi, scolpiti finemente per incastrarsi perfettamente l’uno con l’altro e fissati per il tempo a venire con la calce, si sostituirono a travi ed assi di legno, contribuendo così all’immagine di solidità del complesso. Cosa alquanto curiosa era l’assenza alla vista dei soliti strumenti con cui le barche andavano governate e curate; ancora più strano, non vi era nessuna altra struttura per tenere tali mezzi al sicuro dagli elementi del tempo. Le stesse barche erano assenti, come se fossero state tratte in secca e messe al sicuro fino a che fossero servite: ma, data la mancanza di rimesse o strutture vicino al molo, l’osservato aveva diritto a chiedersi dove fossero, senza però aver modo di darsi una risposta che non fosse mera speculazione.
L’ignaro osservatore sarebbe quindi giunto alla conclusione che questa parte non fosse altro che un richiamo al passato, un innocente lascito di un tempo passato e mantenuto immutato semplicemente per mantenere tutto come doveva essere: un monumento della storia locale per i coraggiosi turisti.
Dal molo partiva una strada che si inerpicava verso l’alto, salendo fino all’ingresso del castello. Correva al fianco di scoscese e ripidi pareti di rocce che avrebbero costituito un’interessante sfida per chiunque avesse deciso di provare a scalarle. La strada passava sull’unico tratto che godeva del verde dell’erba, controllata con una cura zelante, forse anche ossessiva: se uno fosse stato tanto folle o annoiato da misurarla con un rigo avrebbe scoperto che raggiungeva l’altezza di un pollice ovunque. Unica nota discordante da questo manto erboso era la strada che, vista dall’alto, avrebbe ricordato un enorme e sinuoso serpente.
Strada ed erba si interrompevano di fronte ad una scalinata che portava ai portoni. E scala e battenti regalavano un forte stacco l’una, spoglia e semplice, dall’altro, lavorato con enorme attenzione e decorato senza farsi cura delle spese.
Il portone era la prima portata della grandiosa opera creata dall’uomo, preceduta e stuzzicata dagli antipasti offerti dai moli e dal prato: era costituito da due enormi ante, ottenute da singole tavole di legno di un’unica quercia, la cui stazza doveva essere stata da guiness dei primati. Entrambe raggiungevano i nove metri di altezza ed avevano una larghezza di tre metri a testa: anche solo provare ad immaginare quale pianta avesse dato loro luce era un difficile esercizio per la mente. I battenti, già di per sé imponenti, lasciavano un’impressione ancora più profonda agli occhi dei visitatori per la lavorazione, proponendo scene intarsiate di alcune storie delle vite dei Quattro Fondatori della scuola. In uno si vedevano quattro adulti che si incontravano per discutere tra loro, a richiamare il momento in cui l’idea di questa struttura nasceva; in un secondo si vedeva la posa della prima pietra del castello, il primo passo verso la sua realizzazione fisica; in un altro ancora si vedeva una fedele miniatura bellissima dello stesso castello, la più bella di tutte le scene. E molte altre si susseguivano, srotolandosi come la pellicola di una vecchi macchina fotografica: e tutte queste educavano l’osservatore sulla storia del castello, via via proseguendo fino alle tavole centrali, unite a formare una singola immagine, i Quattro fondatori che insegnavano i misteri della scienza della Magia ad una platea di ragazzi.
La porta era appaiata da due statue di proporzioni fedeli alla realtà, rappresentanti due soggetti chiaramente diversi. Uno portava un lungo tabarro che lo avvolgeva tutto, lasciando fuori solo il capo e gli stivali che portava ai piedi. Il capo era scoperto e dominato da una lunga capigliatura che si perdeva sulla schiena, mentre le guance erano imberbi. Il braccio sinistro non era visibile se non per la curva lungo il suo fianco. Il destro invece usciva dal mantello e si stringeva intorno ad un bastone, la cui estremità superiore era sferica: in questa sfera c’era l’unica parte non di pietra della scultura, una piccola palla di cristallo con al suo interno una densa nube, incantata perché non smettesse mai di muoversi. Il suo compagno vestiva invece un’armatura da cavaliere medievale, fatta principalmente di cotta di maglia, e portava in testa un elmo completo, che gli proteggeva tutto il volto tranne che per gli occhi, da cui due fessure circolari lasciavano che potesse scrutare minacciosamente i passanti. Le mani erano congiunte e poste sul pomolo di una spada, la cui punta era conficcata in terra. L’unica parte di questa statua a non essere realizzata in pietra era lo stemma che campeggiava sul petto del cavaliere, un dragone rosso, che era costituito da tre squame: strappate ad un vero dragone, esse catturavano facilmente gli sguardi da lontano, riflettendo i raggi del sole e parendo rifulgere di luce propria.
Sebbene le due figure umane fossero piccole rispetto alle porte, era facile caderne in soggezione: non solo sembravano tanto reali da poter iniziare a camminare da un momento all’altro, ma quei due unici tocchi magici facevano sì che paressero solo statue di pietra dormienti, non masse senza vita; e creavano anche un alone di timore reverenziale, quasi come se le due leggende ancora vivessero incatenate in quei corpi di fredda roccia. Dato il luogo e i tempi in cui il castello fu realizzato era opinione comune che fossero omaggi a due grandi figure dei tempi passati, la cui esistenza sconfinava spesso nel fantastico anche per la popolazione magica: Re Artù e il suo fedele protettore e consigliere Merlino. Questa comune credenza era avvalorata dal fatto che le statue, commissionate e realizzate intorno all’anno Mille, portassero i segni distintivi dei due: la sfera di vetro, chiaro ricordo della gemma che faceva da nucleo al focus magico dello stregone, e lo stemma dell’armatura, il dragone rosso gallese, che era il punto di concentrazione delle magie protettive e rafforzative che erano stati intessuti a protezione del re dal suo protettore.
Mentre portone e statue furono realizzate prima ancora che venisse dato il via al castello, il resto arrivò col tempo e dopo decenni di lavori, migliorie ed ampliamenti. Malgrado il potere magico di cui disponevano e avrebbero potuto servirsi per facilitare i lavori, i Fondatori scelsero di portarli avanti alla maniera ‘babbana’: ritenevano che così facendo la struttura sarebbe stata più omogenea e la sua realizzazione un vero e proprio traguardo simbolico, un futuro lontano, possibile ma difficile a realizzarsi, per la cui realizzazione fosse necessario faticare e sudare. E così, per quanto al suo interno vi fossero intere camere realizzate servendosi della magia e ne fossero a loro volta imperniate e protette, il castello fu principalmente il frutto del sudore di decine e centinaia di maghi.
Il resto del castello era costruito seguendo una corrente gotica, come sarà nota la sua controparte nel mondo babbano, favorendo ampie vetrate ed alte torri con guglie che spostavano lo sguardo ancora più su. Era un trionfo di sensazioni e sbigottimento, che catturava l’occhio fisico del visitatore e lasciava quello astratto della mente a fantasticare su quanto non poteva essere costruito ma solo sottinteso.
Gli altri lati del castello declinavano molto più dolcemente ed erano dominati dalla natura. Alcuni alberi crescevano in posti strategici in modo da fare ombra nelle giornate più calde, soprattutto grossi e tenaci abeti che nei giorni di Natale sarebbero ricoperti di neve ad aiutare le festività. Ai loro piedi si estendeva un enorme tappeto di erba verde, soffice e fresca al tatto, facilmente ridipinta di bianco non appena giungessero le nevi invernali.
Da un lato si poteva accedere a quella usualmente chiamata Foresta Proibita. Inizialmente questi alberi non erano altro che una piccola riserva di caccia ma, con il passare dei secoli e il crescente disinteresse per la caccia dei suoi proprietari, essa fu donata completamente alla scuola a fini protettivi ed educativi. Per prima una piccola colonia di centauri accettò di trasferirsi qui dalla Grecia, a patto che l’avessero poi difesa in caso di necessità, seguiti ben presto da altre creature meno intelligenti, raramente senzienti, introdotte direttamente dagli abitanti stessi del castello e dai loro familiari. E non mancò molto che un enorme stuolo giunse in questo nuovo piccolo ritaglio di paradiso, protetto dagli occhi degli uomini senza magia e dai magici cacciatori illegali. Ma con il tempo, così come innumerevoli altri progetti nel corso della storia, essa fu sempre più lasciata a se stessa fino a che agli studenti ne fu vietato l’accesso in quanto ritenuto troppo pericoloso. Poco prima della Foresta si ergeva una piccola costruzione di pietra, residenza del guardiacaccia di Hogwarts, provvista di camino e legnaia per i tempi rigidi dell’inverno.
Ma tutto questo magnifico scenario, qualcosa che aveva sempre sognato di ammirare in una vita passata, Ares lo avrebbe potuto assaporare solo settimane più tardi, quando sarebbe giunto ad Hogwarts il primo giorno di settembre per l’inizio dell’anno scolastico. Per ora si sarebbe dovuto accontentare dell’altro lato, quello meno selvaggio ed affascinante ma vicino alla civiltà rappresentata dal villaggio di Hogsmeade. Per il suo primo incontro ufficiale con quelli che sarebbero stati i suoi colleghi l’anno seguente e quelli a venire, o almeno così sperava che potesse essere, Ares si trovò obbligato ad accettare questo doloroso ritardo.
Ares aveva preso il Nottetempo per arrivare fino a lì, diffidando della sua abilità di creare una Passaporta per un posto mai visitato prima di allora. Il viaggio, che gli costò uno sproposito a suo avviso, durò fin troppo per i suoi gusti: mezz’ora passata venendo sballottato di qui di lì per il magico equivalente di un autobus inglese avrebbe guastato la colazione di chiunque. Essersi dovuto ripulire i pantaloni dal caffè versatogli addosso da Stan Picchetto non rappresentò che la ciliegina sulla torta. Con il sopracciglio che tremava violentemente, un tick nervoso che si era ritrovato molto presto in questo nuovo mondo, Ares si era affrettato a impedire che fosse il più giovane ed imbranato mago a provvedere a ripulire i suoi pantaloni, facendolo lui stesso: il timore di vedere quel ragazzino imberbe puntargli una bacchetta addosso, per giunta con un’estremità potenzialmente scintillante contro il suo inguine, non aveva sicuramente causato un difetto nella sua cortesia.
Era stata un’esperienza strana guardare negli occhi qualcuno che si sarebbe schierato al fianco di Lord Voldemort in futuro. Con un naso enorme che dominava il volto, occhietti acquosi, incisivi eccessivamente grandi e corpo tanto magro che gli si sarebbero potute contare le costole, offriva l’immagine perfetta di un ragazzo strappato alla scuola per lavorare; i suoi abiti di seconda mano, troppo grossi di una taglia e completamente stropicciati, completavano il quadro.
Tutto questo, combinato alla sua posizione sul Nottetempo, un mezzo di trasporto più evitato che usato, lo rendevano un essere innocuo agli occhi dei più, non una possibile minaccia. Ares non faticò molto a vedere perché qualcuno come lui, posizionato là dove si trovava, sarebbe stato un ottimo acquisto per i Mangiamorte: un agente che non si sarebbe dovuto muovere per raccogliere informazioni di alto valore, sebbene andassero poi scremate e convalidate. Stan Picchetto era una minaccia ancora potenziale, una che andava tenuta a mente anche se al momento non pressante; nelle condizioni giuste sarebbe anzi divenuto utilizzabile dalle sue vittime. Fu proprio questo il modo in cui il giovane inglese fu inquadrato dal leggermente più anziano italiano.
Nota positiva del viaggio fu che, essendo mattino presto, Ares era il primo cliente a salire sul mezzo e quindi il primo a essere servito. Infatti, mentre già c’erano alcuni viaggiatori che o dormivano o si preparavano al piano superiore, essi avevano richiesto di essere portati a destinazione ad orari più vicini al mezzogiorno, dando modo ai viaggiatori più mattutini di essere serviti per primi. Osservando ciò, il mago aveva mentalmente avanzato l’ipotesi che molti usufruissero del Nottetempo non per viaggiare ma per arrivare a qualche appuntamento in orario perfettamente riposati e rifocillati; non un mezzo di trasporto quindi, ma un hotel su quattro ruote.
Ares fu distolto dai suoi pensieri quando il Nottetempo iniziò a rallentare. Incantato specificamente per andare a velocità superiori, l’equivalente magico dei bus babbani non godeva di qualcosa di analogo per migliorare il sistema di frenata: così per passare dai suoi cento chilometri orari a una posizione stazionaria, esso non ebbe modo di diminuire in modo costante la velocità ma dovette frenare in circa tre metri. Questa manovra, complicata dal fatto che il bus rimanesse perfettamente tangibile al mondo esterno, malgrado fosse intriso di innumerevoli incanti, fu resa possibile solo dalla magia che lo proteggeva: così il mezzo si piegò su stesso non appena l’autista premette il pedale del freno, ricordando il comportamento di una molla.
Questo spettacolo, straordinario quando ammirato dall’esterno, si rivelò una tremenda esperienza per il nostro personaggio.
Ares si era infatti tirato in piedi non appena Stan annunciò l’imminenza della sua fermata, aggrappandosi con la mano sinistra alla maniglia di una poltrona. Ma l’italiano non aveva considerato per un singolo istante le conseguenze di un’inchiodata a quella velocità, né d’altronde se ne aspettava speranzoso com’era nella magia del bus. Quando l’autista frenò, Ares ebbe la strana sensazione che il mondo avesse deciso di iniziare a saltellare, lasciando i suoi poveri abitanti a provare a resistere a questo suo eccesso di vitalità.
Nella frenata la mano di Ares, e con essa il braccio, era rimasta fermamente aggrappata alla maniglia, fallendo però nel tentativo di tenere ben dritto il suo padrone. Il peso dell’uomo, mal bilanciato sui suoi piedi ed eccessivo da mantenere saldo per un solo aggancio, si ritrovò a vincere contro la resistenza del suo arto. Così mentre la mano rimaneva al suo posto, il braccio si piegò dolorosamente e scagliò il resto del corpo lungo una nuova linea direttrice. La testa dell’italiano sbatté violentemente contro il finestrino e, per un secondo, vide le stelle proverbiali.
Con un grugnito di dolore Ares scacciò la leggera nebbia che aveva avvolto la sua mente. La cosa gli costò faticosa concentrazione, ma gli riuscì abbastanza facilmente. Maledicendo ogni divinità a lui nota, portò il braccio libero sotto di sé e ne appoggiò la mano sulla poltroncina, la cui superficie era lì a comoda portata. La spalla, maltrattata dalla frenata e provata dalla torsione, lo mise dolorosamente al corrente del suo dispiacere; muovendola con calma, facendo ruotare la clavicola con estrema attenzione, si rese conto di non aver subito danni permanenti. Quindi, con uno sforzo erculeo, fece perno sui suoi arti superiori e si diede una spinta per tirarsi in piedi. Il mondo oscillò pericolosamente intorno a lui: gli parve che volesse chiamarlo a sé ed abbracciarlo, invito estremamente promettente nella sua semplicità, ma in qualche modo Ares riuscì a trattennsi dall’accettare questo invito.
Quando fu finalmente in piedi vide il giovane Picchetto cercare di trattenere una risata, senza però dare idea di riuscire molto in questa sua impresa. Fallì nel momento in cui Ares, che ora stava molto attento nel mantenere il proprio costantemente sui talloni, si passò una mano tra i capelli, andando ad appurare se si fosse preso un bernoccolo con questa sua ultima avventura. La superficie della pelle si rivelò però intatta, lasciandogli quindi escludere di aver subito dei tagli; un leggero rigonfiamento si andava però formando sulla parte sinistra della fronte, là dove aveva sbattuto contro il vetro.
Borbottando una silenziosa imprecazione, Ares chiamò in mano la sua bacchetta, che fuoriuscì pronta e impaziente di essere usata dalla sua manica. Con la deliberata calma di chi aveva vissuto numerosi altri eventi simili, portò la punta sul luogo offeso e bisbigliò rapidamente un piccolo incantesimo curativo. Malgrado non fosse incredibilmente capace in questa branca della magia, dove era necessario avere enormi conoscenze dell’anatomia umana per provare anche le minime cose, nel tempo aveva appreso numerosi interventi magici utilizzabili come pronto soccorso: l’unica cosa di cui poteva lamentarsi era il numero di volte in cui se ne era servito.
Come sempre in quelle occasioni, Ares sentì una sensazione di calore espandersi sotto il tocco della bacchetta: magie simili erano sempre molto più efficaci e meno invadenti se praticate dal ferito stesso. Infatti nel momento in cui agisce un Medimago, quest’ultimo deve prima purificare la propria magia, ripulendola da ogni tratto appartenente a lui e che potrebbe danneggiare in qualche il processo di cura del paziente: quindi, iniettarla nel paziente. Essa viene, di conseguenza, percepita come fredda e invasiva, un po’ come sarebbe l’ago sterilizzato di una siringa, da cui poi un liquido freddo penetrava nel corpo. Quando invece è lo stesso ferito a curarsi, egli non ha bisogno di snaturare la propria magia, in quanto essa non rischia di causare danno perché in un corpo estraneo e impreparato ad essa; rimanendo nello stesso corpo, non teme di perdere quell’attributo che la rende semicosciente di se stessa, lasciando che agisca naturalmente nel velocizzare la guarigione del suo ospite.
Ares ignorò l’ancora ridente Stan Picchetto e si diresse dall’autista. Quest’ultimo, forse preoccupato di essere incolpato per l’incidente, era completamente silenzioso e guardava nervosamente l’italiano che si avvicinava alla sua postazione.
‘Buona giornata, signore’ disse con un filo di voce e il volto rapidamente impallidito.
‘Grazie per il servizio e buon lavoro a lei’ rispose con voce piatta e studiatamente incurante l’italiano.
Ares scese dalla vettura in silenzio e fece qualche passo in avanti, in modo da evitare di dare fastidio al bus al momento della sua ripartenza. Riuscì a fare solo qualche metro quando sentì il classico rumore di una sgommata: voltatosi di scatto, vide il mezzo che stava rapidamente prendendo velocità nella sua corsa.
Quando ebbe visto il Nottetempo ripartire e ne perse d’occhio la sagoma, Ares portò la sua attenzione alla cittadina in cui si trovava e rimase colpito dalla sua tranquillità. I negozi erano ancora per lo più chiusi e le strade deserte, di fatto rendendola molto simile ad una di quelle famose città fantasma di cui sentiva molto parlare nei film western e horror. Ma questo era normale, Ares comprese in breve. Per quanto Hogsmeade fosse ancora uno dei pochi centri puramente magici nella Gran Bretagna, ovvero con una popolazione priva di babbani, gran parte delle sue attività traevano i loro profitti dagli studenti. Certamente la clientela estiva sarebbe stata diversa e ben più rara: non più studenti eccitati dall’essere usciti da scuola ma famiglie e persone al lavoro che si sarebbero volute godere un attimo di pace e riposo al sole estivo.
Il bus magico lo aveva lasciato su una piazza di fronte all’Ufficio postale. Aveva mura dal colore azzurro e si ergeva per due piani, da cui si potevano vedere molte finestre, per godere al massimo della luce naturale, alcune delle quali venivano aperte proprio in quel momento. Dal lato opposto rispetto alla facciata che poteva vedere, Ares intravide una sorta di torre che si ergeva dall’ufficio, dove supponeva che venissero ospitati i numerosi gufi usati dall’ufficio.
L’unica altra struttura della piazza che potesse identificare era l’inconfondibile Mielandia. Due vetrine cilindriche sporgevano dal muro dello stabile e mettevano in bella mostra alcuni dei prodotti locali: dolcetti, caramelle, cioccolato e molto altro, tutti dai colori estremamente vivaci ed accesi. La porta, verde come la struttura delle vetrine stesse, era aperta e Ares poteva vedere un enorme carrello pieno di dolci venire levitato all’esterno da un uomo corpulento.
Con passi decisi il mago italiano iniziò ad allontanarsi dalla piazza, segnandosi mentalmente di tornare a visitarla con metodo e scoprire quali fossero i negozi che non conosceva. La direzione che doveva prendere era facile da intuire, bastava semplicemente alzare la testa e cercare le torri del castello vicino: a quel punto sarebbe solo andare dritto e arrivare all’ingresso della scuola.
Seguendo la logica del commercio, Hogsmeade sorse inizialmente come centro commerciale: per questo motivo la strada principale si snodava verso l’ingresso di Hogwarts e su di essa affacciavano i negozi più antichi ed importanti. Come accadde nel medioevo babbano, quando la cittadina, che inizialmente altro non era che una fiera mobile, si dimostrò particolarmente ricca, iniziò ad espandersi e ad attirare sempre più mercanti, fino a che essi furono seguiti dalle famiglie: a quel punto molti tra loro completarono il percorso iniziato sotto la guida della logica, stabilendosi lì in pianta stabile. Così da semplice mercato mensile, fatto di tendoni e panche di legno, Hogsmeade crebbe fino a diventare una cittadina di pietra e mattoni.
La strada principale, come voleva la prassi britannica di un tempo era fatta di massi levigati e tenuti insieme da calce. Dei solchi correvano ai suoi lati così da raccogliere l’acqua piovana, che sarebbe passata dal centro grazie ad una sottile, quasi impossibile da notare, pendenza. Questo metodo, seppur diverso da come fosse ai suoi primi utilizzi, venne ripreso chiaramente dagli invasori romani. Era una cosa di cui Ares si accorse molto in fretta e che usava per deridere privatamente molti dei più snob tra i Purosangue: malgrado i maghi fossero intolleranti verso ogni essere che andava ad allinearsi con le loro aspettative, spesso divenendo apertamente razzisti contro di loro, non avevano alcun problema a sfruttare le loro invenzioni. Proprio per questo le strade romane erano state riprese nei tempi della formazione del Wizengamot inglese e introdotte nuovamente sull’isola, fino a divenire il principale tipo di strada realizzato.
Percorrendo la via, Ares poté ammirare numerosi altri luoghi descritti dalla Rowling: Zonko, dai colori vivaci come le caramelle di Mielandia; Mondomago, l’equivalente di un rigattiere magico; Da M.me Piediburro, una sala da tè per coppiette; e tanti altri negozi di cui o si era dimenticato negli anni o la Rowling non aveva mai scritto alcunché. E sopra i negozi molto spesso si ergevano altri piani, dove dormivano i proprietari. Se prendendoli uno ad uno erano molto interessanti, tutti insieme erano decisamente eccessivi: a differenza di spazi babbani infatti, nel mondo magico non vigevano normative che imponessero una certa distanza l’uno dall’altro o l’uso di determinati colori per dipingere gli esterni, anzi il disordine e la singolarità sembravano essere i toni comuni di tutti loro; l’affidamento sulla magia era tale che non si vedeva bisogno di prendere precauzioni per evitare disastri. Il tutto non solo difettava in termini di sicurezza ma risultava anche caotico ed invasivo ad Ares, macchiando la bella esperienza che stava vivendo quello giornata.
E così per quanto Ares potesse essere contento di essere in questa cittadina, non poté far altro che sentirsi sollevato quando giunse alla stazione dei treni, la cui insegna era l’ultima parte del villaggio e la più vicina al castello.
La facciata della stazione si innalzava solamente per l’equivalente di due piani e risultava molto appariscente, questo perché venne realizzata seguendo l’esempio dei templi greci, cosa che la metteva in apero contrasto agli edifici che la circondavano. L’ingresso era aperto, senza limitazione alcuna, ed era costituito da un arieggiato colonnato. Le colonne vennero realizzate da lastre di marmo bianco, sottili e leggere, con scanalature verticali che andavano a dare una sensazione di maggiore leggerezza, a sottolineare lo slancio complessivo della struttura. Sbirciando tra esse si poteva intravedere l’unico binario della stazione, su cui viaggiavano i solo due che facevano la spola da lì a Londra. Di questi due, uno copriva la tratta utile agli studenti di Hogwarts, l’altro era invece in uso per il Ministero: essa fungeva da tramite tra Hogsmeade e quelle zone altamente regolamentate volte che portavano poi alle dogane dei maghi per il continente. Le colonne erano unite tra loro da un architrave, un unico blocco marmoreo su cui si poggiava poi il resto della facciata, costituita da un fregio e da un timpano. Il primo di questi catturava l’occhio del visitatore con le sue scene riccamente lavorate, che rappresentavano le imprese di diverse figure fondamentali della storia magica locale. L’osservatore poteva scegliere di seguire due diverse storie, a seconda che decidesse di leggere da destra a sinistra o da sinistra a destra: nella prima si vedevano scene di Hogwarts, nella seconda quelle della comunità magica britannica. Crescevano di intensità fino a raggiungere il climax nel centro del fregio, dove si vedevano un Preside di Hogwarts e un Ministro della Magia stringersi la mano: si accettava che fosse il momento storico in cui il Ministro Rosier concedeva lo Statuto Speciale a nome del governo in favore della scuola, presente nella persona del Preside Blackhorn.
Ares decise di non apprezzarla senza spenderci sopra più di qualche secondo: la trovava pacchiana e fuori luogo nel suo richiamo di splendori ormai passati e mediocre nell’imitare il Partenone. Tutto questo senza considerare quanto fosse appariscente nell’economia architettonica circostante. Per riassumere il suo pensiero in modi schietti, era tanto bella quanto lo era la gastronomia inglese rispetto a quella di casa sua; eccessiva e pessima.
Questo non era altro che uno dei due ingressi della stazione, quello disegnato per l’uso degli abitanti dei dintorni, il secondo era quello che mirava a soddisfare le richieste del castello ed era posto direttamente di fronte ai suoi cancelli. Gli studenti, scendendo, avrebbero preso direttamente le carrozze oppure avrebbero preso una piccola deviazione per arrivare con le barche attraverso il lago. Ares, che aveva ormai completato gli anni della sua istruzione scolastica, aveva deciso di seguire la strada delle carrozze, malgrado la distanza che separasse la piazzola di attesa e la scuola.
Giunto alla stazione di Hogsmeade, Ares varcò la soglia senza molta fretta, lasciandosi assorbire dal rivedere i piani per la presentazione del suo corso. Aveva da tempo scelto di fare a modo suo: non essendo completamente certo di come il posto fosse maledetto, avrebbe agito con l’obiettivo di preparare al meglio gli studenti per gli anni successivi, sperando di essere sempre lui a tenere lezione. In aggiunta, avrebbe anche dovuto rimediare ai danni arrecati da una mancata preparazione: nelle sue peggiori aspettative avrebbe dovuto riparare i danni inferti dal biennio Raptor-Allock; in quello più idealista avrebbe dovuto preoccuparsi del solo anno precedente.
Ci sarà bisogno sicuramente di massacrare quelli del secondo e quinto anno, rifletté il professore mentre imboccava un lungo corridoio. Le carenze degli studenti di quegli anni erano quelle che più lo preoccupavano: a fine anno una di quelle classe avrebbe dovuto tenere gli esami dei GUFO, mentre quelli del secondo dovevano essere educati da zero. Quanto invece a quelli degli altri anni, come i corsi dello stesso Harry Potter, erano da valutare: Ares non aveva intenzione di farsi dei film mentali, positivi o meno, che si sarebbero poi potuti rivelare completamente inesatti. Un test d’ingresso era d’obbligo per gli anni del terzo e del quinto. Gli studenti che avevano già superato i GUFO si erano dimostrati in possesso di una solida preparazione di base, dimostrando di essere al sicuro da eventuali martelli scolastici del nuovo professore.
Il corridoio imboccato da Ares si rivelò abbastanza lungo ma per sua fortuna adeguatamente illuminato da torce incantate che, all’arrivo del visitatore, si accendevano da sole, per poi spegnersi autonomamente quando le due seguenti erano accese. I muri erano ottenuti in mattoni rossi ed erano stati arricchiti dai riquadri di personaggi che avevano finanziato la costruzione del primo treno magico, l’Espresso di Hogwarts. Cosa rara per il mondo magico, si era scelto di evitare di incantarli, facendo in modo che un visitatore potesse procedere con la sua tabella di marcia senza avere distrazioni: poteva risultare molto difficile pensare ai propri affari con un brusio di chiacchiere perenni come sottofondo.
Ares giunse ad un punto in cui i muri si aprivano, conducendo il viaggiatore in una seconda stazione. Questa non era cinta da alcun muro, a differenza di quella di Hogsmeade, bensì dava su una grossa piazzola fatta di ardesia.
Era una vista che tolse Ares dai suoi pensieri, cogliendolo nella sua bellezza e unicità. La struttura costruita dall’uomo era costituita da grossi blocchi di ardesia bianca, squadrati perfettamente in modo da non lasciare neanche intravedere un pollice del terreno sottostante. La strada era di poco sopraelevata rispetto al terreno, tanto quanto bastava ad evitare che nei giorni piovosi la terra bagnata la sporcasse. La terra era ricoperta per mezzo metro da pietra lavica, come spesso si vede nei giardini babbani; essa lasciava presto posto ad un folto muro di rose che impediva allo studente ignaro di inoltrarsi tra gli alberi che venivano subito dopo. Inizialmente di normali dimensioni, i tronchi di questi ultimi crescevano di circonferenza e altezza man mano che si addentravano al loro interno. Essendo più che altro enormi conifere, la luce faticava ad entrare in tutti i mesi dell’anno: per questo, addentrandosi sempre più nel bosco, la visione diminuiva proporzionalmente fino a che, giunti a non più di quaranta metri dai limitari della foresta, si vedeva tanto di notte quanto di giorno.
E poi le rose si stiracchiarono. L’italiano, che negli anni aveva sviluppato una certa nonchalance verso queste particolari scene che distruggevano il suo iniziale senso della realtà, non batté ciglio: ritenne comunque abbastanza minaccioso che lunghe piante ricoperte di spine – che ad un secondo sguardo gli parvero di dimensioni superiori rispetto alle loro corrispettive non magiche – si allungassero e sgranchissero. Non poté reprimere un moto di compassione per chi vi fosse mai caduto sopra.
Questa era la Foresta Proibita.
Ares si fermò per catturare per sempre nella sua memoria questo pilastro della scuola scozzese. Le labbra si incresparono in un sorriso beato e gli occhi affamati sbranarono tutto ciò che apparve nel loro campo, non facendo distinzione tra le foglie cadute sul terreno, la corteccia che avvolgeva i tronchi e le fronde alte – e le rose: chi poteva dimenticarsi quelle? La mente lavorò ad un ritmo elevato per memorizzare questa immagine che si sarebbe per sempre portato dietro.
Un brivido corse lungo la schiena del giovane italiano quando realizzò che aveva di fronte un posto che da bambino aveva conquistato il suoi completo interesse, con la sua promessa di avventure e pericoli. I ricordi erano ormai sfocati dal tempo ma poteva ricordare facilmente che una gigante acromantula avesse nidificato qui, creando negli anni una enorme colonia fatta dei suoi discendenti; né d’altro canto venne mai nascosto al pubblico che una comunità di centauri facesse dei boschi la loro casa o che vi facessero spesso tappa gli unicorni; la comunità internazionale dei maghi aveva dato enorme peso alla presenza di un branco di thestral, che reagivano positivamente alla presenza umana, di ippogrifi, capaci di ignorarla completamente, e di numerosi gruppi di asticelli, avvezzi all’uomo fin da quando un giovane Scamander aveva guarito uno dei loro. E a loro si aggiungevano tanti altri potenziali animali, decine e decine di animali magici che avevano formato un ecosistema rigoglioso e quasi completamente indipendente, in cui il mago si era astenuto dall’imporre il proprio pugno.
Al diavolo le regole di decoro ed etica professionale, non appena ho tempo io entro, promise a se stesso Ares. Giunto davanti a questo spicchio di fiaba, non poté contenere un fiotto di esuberanza infantile.
Ares non fu mai in grado di dire quanto tempo avesse passato così, osservando stupefatto la prova finale della realtà di un libro che lesse in un’altra vita e che lo aveva tormentato per anni in quella nuova: preso dalla realizzazione di fantasie vecchie quasi cinquant’anni, non sarebbe mai stato in grado di valutare se fossero passati pochi istanti o qualche ora.
Fu, come avrebbe poi potuto classificare questo momento eterno, una di quelle cose su cui si fantastica così tanto che poi, al suo verificarsi, causa un corto circuito al sistema nervoso: questi momenti, che capitano a tutti prima o poi, sono degli spartiacque che dividono sogno da realtà, ambizione da obiettivo, e che portano con sé delle conseguenze che mutano in modo indelebile una vita, inconcepibili sul momento e che solo a distanza si fanno sentire del tutto. E così sarebbe avvenuto mesi dopo anche al nostro uomo.
Il mago italiano ebbe bisogno di notevole forza di volontà per staccarsi dalla sua corrente attività, spostando a fatica la testa in modo che gli occhi guardassero dritto davanti a lui e non vagassero in cerca di distrazioni. A quel punto ricominciò a camminare, prestando attenzione alla strada sotto i suoi piedi e a ripensare a quanto si era preparato da dire per la riunione che lo attendeva. E proprio il pensiero di questa minacciò di farlo cadere nell’abisso della sua mente e del suo nervosismo, facendolo speculare su come fosse Silente dal vivo, sulla possibilità che Piton usasse olio anziché shampoo per lavarsi i capelli e su quanto potesse essere grosso Hagrid.
Per evitare che questo potesse accadere, Ares lasciò che l’abitudine prendesse il sopravvento. La sua mente erse senza sforzo barriere protettive intorno a sé, mura che l’avrebbero protetto dal cadere vittima delle sue emozioni e, se necessario, lo avrebbero difeso da intrusioni nella sua oasi personale.
L’Occlumanzia, la branca della magia il cui scopo principale era quello di difendere la mente, fu una disciplina in cui Ares si buttò subito a corpo morto, pieno di timore dalla possibilità che qualcuno gli rubasse la sua privacy più importante; fu anche quella a cui dedicò più tempo a causa di errori stupidi che aveva commesso proprio per la sua impazienza. Tuttavia, essa si era rivelata più volte la sua ancora di salvezza nei più disparati campi: era perfettamente conscio che non sarebbe riuscito ad uscire vivo da alcune situazioni senza sapere difendere la propria mente e che avrebbe potuto uscire di testa in altre. Ma le possibilità dell’Occlumanzia non si limitavano a impedire ad altri di accedere alla propria mente, rendeva anche possibile ad un buon praticante di controllare le proprie emozioni. Ares scoprì che tutti i politici di successo nel mondo magico dovevano essere per lo meno dotati in essa, con casi superiori come furono Silente e Grindelwald: e così li imitò e innalzò negli anni ammirevoli difese.
***
La distanza che separava Ares dal portone d’ingresso si rivelò essere solo di poco più breve di quanto avesse pensato, dandogli modo di passare in rassegna quanto sapesse di già degli altri professori. E, giunto sui gradini del portone ancora sbarrato, un piccolo elfo domestico gli comparve davanti: la sua comparsa salvò Ares da una minuscola noia, sollevandolo dalla necessità di inventarsi un modo per segnalare la propria presenza.
Era piccolo, alto non più di settanta centimetri, e curvo, essendo stato ingobbito dagli anni. Era vestito con un’uniforme bianca, linda e probabilmente profumata; sul petto destro, là dove Ares sapeva risiedere il cuore degli elfi domestici, campeggiava l’unica macchia di colore dei vestiti, lo stemma araldico di Hogwarts. Pantaloni corti, lunghi fino al ginocchio, erano tenuti in vita da un pezzo di corda nera. I piedi erano, come abitudine e fonti di orgoglio di ogni elfo affaccendato, scalzi. Un cappello da marinaio, tenuto ben dritto e rigido sull’ampia testa, gli dava un aspetto buffo, quasi comico.
Quello che però colse Ares in contropiede fu il volto e, in particolare, la sua espressione. L’orecchio sinistro era più corto dell’altro e terminava in modo brusco, seguendo una linea dritta e netta ormai costituita da tessuto cicatrizzato, chiaro segno di una sua residenza nelle gabbie di sfruttatori abusivi. Gli occhi, enormi e spalancati, avevano iridi marroni e dominavano la faccia, mentre il naso dritto era aguzzo e lungo abbastanza da lasciare l’italiano a domandarsi se Collodi stesse descrivendo il naso di un elfo quando fece allungare il naso di Pinocchio. Il volto, incorniciato da rughe intorno agli angoli di bocca e naso, era quieto e intento a osservare il nuovo arrivato in un modo che mai avrebbe definito pensabile per un membro della sua razza: non lasciava trasparire alcuna emozione.
Il suo atteggiamento serio e, soprattutto, la capacità di essere naturale in questo suo stato non colsero Ares di sorpresa, no, lo lasciarono a bocca spalancata. Negli anni in cui viveva qui non aveva mai visto un elfo domestico dare l’impressione di essere serio senza divertire gli astanti: la cosa, decise l’italiano, era semplicemente innaturale.     
Ares, che era comunque riuscito a non lasciare trasparire il proprio sconforto, dovette inumidirsi velocemente le labbra, divenute di colpo secche di fronte a quello che stava per succedere: stava per annunciarsi ufficialmente come professore di Hogwarts! Aveva raggiunto una tappa fondamentale nel suo piano decennale ed ora lo avrebbe reso ufficiale.
‘Ares Valerius, nuovo professore di Difesa contro le Arti Oscure. ‘ si presentò con una sicurezza che sentiva venire meno dentro di sé. ‘ Sono qui per il Consiglio di inizio anno. ‘
‘ Dondon sa, signore. Lei viene con me che Dondon la accompagna ‘ annuì l’elfo, inchinandosi tanto profondamente da lasciar pensare che gli potesse cadere la testa dal collo. Tirandosi in piedi, si voltò e iniziò a trotterellare all’interno del castello, senza fare caso che l’ospite lo stesse seguendo. Dondon non aveva comunque da temere che Ares potesse rimanere indietro: con ampie falcate gli rimase facilmente alle calcagna.
Il passo rapido dei due non permise all’italiano di ammirare alcunché del castello, non che vi avrebbe fatto caso: aveva focalizzato la sua attenzione sull’essere magico davanti a sé e non gli staccò gli occhi di dosso. La sua mente registrò la strada che percorrevano, memorizzandola in modo da non dover chiedere possibili informazioni e classificandola al tempo stesso come semplice e lineare. In quella nuova vita Ares aveva allenato fin da subito la sua memoria e il suo senso dell’orientamento, memore di quanti disagi la loro assenza gli aveva causato: la cosa aveva avuto piacevoli risvolti per lui, dominati dalla soddisfazione di aver bisogno di un solo giro per riuscire a memorizzare una strada.
Salita una scalinata in marmo, senza alcun incanto o strano marchingegno che le permettessero di muoversi in modo strano, Dondon lo portò attraverso un corridoio lungo, illuminato al momento da false finestre, illusioni che facevano entrare quella che sembrava essere la luce del sole. Le fiaccole e torce portate in mano dalle molte armature non erano accese, lasciando che l’aria fosse pulita e fresca. Dondon si fermò di fronte ad una specifica porta, dopo averne superate quattro. Ares increspò leggermente le labbra, trovando divertente la mancanza di fantasia che dominava anche un patrimonio storico del genere magico: era fatta di legno, dall’aspetto solido e il colore scuro, e portava una facilmente riconoscibile decorazione, lo stemma della scuola, lucido fino a farlo splendere.
Dondon annunciò la sua presenza bussando sulla porta e, senza attendere che qualcuno rispondesse, aprì.
‘ Signori, Dondon presenta il nuovo professore, Ares Valerius. ’
L’annuncio, rifletté Ares, sarebbe stato più impressionante se il messaggero non avesse avuto una voce acuta e stridula. Il mio amore per il drammatico inizia ad essere un tantino eccessivo, si ammonì sarcastico l’italiano.
Dondon si spostò dalla porta, lasciando abbastanza spazio da far passare il mago, che lo ringraziò con un breve cenno del capo: non fece poi molto caso al suo accompagnatore, che richiuse la porta silenziosamente, perché la sua attenzione fu catturata dai presenti. Uno diverso dall’altro, vestiti in modo disparato o in vestiti sgargianti o in abiti modesti, chi con un sorriso in faccia e chi con la bocca stretta e gli occhi socchiusi, lasciarono una solida impressione sull’italiano: intenti a studiare il nuovo arrivato, con le facce rivolte alla porta gli parvero infatti un congresso di uccelli di varie specie impegnati a valutare il nuovo arrivato.
La vicinanza tra loro e la noncuranza casuale con cui un paio tenevano in mano una tazza fumante tradivano quanto longevo fosse questo corpo insegnanti, dominato come era dal cameratismo. Non sapendo cosa fare, Ares si concesse qualche secondo per studiarli a sua volta.
Le prime persone a catturare il suo interesse furono due donne vicine all’unico tavolo della stanza che, entrambe vicine l’una con l’altra, erano di fianco al tavolo. Se fossero state dei pezzi di un puzzle nessuno avrebbe mai provato ad accostarli, giudicandoli ad occhio completamente differenti e concludendo che non potessero incastrarsi l’uno con l’altro. E invece, come poi avrebbe avuto occasione di appurare durante la sua permanenza, Ares sospettò che ci fosse una certa affinità tra le due: attribuì la cosa all’aria complice che parevano avere, ma non seppe mai come si convinse della cosa.
Una bellezza africana dagli scintillanti occhi gialli e le labbra arricciate in un sorriso stava ripiegando un tovagliolo con fare casuale, più impegnata a fissare il nuovo venuto che non a quanto stessero facendo le sue mani. Il suo vestito, che lasciava intravedere solamente il collo, era nero ed aderente, e abbinato al sorrisino che stava sfoggiando le conferiva l’aria di una tigre intenta a osservare il suo prossimo pasto. Cosa più unica che rara da trovare in una strega portava tacchi a spillo: essi la rendevano la donna più alta tra le presenti. Un rigonfiamento alla manica che copriva l’avambraccio destro indicava la presenza di una bacchetta all’interno del suo portabacchetta, unico neo nella sua perfezione completa.
Al suo fianco c’era un’altra donna, più anziana come dimostravano i capelli che mostravano i primi fili di grigio: vicino a quella che Ares aveva identificato come Aurora Sinistra risaltava nella sua normalità. Aveva una lunga gonna blu e una camicia dello stesso colore, con sottili motivi dalla trama dorata. Gli occhi marroni sembravano calorosi ed accoglienti, aiutati in questo dal sorriso sincero che aveva alle labbra; malgrado gli anni che i capelli le attribuivano, Ares l’avrebbe tranquillamente scambiata per una quarantenne. In una mano stringeva una tazzina piccola, da cui saliva tranquilla una piccola colonna di fumo. Ares non fu in grado di darle un nome: era troppo mondana, priva di tratti singolari, perché potesse riuscirci.
Spostò lo sguardo oltre le due donne e incrociò gli occhi piccoli e sovraeccitati del professore più piccolo di tutta Hogwarts, il professor Vitious. Due piccoli occhiali tondi erano calati su un naso abbastanza lungo da rivaleggiare quello di Dondon. Era vestito in modo buffo, con una camicia bianca completamente abbottonata, il colletto tanto stretto da lasciare dubbi ad Ares su come facesse a respirare, e le maniche, decisamente troppo lunghe, piene di risvolti; i pantaloni erano neri con bretelle dal colore uguale. Scarpe di pelle con un evidente tacco per regalare dei centimetri al professore, molto eleganti e costose, completavano il suo vestiario. Era un look estremamente ricercato e curato, con delle sbavature che creavano i sottintesi per far sorridere chi lo osservasse.
Gli occhi di Vitious non si fermavano un secondo, prendendo in esame Ares pezzo per pezzo: giunto alla fine di questo silenzioso esame, arricciò un minimo le labbra, scoprendo un piccolo e appuntito dente bianco. Era una smorfia sfoggiata dai folletti nei loro primi incontri, un segno che molti umani faticavano a comprendere perché provavano a tradurlo seguendo schemi umani. Grazie a passate esperienze in cui aveva avuto modo di spargere un po’ di luce su questa specie magica, Ares aveva appreso come fare. Il nuovo arrivato, in questo caso lo stesso italiano, veniva al contempo accolto nella grotta del sorridente e avvertito che, se colto ad agire contro gli interessi del clan del folletto, sarebbe stato eliminato con enorme pregiudizio. Era un segno dell’enorme differenza tra umani e folletti a livello culturale e comportamentale, l’uno avvezzo più al sotterfugio e al singolo, l’altro più diretto nella giustizia e più interessato al collettivo.
Quello di Vitious che colpì Ares maggiormente furono però le mani, sempre e comunque in movimento: era un simbolo che al suo occhio risaltava ancor più della sua bassa statura, un enorme segnale lampeggiante che urlava al mondo le esperienze del mezz’uomo. Il discendente dei Valerii se ne era informato da tempo, per saziare la sua curiosità su uno di quei personaggi famosi nel suo nuovo mondo, noto a lui anche in quello precedente: Filius Vitious aveva conquistato il titolo di Campione duellante degli stati europei e lo aveva mantenuto per diversi anni, riuscendo a mantenere una striscia di imbattibilità lunga ben ventuno mesi. Questo suo periodo di supremazia fu molto famoso e discusso, in quanto l’unico ad aver fatto meglio fu Gellert Grindelwald: i giornali e i pettegolezzi non poterono esentarsi dal fare paragoni tra i due e pubblicare articoli e interviste in materia, trasformando la cosa in un vero e proprio evento mediatico.
Più indietro, addossata alla parete come se volesse camuffarsi contro di essa, c’era una figura enorme ed imponente: alta e larga due volte Ares, non poteva che incutere soggezione all’osservatore casuale soprattutto se vista subito dopo la forma quasi nana del professor Vitious. Hagrid, perché non poteva semplicemente essere nessun altro, era vestito in maniera consona al suo ruolo di guardiacaccia o, volendo essere gentili, quello del professore di Cura delle Creature Magiche, ovvero protetto contro possibili rischi del mestiere e comodo. Sfortunatamente aveva scelto l’angolo meno al chiaro di tutti, quindi Ares avrebbe fatto fatica a osservare dettagli o particolari più piccoli. L’ultima cosa di cui fece un’annotazione mentale prima di passare oltre fu il linguaggio corporeo del mezzo-gigante: le mani, congiunte sul grembo e in continuo contorcimento a giudicare dai movimenti costanti delle spalle, tradivano il disagio in cui si trovava al momento; neanche l’ingresso di uno sconosciuto lo aveva distratto dai suoi tormenti interiori del tutto.
Le ultime due persone presenti erano facilmente riconoscibili da Ares: non solo facevano parte dei suoi sfocati ricordi, ma erano anche rinomate all’interno della comunità magica per le loro scoperte ed innovazioni. La donna si era interrotta nel mentre della loro conversazione e si era voltata per vedere chi fosse appena arrivato, andando a coprire con il suo corpo ben piazzato il profilo più esile e slanciato dell’interlocutore. La prima immagine che ebbe di Pomona Sprout e Severus Piton, interrotti dalla loro discussione e mossi a osservare Ares all’unisono, sarebbe rimasta impressa nella sua mente per gli anni a venire, quasi comica considerando come l’uno fosse l’opposta dell’altra.
La famosa esperta di piante e arbusti magici iniziava ad essere segnata dai primi segni dell’età, capelli marroni che si erano ingrigiti in poche ciocche e rughe di espressione agli angoli di labbra e occhi, ma i caldi occhi castani si mostravano ancora freschi e pieni di vitalità. Le mani, in enorme risaltato dato che erano bianche a differenza del volto abbronzato, erano grosse e callose a causa del lavoro continuato che aveva svolto negli anni. Era una delle poche streghe a portare dei calzoni, in una tonalità di marrone più scuro di quello della camicia: entrambi i capi di vestiario erano di una taglia o due troppo grossi, conferendole un aspetto vissuto e trasandato.
Se i professori fossero stati dei colori anziché persone, il Capo di Serpeverde sarebbe stato all’estremità opposta dello spettro rispetto alla leader di Tassorosso. Era alto, non troppo ma abbastanza da farlo facilmente sembrare torreggiante sul suo corrispettivo di Tassorosso, con lunghi capelli neri che dovevano essere sempre e comunque impiastricciati dai fumi delle sue pozioni. Il volto, tanto bianco da poter parere appropriato sulle spalle di un vampiro, era dominato dal naso adunco e due freddi occhi neri. Era avvolto dalla testa ai piedi in un lungo mantello nero, che abbracciava una figura magra. L’espressione del famoso Maestro di Pozioni era vuota, priva di appigli per chiunque lo potesse osservare per la prima volta – in seguito Ares avrebbe appreso a leggere tutti quei piccoli, quasi insignificanti, dettagli emotivi che trasparivano dalla sua maschera di neutralità.
Non che la maschera di Piton potesse fermare la mente di Ares dal riempire i vuoti lasciati dal suo abbigliamento anche in modo fantasioso. Era facile per l’italiano vedere che il braccio sinistro fosse staccato dal corpo: la mano era più che probabilmente serrata in un pugno. Forse stava solo dando sfogo alle proprie frustrazioni, nate dall’essersi visto negare ancora una volta la cattedra tanto desiderata; forse invece stava nascondendo il piacere che avrebbe provato quando la Maledizione sulla cattedra di Difesa avesse fatto il suo corso… A questo punto Ares decise di dare un fermo alla sua vivida immaginazione, temendo di saltare a conclusioni leggermente affrettate.
Vederli da vicino è meglio che vederli che in fotografie anche magiche, si trovò a pensare Ares.
‘È un piacere incontrarvi, signore e signori: vi pregherei di essere gentili con me’ disse inchinandosi formalmente ai suoi nuovi colleghi.
Ares non aveva pianificato di inchinarsi, l’orgoglio personale che lo accompagnava sempre, non glielo avrebbe mai permesso: ma lì non fu in grado di impedire a se stesso di farlo. Di primo acchito, quel suo lato che aveva sviluppato solo di recente, nato in questa sua avventura nel mondo accademico, si ritrovò eccitato e in soggezione nella presenza di tutte queste persone, scolari di un livello tanto alto da essere considerati delle auctorites nelle proprie materie: secoli di studi e di ricerche che erano stati compresi, metabolizzati e sfidati dai presenti in un primo momento e poi ampliati o corretti, se non completamente riscritti, tramite il genio e l’inventiva di queste persone. Tutti, malgrado la loro età, rappresentavano l’apice di una carriera dedita alla ricerca e all’insegnamento e Ares era stato ammesso tra loro – la cosa lo riempiva di dubbi e orgoglio al contempo. In seconda battuta, Ares realizzò anche cosa questo istante significasse per lui a livello esistenziale. Si trovava di fronte ad una pagina intera della sua nuova realtà, non solo un piccolo ritaglio: queste persone erano divenute reali in carne e ossa, non più banali e fantasiosi personaggi resi da inchiostro steso su carta. Se avesse fatto qualche sciocchezza, uomini e donne avrebbero pagato il prezzo. Ares riconobbe ciò e l’abbracciò con il suo unico, singolo, inchino.
‘Mi piace già di più del signor Allocco’ commentò una voce femminile dal tono leggero mentre il nuovo entrato si stava rialzando dall’inchino. La voce tradiva un certo tono di sollievo, come se avesse trattenuto il respiro.
‘Non mi sembra un grande raggiungimento’ ribatté in modo disinteressato una voce maschile. Rialzatosi dall’inchino, Ares volse la testa per cercare il nuovo oratore. Non ebbe molta difficoltà a trovarlo e si sorprese a trovarsi sollevato dal riscontrare che si trattava di Piton: quantomeno la sua personalità abrasiva si dimostrò fedele alle sue aspettative. ‘Chiunque dimostri un minimo di educazione piacerebbe più di quel damerino’.
‘Via via Severus, non parlare così male del povero Gilderoy: mi sembra che sia già stato punito abbastanza, non trovi? Io spero proprio che il nostro amico si rimetta, nessuno si merita una sorte del genere‘ a rispondere era stata la professoressa Sprite. Le diversità con Piton risaltarono ancora di più nel suo tono: malgrado la disapprovazione che doveva provare per il falso con cui aveva vissuto l’anno precedente, era capace di preoccuparsi per lui sinceramente. Forse la tipica fiducia dei Tassi era andata esaurendosi verso il suo ex collega, ma gli altri tratti della sua Casa non sembravano minimamente intaccati a giudicare dal tono caldo e preoccupato con cui aveva parlato. ‘E poi non vorresti sapere come mai ha avuto bisogno che due studenti lo togliessero dai carboni ardenti? ’
L’ultima frase fece venire voglia ad Ares di rabbrividire e ritrarsi immediatamente da lei: non aveva mai visto qualcuno che potesse cambiare atteggiamento così in fretta. Per un breve singolo istante anni di esercizi di meditazione e Occlumanzia rischiarono di andare vanificati da un’unica frase: ma la disciplina mostrò ancora una volta la sua efficacia e soppresse la sorpresa.
Un secondo di totale silenzio passò. Ares si sentì sprofondare nello sconforto: stava forse fallendo qualche test segreto? Era stato tutto un sogno, un incubo da cui non riusciva a svegliarsi? La paura si presentò subito, assalendolo per davvero fino al punto di attaccargli la mente, lasciandola sotto un dolorante shock. Neanche le solida mura di Occlumanzia, barriere che avevano respinto l’attacco di diverse fonti di Magia Nera, furono in grado di aiutarlo. Il cuore saltò un battito, tramortito dall’onda anomala che aveva colpito il sistema nervoso. Un nodo si formò alla gola, rendendogli il respiro affannoso. La vista gli si offuscò e i contorni degli oggetti divennero un unico ammasso sfocato. Le ginocchia si fecero deboli, come se burro si fosse sostituito a muscoli e ossa.
Una strana sensazione di gelo gli attanagliò le viscere e gelò il sangue: fu questo a portarlo alla realtà delle cose. Una cosa del genere gli era già successa: presto il panico avrebbe avuto il sopravvento, causandogli un attacco di isteria a cui avrebbe ben presto fatto seguito una completa incapacità di respirare; eventualmente sarebbe svenuto, unico modo che aveva il cervello per diminuire il dispendio di ossigeno e prolungare i processi che mantenevano vivo l’organismo umano.
Solo una volta aveva provato un’esperienza simile: quel singolo avvenimento lo aveva spaventato a morte, ma era sopravvissuto e aveva giurato che non ne sarebbe mai più caduto vittima. Il terrore nato in lui quando gli spiegarono cosa aveva appena vissuto gli fece riconoscere quanto valesse la sua vita e la cosa che riteneva più preziosa in essa: l’uso della magia. Perché proprio da lì nasceva il tutto: qualcuno lo aveva colto in un’illusione e stava simulando per i suoi sensi la morte della magia nel suo organismo. Questo era il punto di partenza, il momento in cui una pallina di neve iniziava la sua discesa e la sua eventuale trasformazione in valanga.
Raccolse tutta la sua forza di volontà e svuotò la mente: il semplice atto di pensare era difficile e sempre più doloroso, ma necessario. Si sforzò di raccogliere i pensieri ma la necessità di respirare era un peso difficile da ignorare. Inspirò con enorme difficoltà, cercando di raccogliere quanto più ossigeno potesse. L’aria sembrava rarefatta ma si impegnò a rinfrescare i polmoni: gli serviva un attimo di calma e concentrazione per dare il via all’operazione.
Quando ci riuscì, quando la sua mente tornò a ragionare logicamente, iniziò una battuta di caccia serrata: la preda era quel filone di magia che lo aveva intrappolato, quel legame tramite il quale l’illusionista lo stava strangolando. Sfortunatamente questa particolare branca della magia agiva come un parassita: intrufolatasi nel corpo ospite, lo ingannava assumendo tratti familiari a quello e ne prendeva le energie, incanalate nell’osservare le direzioni date dall’aggressore. L’illusione diventava più forte e intensa con il tempo metabolizzando le energie della persona in cui si trovava. Uno dei modi più semplici per spezzarne una qualunque richiedeva di far deflagrare violentemente la propria magia: ciò avrebbe impedito al parassita di mettere in atto le proprie difese in modo efficace, ovvero camuffarsi nel nuovo habitat per ritornare a confondersi nello sfondo. A questo punto, identificato l’intruso, occorre delinearne il profilo, andando a cercare il cordone che lo tiene ancorato all’aggressore: quindi lo si recide, impedendo al suo creatore di controllare in alcun modo l’illusione. Il residuo magico dell’attacco, ora senza una direzione precisa, viene distrutto facilmente nel momento in cui la vittima dell’attacco riporta allo stato normale le proprie riserve: questa mossa, che altro non è che un ritorno alla normalità, pone i brandelli di magia restante nelle stesse condizioni in cui si ritrovano i pesci fuor d’acqua, impotenti e di fronte alle porte della morte. Questo era il modo più semplice e diretto.
Vi erano anche altri modi per proteggersi da tali attacchi, più o meno rischiosi per entrambe le parti: essi avrebbero permesso all’offeso di contrattaccare in modo da infliggere danni all’istigatore della situazione, accettando così una danza più complessa e potenzialmente pericolosa. Ares non li prese in considerazione per due motivi: primo perché carente in questa disciplina; secondo per la situazione e il luogo in cui si trovava.
Ares dovette scandagliare con somma attenzione il suo mindscape per trovare una minima traccia dell’intrusione e, quando la trovò, pensò per un secondo istante di essere stato ingannato: questo perché era nascosta a sua volte da una minima illusione che emetteva un impulso incredibilmente sottile, spingendo chiunque la guardasse a sorvolarla in quanto di poca importanza, proteggendone di fatto la sua debolezza. Questo avrebbe fatto realizzare ad Ares quanto fosse pericoloso il gioco a cui stava giocando: per creare un’illusione a più strati, cioè far sì che l’illusione di base fosse abbastanza adattabile e solida per costruirvi sopra la seconda e che le due fossero perfettamente incastrabili l’una con l’altra, era richiesta una certa esperienza. Creare un secondo livello che, anziché nascondere le fondamenta, ne minimizzasse l’anormalità tanto da spingere l’osservatore a guardare altrove equivaleva ad un cartello di pericolo.
Ma Ares divenne cieco a ogni cenno di pericolo: qualcuno era entrato nella sua testa e aveva la possibilità di causargli problemi seri.
Si circondò della sua magia, puro e semplice potere che palpitava sotto il suo tocco. Concentrandosi sul risultato che voleva ottenere, la plasmò in una singola corrente di energia che prese a battere a ritmi sempre più veloci. I suoi muscoli si contrassero e gemettero dal dolore, la concentrazione magica troppo elevata rispetto ai suoi soliti livelli per non farsi sentire anche a livello fisico. I denti avrebbero preso a battere abbastanza forte da rischiare di mozzare la lingua di Ares se non fossero già ben serrati.
Quindi, con una forza di volontà enorme, fermò il fiume di energia, stoppandolo per un singolo centesimo di secondo. Il mondo di Ares si fermò, scioccato dalla improvvisa inazione abbastanza da dimenticarsi che quello non fosse altro che un test. Questo attimo si dimostrò la proverbiale calma prima della tempesta. Ares esalò nella sua mente e lasciò che la magia seguisse il suo disegno mentale.
La corrente d’acqua rapida e violenta, trattenuta a forza dall’italiano, si tramutò in magma ribollente e terrificante, impaziente di dilagare e distruggere tutto quello con cui sarebbe giunto in contatto sulla propria strada; il fiume divenne la canna da cui sarebbe stato lanciato, aggiungendo ulteriore velocità e forza nella nuova equazione. I risultati furono degni delle aspettative che uno avrebbe potuto costruirsi.
La corda dell’illusione venne distrutta, spazzata via dalla semplice potenza della magia che Ares rilasciò improvvisamente. Nel piano mentale che collegava aggressore e vittima il cordone che li teneva ancorati si dimostrò pericoloso anche per il primo: si dimostrò infatti un comodo canale in cui quel fiume ribollente poté trovare sfogo e, al contempo, una meta da raggiungere in modo naturale.
Fortunatamente proprio in quel momento entrambe le parti si riebbero dalla loro foga e ripresero il controllo della situazione, impedendo che degenerasse ulteriormente. Da un lato Ares affogò il suo attacco mentale in un oceano, circondandolo poi da mura fatte di acciaio; dall’altro l’aggressore scagliò lontano da sé quello che rimaneva della corda e si riparò dietro tutte le mura occlumantiche che riuscire ad ergere.
Ares fu preso da un lampo di ammirazione per le abilità del suo avversario: era bravo e, se non si fosse trattenuto, si sarebbe rivelato un problematico nemico. Una calda sensazione lo avvolse: soddisfazione. La sua presenza in questo luogo, per quanto pericolosa potesse essere, per quante tribolazioni gli avesse causato, si dimostrava alquanto interessante e prometteva di ripagare il rischio preso. Sorridendo tra sé e sé Ares riaprì gli occhi.
La scena che lo attese non era poi tanto differente da quando era caduto nell’illusione, rafforzando il rispetto che provava per il suo creatore: il metodo migliore per ingannare qualcuno e confondergli la mente era stare il più vicino possibile alla realtà e cambiare dettagli minimi, tanto piccoli da non essere visibili fino a che non fosse stato troppo tardi per intervenire con successo. L’unica differenza che poteva chiaramente vedere era data dal comportamento dei presenti: non più solo incuriositi, ma completamente catturati dalla situazione in cui Ares si era trovato.
Ci fu un momento di imbarazzante silenzio: era ovvio che nessuna delle due parti sapesse come procedere. Irritazione fu il sentimento provato da Ares: non solo qualcuno aveva deciso di testarlo – perché cos’altro sarebbe potuto essere quel piccolo show? – ma quel qualcuno non si era neanche preso la briga di pensare a come ricucire la situazione?
Che diamine! Lo stereotipo per cui tutti gli inglesi sono sempre e comunque gentili è appena stato buttato fuori da una finestra all’ottavo piano: proprio ora che servirebbe per davvero!
 ‘È un grande piacere darle il benvenuto qui tra noi Signor Valerius’ Fu il professor Vitious a rompere l’incantesimo. La sua voce era bassa e roca, molto differente da come uno si aspettasse che parlasse a causa dell’altezza: si trattava probabilmente del suo sangue di folletto. ‘La prego di scusare questo nostro comportamento. ‘
Ares non poté trattenersi dal serrare le sue labbra: scusare il fatto che qualcuno aveva appena tentato di giocare con la sua mente? Scusare che i suoi nuovi colleghi avessero appena simulato un attacco alla sua persona? Non era mai stato una persona famosa per le sue capacità di perdono, ma era abbastanza sicuro che anche animi più gentili e aperti avrebbero trovato qualcosa da ridire su questa possibilità.
‘Parlo a nome di tutti i presenti quando le dico che non era nostra intenzione recarle offesa in alcun modo. L’unica cosa che speravamo di ottenere da questo piccolo… test, continuò facendo fatica a trovare la parola esatta per descrivere l’accaduto, ‘era di verificare che lei non fosse un altro falso. ’ Fu a quel punto che il professore di Incantesimi fece una cosa inaspettata: si inchinò profondamente, quanto gli consentì la sua bassa statura.
La situazione colpì molto Ares: da un lato un folletto si era inchinato, dall’altro un gruppo di professori aveva deciso di testare un nuovo arrivato. Era facile capire come il primo punto potesse colpire un mago: questa razza magica era diventata famosa tanto per il suo orgoglio quanto per la sua tenacità, spesso rasente il concetto di cocciutaggine. Vedere uno dei loro, non importava quanto il suo sangue fosse diluito o quanto sincero fosse nelle sue preoccupazioni, era un evento a cui Ares era sicuro non avrebbe mai più assistito. Fu l’azione di Vitious, non le sue parole e il sentimento che contenevano, a convincere l’italiano della sincerità delle scuse: l’orgoglio era quasi una valuta per i folletti e nessuno di loro se ne sarebbe mai separato per alcun motivo.
Il secondo punto era qualcosa di inaspettato, ammesso che Ares lo leggesse bene: una parte dello staff della scuola era disposto a perpetrare un attacco ai danni di una new entry per verificare le sue competenze. La cosa aveva tutti i prerequisiti per regalare una fantastica emicrania se analizzata: sfortunatamente non era cosa da cui si sarebbe potuto esimere ora che aveva firmato il contratto con il Consiglio degli amministratori.
Questa azione, intrapresa da una parte dei professori stessi, poteva rappresentare una divisione netta all’interno del gruppo: i presenti, preoccupati più per il benessere e l’educazione dei propri studenti, e gli assenti, o troppo impegnati con altre incombenze per curarsene davvero o più interessati a soddisfare il Consiglio stesso.
Detto ciò, Ares non poté esimersi dal formulare un’altra ipotesi, appoggiata dall’assenza del Preside e della Vicepreside, cioè che si trovasse di fronte ad un comitato di benvenuto organizzato dagli stessi Silente e McGrannit. Questa possibilità mostrerebbe una netta distinzione tra Consiglieri e professori e gettava molti dubbi sul perché fosse stato scelto l’italiano: era stato nominato per i suoi contributi e le sue conoscenze oppure per una manovra politica, una pedina nelle mani dei puristi per impedire la nomina contemporanea di un lupo mannaro e di un mezzo-gigante a posizioni di grande impatto sulle nuove generazioni? La presenza di Piton e di Hagrid nel comitato di benvenuto sembrava lasciare intendere proprio questo, ma non era completamente da escludere che fossero arrivati per caso in anticipo.
La magia scorse gelida sotto la pelle dell’italiano, chiaro sintomo della rabbia che provava. Qualcuno, chi fosse di preciso non aveva minimamente importanza, lo aveva usato e voleva usarlo ancora. Peggio, Ares se ne accorse quando la cosa era già successa. Domò la sua rabbia, la obbligò in una gabbia da cui non potesse offuscargli le sue capacità di giudizio e la calma necessaria ad agire e si promise di lasciarla uscire al momento giusto. La vendetta era qualcosa che meritava pazienza. Ares promise di darglielo, non importava quanto ne avrebbe richiesto: alla fine sarebbe stata ancora più saporita.
Ares sorrise, lasciando che le sue labbra facessero vedere i denti candidi, e accettò questo gioco in cui si era ritrovato, pronto a capovolgere le aspettative e a prendersi il posto non come pedina ma come giocatore. *****

Salve a tutti!
Bentornato a chi qui è già passato di qui e benvenuto a chi è qui per la prima volta: spero che questa storia vi piaccia e che decidiate di seguirla.
Alla prossima, UngaroSpinato

PS: sono alle prime armi e mi piacerebbe avere il vostro feedback per migliorarmi, quindi regalatemi qualche secondo e commentate please :)
  
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