Mentre
mi accingo a narrarvi l'angusta vicenda di un uomo che
"Possiamo raggiungere la perfezione per mezzo dell'arte, e
soltanto con
l'arte; l'arte, e nient'altro che l'arte, può offrirci un
rifugio contro i
sordidi pericoli dell'esistenza."
Non so se quella perfezione la raggiunse mai. So di certo che tutto il
mondo,
se lo conoscesse, lo chiamerebbe
L'Artista
La
osserva con aria truce, di sfida, girandole
intorno. E' minaccioso, acquattato come un felino che terrorizza la sua
preda.
E la donna, eternamente attonita, è bellissima nella sua
pelle candida,
divinamente ornata dall'elegante abito nero. Uno sguardo di spavento
incerto.
Un accenno di orrore che incrina appena lo spettacolo sospirante delle
labbra
vermiglie. Un'invisibile ruga ch'egli ha con tanta inclemenza svelata.
Tutto
lamenta ai suoi orecchi una sfida, ironicamente invita ad uno squarcio.
Ed è un attimo: scatta in avanti, verso la tela, e con
pennellate convulse la
sporca di sangue vivo. Crudele. Definitivo. Incurante (o forse no?)
degli occhi
pallidi che giurano vendetta. Li fissa. Temibile. Inespressivo.
Scarabocchia
furiosamente una firma in un angolo del dipinto.
Un pennello cade, con un tonfo.
Un urlo, e l'artista si accascia al suolo, gemendo e dimenandosi
disperato, le
mani tentano di dar conforto al cranio malato, lo stringono e quello si
dibatte
come un uccello in gabbia, ma loro rafforzano la presa, stringono,
tentano di
sedare la rivolta interna.
Finché, lentamente, i singhiozzi non smettono di agitarsi
nel suo petto. Senza
fretta, si calma. Si tira su a sedere.
Febbrilmente cerca nei vestiti sgualciti l'accendino. Lo trova e si
accende una
sigaretta con mano inferma.
Si lascia lavare i polmoni da quella nebbia confortante, espira
fremendo,
inspira tremando.
Piano, piano si alza e volta le spalle al quadro, ma no, no, gli
sovviene che
c'è qualcosa di incompleto, qualcosa ancora da fare. Torna
indietro.
E forse quelle bruciature di sigaretta negli occhi dell'amata vittima
possono
parere una violenza di villano, ma, fidatevi, non è andata
così.
Ricordo ancora quel giorno in cui lo vidi, e così,
distrattamente, mi raccontò
la sua vita.
Con noncuranza, strascicava le parole in un affascinante Francese, mi
diceva
che vita, per lui, era sinonimo di arte,
che non sarebbe mai, mai
vissuto se l'Arte non si fosse donata a lui con così tanta
irreversibile
decisione, con tale ostinazione da scoraggiare ogni protesta.
Gli obbiettai che Wilde aveva detto che tutta l'arte è
perfettamente inutile.
< A cosa serve la vita? > mi chiese.
E mi domandavo spesso se l'Artista amasse la vita. Da quello che
diceva, dalle
lacrime invisibili che scorgevo sul suo viso ogni volta che lo
guardavo,
deducevo tranquillamente ch'egli tristemente la soffriva, come tutti
noi a
questo margine del mondo. Ma se la vita fosse stata davvero Arte, come
avrebbe
egli potuto detestarla? Come odiare ciò che ci rende
diversi, originali, unici?
Come odiare ciò che ci rende belli?
Tuttavia, io non capivo, né sapevo di non capire cosa
significhi essere
designati da una tale forza.
L'Arte. In fondo, che cos'è l'Arte?
Per lui era una persecutrice. Una bella, elegante, amabile
persecutrice, ma pur
sempre una persecutrice.
Mi raccontava delle notti insonni, quando i pennelli stridevano e si
lagnavano,
e il fiato odoroso della sua Padrona gli
raggiungeva il collo, eccitando
quella linfa tutta particolare che gli scorreva in corpo.
Allora circondava la gola con una sciarpa e serrava gli orecchi con le
mani, nella
speranza di evitare quelli strilli striduli e strazianti che
reclamavano i suoi
arti, la sua anima. Tirava le gambe al petto e si piangeva addosso, e
si
ripeteva che tutto sarebbe passato. Ma non passava, e lui era costretto
ad
alzarsi e a lasciare che i suoi colori appagassero la potente signora.
Faceva spesso paura ai bambini, l'Artista: aveva barba incolta e
occhiaie
appesantite dalle lunghe notti passate a dipingere, aveva l'espressione
devastata di chi non è mai stato felice. Non che non ridesse
mai: spesso,
quando gli manifestavo, con la mia consueta goffaggine, il mio
apprezzamento
per le sue opere, i suoi occhi mi sorridevano, di gratitudine, forse;
ma non le
sue labbra, perennemente tese in una smorfia di insoddisfazione. Una
volta me
la spiegò: < Non sarò
soddisfatto finché non la raggiungerò, quella
dannata perfezione! > disse, facendo a pezzi un
dipinto che aveva
strenuamente amato.
E, mese dopo mese, era sempre più scontento, paventava che
la fine giungesse
prima ch'egli avesse potuto dipingere l'opera in cui tutte le altre
sarebbero
confluite, l'opera dopo la quale tutte le altre sarebbero risultate
vane.
Si rifiutava sempre più spesso ai pennelli, crollava sempre
più spesso fuori
dalla mia porta. Finché un giorno venne da me, ridendo
assurdamente, e al mio
sguardo attonito spiegò che aveva carpito il suo mistero,
aveva svelato il
segreto dell'opera eterna, dell'opera ultima, definitiva. E
scappò via, come un
folle, e, forse, solo in quel momento cedette allo stereotipo
dell'artista
pazzo.
Il giorno dopo, mi recai a casa sua, sazia d'attesa e colma di speranza
per il
suo temerario annuncio.
La porta era socchiusa, cosa non troppo strana per il suo spirito
distratto. La
spinsi, ed entrai. Immediatamente, un odore strano, quasi di ruggine,
raggiunse
le mie narici. Cosa diavolo aveva usato?
Notai che sul pavimento aveva
stampato impronte rossastre che mi conducessero da lui. Le seguii
attraverso il
piccolo ingresso, poi nel corridoio. Dappertutto regnava un silenzio
pressoché
innaturale. Che fosse uscito? No, impossibile.
Completamente smarrita, continuai a seguire i segni che lui mi aveva
lasciato,
e mi lasciai condurre in un ampio salone bianco e rosso, in cui le orme
si
fermavano.
Il mio sguardo fu immediatamente catturato da un grande cavalletto che,
al
centro della stanza, metteva in mostra una tela.
Era Lei! Era l'Opera!
Presi a correre, ansiosa, fino a giungere di fronte al quadro.
La mia prima reazione fu uno shock totale.
Chiusi e riaprii gli occhi, tentai di inghiottire il vuoto, cercando di
osservare con più lucidità.
Degli occhi socchiusi e vitrei mi guardavano inespressivi dalla tela.
Un naso
all'insù aveva perso tutta la sua luminosità.
Delle labbra secche e pallide si
confondevano col bianco malato del viso.
Sapevo ch'era una sua ossessione, la morte. Ma in quel dipinto, fatto
solo di
un rosso che tendeva al marrone, c'era qualcosa che mi infastidiva.
Abbassai lo sguardo. Due mani che reggevano lo specchio in cui era
riflessa
l'immagine della ragazza morta.
Deglutii.
Aveva voluto realizzare l'opera dopo la quale tutte le altre sarebbero
state
vane.
Cosa c'è dopo la morte? Nulla.
Cosa c'è di più clamoroso della morte? Nulla.
Tornai a fissare il quadro.
"E' lo spettatore, non la vita, che l'arte in realtà
rispecchia."
L'aveva presa alla lettera.
Deglutii ancora. Guardai i capelli, gli occhi, le sopracciglia.
Quella ragazza ero io.
E appoggiato esangue al cavalletto, la pelle scorticata in
più punti, giaceva
l'Artista, che con il suo ultimo volere glorificava il mondo. E il suo
sorriso sicuro,
soddisfatto, appagato, sfidava persino colei che tanto a lungo l'avea
sottomesso, ed eroicamente era, beandosi della Tenebra etterna.