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Autore: Connie_    13/04/2019    0 recensioni
Fanfiction su Laurent e Auguste da ragazzini, scritta in chiave au.
Dal testo: Non sapeva che quella sarebbe stata l’ultima storia, l’ultimo sorriso, l’ultimo gioco.
Non lo sappiamo mai, vero? Crediamo di avere un’infinità di tempo a disposizione.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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  « Leggimi una storia, Auguste. » sussurrò il fanciullino con gli occhi ripieni della spensieratezza infantile, della pura innocenza con cui i più piccoli guardavano agli adulti. In un tempo differente, forse mille ere passate, anche Laurent era stato un bambino e anche Laurent aveva guardato in quel modo qualcuno, si era fidato.
Egli credeva che fosse vero: che Biancaneve si risvegliasse con un bacio, che il cacciatore uccidesse il lupo e che Cenerentola ritrovasse la scarpetta.
Aveva riposto nel fratello il medesimo cieco amore dei protagonisti di ognuna di quelle fiabe, disegnava il suo volto nei mille album da disegno, inseriva il suo nome nei racconti e nei giochi che era solito fare con i suoi amici.
Auguste, Auguste, Auguste.
Gli mancava se per un giorno egli non aveva tempo per giocare o se la notte tardava e non gli rimboccava le coperte: suo fratello era per lui padre e madre, era quell’amico insostituibile che molti bambini tendono ad estrapolare dalla loro immaginazione, invece lui era lì ed era reale: poteva toccarlo, tirargli le guance, fargli la linguaccia o il solletico. Poteva prendere in prestito i suoi libri anche se ci capiva poco o niente e chiedergli perché tenesse una mano sul seno della ragazza con cui avrebbe dovuto studiare; era divertente vedere il rossore che andava a colorire le guance del fratello maggiore, il suo schiudere le labbra ed inventare mille scuse poco credibili persino per un ragazzino. E seppur le prime domande scomode fossero state dettate dell’innocenza, quando ne comprese il meccanismo diventò quasi un gioco bislacco.
Non sapeva che quella sarebbe stata l’ultima storia, l’ultimo sorriso, l’ultimo gioco.
Non lo sappiamo mai, vero? Crediamo di avere un’infinità di tempo a disposizione.
Ciò che amava di suo fratello era il modo in cui gli stringeva la mano quando dovevano attraversare la strada, come quella stessa mano si posasse sui suoi occhioni spauriti quando cedeva alle lusinghe di un film dell’orrore che poi – al calar della notte – non lo faceva dormire.
Aveva amato il modo in cui lo aveva stretto tra le braccia – un esserino inerme e singhiozzante – dopo aver assistito alla morte di Mufasa.
Perché?, gli aveva chiesto. E lui gli aveva spiegato che tutto ciò era servito a qualcosa di molto più grande, che quella vita perduta aveva permesso a Simba di intraprendere il suo viaggio, di poter essere un buon re.
Perché è il dolore che ci forma, aveva risposto. Fu la prima volta che trovò stupido qualcosa detto dal suo fratellino, da Auguste, colui che aveva scelto come personale eroe; solo in seguito avrebbe compreso quanto avesse ragione.
Suo fratello non parlava molto ma gli teneva volentieri compagnia, alcune volte rinunciava persino ai suoi amici quando Laurent gli chiedeva di trascorrere il weekend in compagnia del loro caro zio. Qualche anno più tardi si sarebbe reso conto che cercava semplicemente di evitare l’inevitabile, di proteggere quel bozzolo di curiosità ed innocenza che era stato quel bambino e che in età adulta lo avrebbe completamente abbandonato.
Dopo la sua morte passò diverso tempo prima che riuscisse a pronunciarne nuovamente il nome o semplicemente a sopportare l’idea di udirne parlarne. Non gli piaceva quando i suoi familiari ne rimembravano i difetti e si arrabbiava ma si sentiva estremamente orgoglioso a sentir parlare di tutti i suoi pregi, persino quando gli dicevano che gli somigliava e che avevano gli stessi occhi.
E avere qualcosa di Auguste – per Laurent – era importante; non voleva i suoi libri o i suoi vestiti, non voleva la sua camera anche se di tanto in tanto aveva imparato a dormire nel suo letto. Avrebbe rivoluto indietro suo fratello, il suo migliore amico e protettore, avrebbe rivoluto qualcuno che gli leggesse le storie e che gli facesse le linguacce eppure doveva accontentarsi.
Doveva accontentarsi di attimi rubati vicino alla lapide su cui era scritto il suo nome, oppure di proteggere con malcelata ostinazione ciò che gli era appartenuto e che ormai era proprio.
Forse, avere i suoi occhi – se non poteva aver nient’altro – era una grande consolazione. 
   
 
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