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Autore: Izumi V    20/04/2019    5 recensioni
"Non c’era bisogno di dedurre, invece, che stesse facendo l’autostop, considerato il pollice steso in avanti quasi in segno di sfida al prossimo passante che l’avesse ignorato. Non sapeva spiegarsi il motivo della sensazione, ma gli pareva pronto a trasformare quel pollice in un bel dito medio se avesse provato a ignorarlo.
Ecco, quel ragazzo gli dava un po’ quell’impressione."
[Fanfiction scritta per l'evento "Easter Eggs" indetto dal gruppo fb "Johnlock is the way... and Freebatch of course!"]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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The Hitchhiker
 
  
Guidava ormai da ore interminabili per una strada che non aveva assolutamente intenzione di deviare dal proprio piattume. Meno male che già di suo dormiva poco, perché altrimenti gli sarebbe preso un colpo di sonno dopo nemmeno mezz’ora. Che noia.
Che noia!
Ancora non si capacitava di come avesse acconsentito alla follia di suo fratello maggiore: andare a trovare lui e il suo fidanzato – nonché futuro marito – nella loro villa in campagna. Con che coraggio lo faceva guidare fino a Burley?! Per di più, appunto, c’era pure un matrimonio di mezzo. Cose da decidere, cose da organizzare… bah.
Il ragazzo alla guida dell’auto scura elegante alzò gli occhi al cielo. Pure il testimone doveva fare!
“Stupido Mycroft…” borbottò tra sé e sé. “Se solo avess–”
Non terminò mai quella frase.
Qualcosa, o meglio qualcuno, attirò improvvisamente la sua attenzione fino a quel momento concentrata su temi troppo triviali per i suoi gusti. Aveva intravisto una figura da lontano, lungo il ciglio della strada. Strizzò gli occhi per discernere i contorni, preso dall’impazienza e incapace di aspettare anche solo di arrivare un poco più vicino. Rallentò un poco per paura di superarlo.
La figura informe apparteneva a un essere un umano. Informe perché, di fatto, aveva uno zaino sulle spalle. Era un ragazzo piuttosto giovane, l’aria ansiosa e riservata, probabilmente studente universitario o poco più avanti.
Tutto questo lo aveva dedotto da una distanza di circa duecento metri. Non c’era bisogno di dedurre, invece, che stesse facendo l’autostop, considerato il pollice steso in avanti quasi in segno di sfida al prossimo passante che l’avesse ignorato. Non sapeva spiegarsi il motivo della sensazione, ma gli pareva pronto a trasformare quel pollice in un bel dito medio se avesse provato a ignorarlo.
Ecco, quel ragazzo gli dava un po’ quell’impressione.
E un angolo delle sue labbra si sollevò impercettibilmente, in un segno di approvazione che fece dissolvere non appena lo ebbe affiancato, fermandosi di fianco a lui. Irrigidì i muscoli facciali per non lasciare intendere nulla, sebbene la curiosità lo stesse divorando. Non voleva lasciargli una posizione di vantaggio.
Il ragazzo per strada tirò un sospiro sollevato e si avvicinò al finestrino, che fu prontamente abbassato.
“Ehi,” disse semplicemente quello.
“Ciao,” rispose il ragazzo alla guida. “Hai bisogno?”
“Già.” Si morse un labbro, meditando su cosa dire. “Vado verso Bournemouth.”
“Che fortuna!” esclamò l’altro sinceramente. Poteva usarla come scusa per ritardare il proprio arrivo dal fratello.
“Come prego?”
“Ehm. Dicevo che è una fortuna, perché io sto andando proprio in quella direzione.”
Il ragazzo a piedi lo guardò per un attimo confuso, o forse sospettoso, ma alla fine alzò le spalle e gli sorrise: “Quindi posso salire?”
“C-certo.”
“Grazie mille…” borbottò, salendo in macchina e buttando lo zaino sui sedili posteriori. “Mi salvi davvero la vita.”
“Ah sì? Letteralmente?” ironizzò lui, ma il ragazzo non rispose e si voltò verso il finestrino.
 
Trascorsero il primo quarto d’ora in assoluto silenzio.
Il ragazzo alla guida sbirciava ogni tanto il proprio passeggero senza distogliere troppo a lungo gli occhi dalla strada. Cercò di osservare il più possibile sfruttando lo specchietto. Aveva più o meno la sua età, forse qualche anno più grande. Si era accoccolato sul sedile in una posa che suggeriva tranquillità, eppure allo stesso tempo sembrava sulla difensiva, estremamente tormentato. Si tamburellava silenziosamente sulla coscia con le dita della sinistra, per poi chiuderle a pugno con frequenza costante. Gli occhi, di un blu cangiante, scandagliavano il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino. Ogni tanto le labbra si arricciavano inseguendo un’intuizione, ogni tanto l’indice si pigiava sulla punta del naso come a intrappolare un pensiero. Che tipo particolare, non stava mai fermo.
A un certo punto, tuttavia, si soffermò troppo a lungo su di lui con lo sguardo e venne intercettato dal diretto interessato, il quale lo prese quasi come un segnale, perché sembrò ricordarsi all’improvviso di qualcosa e scattò su dal sedile.
“Che idiota, non mi sono manco presentato. Io sono John.”
“Sherlock, piacere,” rispose semplicemente il ragazzo alla guida.
“Sherlock?”
“Già” annuì lui, già pronto a insultarlo nel caso avesse detto una frase del tipo Che strano nome!
John lo osservò per un momento con sguardo limpido, sincero. “Non l’avevo mai sentito. È un bel nome.”
Sherlock rimase interdetto. “Ah. Grazie.”
Forse era perfino arrossito: si sentì un leggero calore salire al viso e sperò che l’altro non lo notasse. Per scacciare l’imbarazzo, cercò di intavolare una conversazione. Non che fosse un esperto in materia – non era un amante della socializzazione – ma piuttosto che quel silenzio così intenso avrebbe chiacchierato perfino con suo fratello Mycroft. Disse la prima cosa che gli veniva in mente.
“Quindi tu sei un medico?”
John si raddrizzò di nuovo. “Ma io non l’ho detto!”
“No, infatti.”
“E… e allora come fai a saperlo?”
Accidenti.
Ecco, aveva appena fatto il danno. Non si conoscevano da neanche mezz’ora e già lo aveva spaventato.
“Ho tirato a indovinare…”
“No, non è vero.”
Sherlock si voltò di scatto verso di lui. L’altro lo guardava serissimo, ma non arrabbiato, né scandalizzato. Sembrava più… incuriosito.
“Ok, è vero. Non l’ho indovinato, l’ho capito,” esitò per un secondo. “Il tono di voce che usi, il modo in cui guardi l’altra persona… e poi i segni sulle dita. Sei un chirurgo, no?”
John allora si guardò le mani, aprendo i palmi. “Ah, i solchi dei fili di sutura,” e sorrise. “Sei un detective!” disse per prenderlo in giro.
Sherlock notò il suo sguardo e il suo sorriso. Sembrava sinceramente ammirato, non spaventato. I muscoli dello stomaco si rilassarono un poco.
“In realtà mi piacerebbe davvero. Ma non un detective normale–”
Venne interrotto da una risata cristallina: “Strano che non volessi essere normale.” E ricalcò la parola facendo il segno delle virgolette con le mani.
“Che intendi?!”
“Nulla, nulla. Vai pure avanti, che detective vuoi essere?”
“Un consulente, diciamo. Non voglio lavorare in polizia, sarebbe terribile.”
“Ah sì? E perché?”
“Oh, andiamo, che noia. Tutte quelle regole, e i superiori da rispettare, e la lentezza esasperante dei colleghi…”
“Poverino, hai ragione. Circondato ovunque da un branco di dementi…”
“Esatto!” esclamò Sherlock quasi sorridendo per l’entusiasmo, poi capì che John era ironico. “Ah. Eri sarcastico.”
Ma l’altro rise di nuovo. “Già! Ma va bene così.” Era davvero troppo divertito per offendersi sul serio.
Sherlock si rilassò ulteriormente. Quel viaggio si stava rivelando nettamente meno banale del previsto. Quel John era davvero particolare: non solo non lo aveva insultato dopo mezz’ora di conoscenza, ma sembrava addirittura trovarsi bene in sua compagnia. E doveva ammettere che la cosa era reciproca.
 
Fu come un flash, durò appena una frazione di secondo. Percepì qualcosa passarlo da parte a parte, come se uno spillo gli avesse appena trapassato il cervello. E con esso lo pervase una consapevolezza nuova. Qualcosa che forse, di norma, fa parte del senso comune, eppure che per lui non era mai stata scontata: la possibilità che le cose possano cambiare. Non seppe spiegarsi a cosa si riferisse in modo particolare, ma la sentì forte e netta – una di quelle illuminazioni rare e inspiegabilmente chiare – e fece un pochino male, proprio come essere punzecchiato da uno spillo.
 
Un suono distante si intromise nella sua riflessione come una nuova frequenza. Non era un suono spiacevole, conteneva una nota carezzevole, lenitiva.
Si rese conto in ritardo che John gli stava parlando da un minuto buono.
“Terra chiama Sherlock. Terra chiama Sherlock,” stava ripetendo John, le mani a coppa davanti alla bocca e una luce divertita negli occhi.
“Ah! Eh! Scusami, mi ero distratto…”
“Sì, ho notato. Spero di non aver interrotto qualche nobile pensiero sull’origine dell’universo o lo scopo dell’uomo sulla terra.”
“No, tranquillo. Niente di così triviale.”
Triviale…”
“Beh, sì. Comunque, cosa volevi dirmi?”
“Ho notato un cartello. A breve dovremmo incrociare un autogrill. Se ti va potremmo fermarci a mangiare.”
“Ma sono solo le quattro e mezza…”
“Appunto! Io non ho pranzato, ero su quella strada da tre ore aspettando che qualcuno si fermasse, ormai mi era passata pure la fame… poi per fortuna sei passato tu.”
Sherlock balbettò qualcosa di indecifrabile, insultandosi mentalmente. Non capiva perché dovesse reagire così ogni volta che John diceva qualcosa di carino nei suoi confronti.
Carino.
Aveva appena pensato che John dicesse cose carine. Accidenti!
“Uhm?” – cercò di capire lui – “Quindi ci fermiamo? Tu non hai fame?”
“Non particolarmente, però ok, fermiamoci.”
John lo squadrò a lungo, senza preoccuparsi di metterlo a disagio: “Tu non mangi abbastanza,” decretò.
“Mangio quando ho fame.”
“Cioè mai, suppongo.”
L’altro alzò gli occhi in alto, ricordando. “Dunque, mi pare di aver mangiato qualcosa ieri a metà pomeriggio…”
“Come ‘ti pare’?! Ci credo che sei così magro.”
“Quello è perché devo metter su muscoli!” si difese lui, alzando il mento in un gesto altezzoso.
“Anche. Ma devi mangiare di più, sul serio. Te lo dice un medico!”
“T-tu non sei il mio medico,” balbettò Sherlock, in un modo non troppo convinto.
“Per oggi sì.”
 
Dieci minuti dopo Sherlock accostava presso il parcheggio dell’autogrill. “Soddisfatto?” gli chiese, uscendo dall’auto.
“Moltissimo!” esclamò John, con tono vivace.
L’altro lo squadrò per un attimo, non convinto. Un pensiero gli balenò in testa e come suo solito decise di non tenerselo per sé: “Non devi sentirti obbligato a fingere di essere allegro.”
“Come scusa?”
“Ho detto che va bene anche se sei di malumore…”
“Non sono di malumore,” si schermò John, infilando le mani nelle tasche della giacca leggera.
Sherlock notò il gesto e un sopracciglio scuro si sollevò scettico.
“Come vuoi. Tuttavia te lo ripeto lo stesso: per me va bene anche se sei di malumore.”
Il ragazzo tirò su col naso per prender tempo. “Bene, grazie dell’informazione,” girò i tacchi e si diresse verso l’ingresso dell’edificio.
Interessante. Era sveglio, sagace. Sapeva usare bene il sarcasmo per difendersi. Ancora una volta un sorrisetto spuntò sulle labbra di Sherlock: si sentiva elettrizzato come quando qualcosa si mette in movimento, pronto a cambiare. Lo seguì a passo svelto e silenzioso.
Appena entrati, John si lanciò verso l’angolo dei panini e dei toast. Sherlock invece, con affettata nonchalance, rallentò passando davanti alla sezione dei dolci. I suoi occhi intercettarono subito i muffin: mirtilli, cioccolato, mele. Wow. Scosse la testa, non voleva che John scoprisse subito che era estremamente goloso. Quasi di riflesso, osservò il suo nuovo compagno di viaggio, notando che non era molto alto ma aveva un fisico asciutto, allenato. Un leggero calore gli inondò il viso, deglutì a fatica.
“Ma tu vivi sulla terra o su Marte?” gli chiese lui, sventolandogli una mano davanti alla faccia.
“Per quel che mi riguarda, potrei anche essere su Sirio.”
“Ma quella è una stella, non un pianeta.”
Sherlock fece spallucce. “Beh è uguale, no?”
L’altro spalancò un poco la bocca chiedendosi se fosse serio, ma alla fine preferì non indagare. Disse invece: “Fai così, tu intanto prendi posto prima che ci rubino anche l’ultima sedia. Io arrivo non appena mi hanno scaldato il panino.” Quasi lo spinse via.
Poco dopo, lo raggiunse con il proprio panino, che addentò soddisfatto prima ancora di sedersi. Nel mentre, appoggiò con fare burbero due muffin sul tavolo, uno alle mele e uno ai mirtilli.
“Fono pef te,” bofonchiò, masticando.
“Come per me?!” Sherlock sgranò gli occhi, incredulo.
“Credevi non ti avessi visto, eh!” ghignò John, mandando finalmente giù il boccone enorme che aveva in bocca. “Almeno con questi posso convincerti a riempirti lo stomaco.”
Ulteriori proteste vennero tentate dall’altra parte, ovviamente senza successo. Sherlock dovette arrendersi con un “Grazie” balbettato. Addentò il muffin ai mirtilli anche per nascondere il sorriso che non voleva saperne di sparire.
Mai nessuno aveva compiuto un gesto simile nei suoi confronti.
E adesso arrivava questo sconosciuto che non solo si preoccupava, ma agiva per prendersi cura di lui.
Poi una domanda nuova fece capolino nella sua mente.
Dove sei stato finora?
“…qui?”
La voce di John ancora una volta lo distolse dal suo ragionare. Oddio, lo aveva detto ad alta voce?!
“C-come?”
“Ho chiesto: quanto manca da qui?”
“Ah! Ok.” Quasi sospirò di sollievo. “Un’ora e mezza, più o meno, per Bournemouth. Ma considerando che prima dovremo passare da Burley – mi spiace, purtroppo devo fare una tappa obbligata – probabilmente ci metteremo un po’ di più e…”
“Frena frena!” Lo interruppe John. “Non devi mica portarmi fino a lì! Sei già gentile così. Tu arrivi dove devi arrivare, io poi mi arrangerò.”
Sherlock sbatté un paio di volte le ciglia, imperturbabile: “Puoi scordartelo.”
“Prego?!”
“Dal momento in cui ho deciso di darti un passaggio mi sono impegnato a portarti fino alla fine. Così stanno le cose, accettale.”
Nel mentre si rimisero in viaggio.
“Sei un tipo risoluto, eh?”
Sherlock alzò le spalle. “Responsabile, io direi.”
John sorrise: “Va bene, mister Responsabile,” e chinò appena il capo, “allora ti ringrazio.”
“È…  è un piacere. Quindi, come dicevo, considerata l’ora, credo dovremo fare tappa da mio fratello e dormire da lui.” Poi notò lo sguardo dell’altro. “Sempre che non ti dispiaccia! Ma preferirei non guidare a sera tarda…”
John alzò le mani. “Tu guidi, tu decidi. Mi spiace solo essere di disturbo, ecco. In ogni caso posso dormire in macchina… non lo so, tuo fratello non mi ha mai visto.”
Sherlock sventolò una mano con sufficienza. “Oh, di quello non devi preoccuparti. Garantisco io per te. Ma soprattutto… se Mycroft osa rompere le scatole ho qualche carta buona da usare.”
L’altro ridacchiò. “Non vorrei essere nei panni di tuo fratello per nulla al mondo.”
“Già… nemmeno io!” e simulò un brivido di orrore.
“E di che ‘carte buone’ parli? Cosa avresti contro tuo fratello?”
“Oh, un sacco di cose,” e ghignò malefico, puntandosi l’indice alla tempia. “Tutto ciò che può aver fatto di imbarazzante da quando era piccolo è immagazzinato qui, mi basta tirarlo fuori. Geoffrey sarebbe felicissimo di sapere tutto!”
“Geoffrey?”
“Geoffrey Lestrade. È il suo ragazzo, e a quanto pare si sposeranno.”
“Ma pensa! E non sei contento?”
Sherlock distolse per un breve attimo gli occhi dalla strada, giusto per far notare a John la sua espressione scettica: “Come posso essere contento? Una folla di gente vestita in modo imbarazzante che piagnucola e batte le mani, solo perché due persone hanno deciso di rompersi le scatole a vicenda fino alla fine dei loro giorni? No, grazie.”
Tralasciando la parte del discorso che John non sentì perché perso a osservare l’azzurro chiarissimo degli occhi dell’altro, il senso fondamentale gli arrivò dritto e chiaro; alzò un dito per protestare, ma poi ci ripensò. “…Non c’è modo di farti cambiare idea a riguardo, vero?”
“Non credo proprio. Solo un miracolo, immagino.”
“Sì, forse un miracolo,” ripeté l’altro, e sorrise guardandolo.
Sherlock intercettò la sua espressione ma non ribatté, fingendo di essere concentrato sulla guida. Non sapeva perché, ma arrossì appena.
John non lo notò. Si girò verso il finestrino e osservò il paesaggio fuori correr via veloce. Che avventura. Certo, non sapeva cosa aspettarsi da un viaggio in autostop, ma sicuramente la sua mente non sarebbe arrivata a inventarsi un tipo del genere. Uno come lui andava oltre ogni immaginazione. Tremendamente intelligente – e sospettava di non aver ancora visto nulla delle sue reali potenzialità – e misterioso. Come se non bastasse, aveva due occhi che facevano concorrenza all’acqua del mare, ricci neri dall’aria morbidissima e una bocca che…
Sherlock sentì il suo passeggero tossicchiare con insistenza.
“Tutto a posto?”
“Alla grande!” rispose quello, con fin troppa solerzia.
Sherlock corrugò la fronte per un secondo, sospettoso, ricordandosi poi la sua strana reazione quando gli aveva detto che poteva anche essere di malumore, per quel che lo riguardava.
“Senti, John, volevo chiederti…”
“Uhm?”
“Cosa ti turba esattamente?”
Un lampo di panico gli balenò negli occhi blu per un attimo. Poi sbatté le palpebre e lo cacciò via, simulando un sorriso tirato, finto.
“Nulla di particolare. Perché?”
Sherlock si scoprì a sua volta turbato. Fu come vedergli fisicamente infilare una maschera. Non gli era mai capitato prima, di interpretare una persona con così tanta immediatezza senza, allo stesso tempo, capirci un accidenti.
“Perché menti?” Insisté allora, testardo.
Il silenzio si fece intenso, la tensione quasi palpabile. John si sentì preso in contropiede, non sapeva davvero che fare. L’istinto sarebbe stato quello di continuare con la farsa, incazzarsi con quel tizio comparso dal nulla che sembrava conoscerlo anche troppo bene, e scendere dalla macchina. Eppure non fece nulla di tutto ciò, le parole gli scapparono dalle labbra prima che il suo cervello potesse concordare.
“Perché così è più facile.”
“Però tu così soffri di più, giusto?”
Non era una domanda compassionevole, né inquisitoria. Sherlock sembrava averlo chiesto come se effettivamente non ne fosse sicuro, come se stesse solo cercando di dedurlo. Era una domanda sincera, come quella di un bambino.
John annuì appena. “G-giusto.”
L’altro ebbe un leggero sussulto, quasi stesse esultando per averlo capito. “Allora non dovresti farlo.”
Perché?
Si chiese John.
Perché ho questa irresistibile tentazione a fidarmi di lui?
Sospirò.
“Hai ragione, Sherlock, non dovrei. Possiamo rimandare il discorso a più tardi?”
“Come vuoi.”
“Grazie.”
Il ragazzo alla guida lo vide accoccolarsi sul sedile in una posizione più comoda. Dopo un minuto, si era addormentato. Trascorse il resto del viaggio in silenzio, congetturando su tutte le possibili spiegazioni a quel comportamento così insolito.
Adesso sì che non era più annoiato.
 
***
 
“John…?”
Sherlock provò a chiamarlo a bassa voce. Niente.
Jaaawn?
Lo punzecchiò sul braccio piantandogli un dito sottile dritto nel muscolo.
Un mugugno, poi il ragazzo si svegliò di soprassalto. Sherlock non fece in tempo a togliere il dito che John glielo aveva afferrato, sollevando l’altro braccio all’altezza del collo, come a parare un colpo. Tutto questo senza aver ripreso pienamente conoscenza.
“Che diamine…?”
“Oddio, Sherlock scusami.” Lasciò subito il suo dito e si raddrizzò sul sedile. “Scusami,” ripeté con gli occhi sfuggenti.
“Tranquillo,” cercò di minimizzare l’altro. “Poteva andarmi peggio. Non so, una sberla, un pugno. Direi che sei stato anche delicato. Comunque siamo arrivati.”
Solo allora John guardò davanti a sé: l’auto era ferma su una strada sterrata, in quello che sembra il cortile di una cascina. Ed ecco la suddetta cascina, in stile rustico ma evidentemente molto ben curata. Tutt’intorno il giardino rigoglioso disseminato di alberi da frutto, ben visibili nonostante il buio della sera ormai calata.
“Wow,” soffiò il passeggero, guardandosi intorno trasognato. “Cavoli, devo essermi addormentato.”
“Brillante deduzione!” lo prese in giro il moro, scendendo dalla macchina. “Andiamo?”
“Certo.” Fingeva sicurezza, ma in realtà era agitato. Aveva appena conosciuto Sherlock, e adesso anche il fratello… con il suo quasi-marito! Non sapeva se fosse davvero pronto a incontrare tanta gente nuova in un solo giorno. Era tutto tremendamente nuovo.
Quasi gli avesse letto nel pensiero, Sherlock sospirò: “D’altronde, abbiamo alternative?”
E si voltò verso di lui con un mezzo sorriso che ebbe il potere di rassicurarlo.
 
“Fratellino!”
La voce di Mycroft li accolse prima ancora che potessero muovere un passo verso la porta di casa. John vide un uomo longilineo – quasi quanto Sherlock – venire loro incontro e poi bloccarsi alla vista dell’ospite inatteso. Assottigliò lo sguardo e si voltò verso il fratello minore: “Saresti così cortese da spiegarmi?”
Quest’ultimo, imperturbabile almeno all’apparenza, alzò il mento in segno di sfida: “Lui è con me.”
Mycroft sbatté le palpebre un paio di volte, sfoderando un sorriso sghembo più strafottente che altro.
“Questo era chiaro. Potevi avvertire.”
“Non ne ho avuto il tempo. D’altronde contavo sull’ospitalità del mio fratellone, o mi sbaglio?”
Assolutamente. Per me sarà un piacere ospitare il tuo… compagno di viaggio… per tutto il tempo necessario.”
A quel punto interruppe il contatto visivo con Sherlock e porse una mano a John.
“Mycroft Holmes.”
“J-John Watson, piacere.”
“Il piacere è mio. Medico, se non vado errato. Con un passato da sportivo professionista, oserei aggiungere.”
“Come diavolo…?!”
John osservò a bocca socchiusa prima uno poi l’altro dei fratelli Holmes. “Cosa siete, alieni?”
Sherlock ridacchiò, segretamente orgoglioso della sorpresa suscitata nel ragazzo. Mycroft si limitò a fare spallucce: “Probabilmente Sherlock lo è. Ma gli vogliamo bene lo stesso, giusto?” E guardò John negli occhi in modo particolarmente intenso.
Questi rispose allo sguardo senza distogliere gli occhi. Impassibile, inclinò leggermente la testa su un lato: “Me lo dica lei.”
Qualche secondo di silenzio, poi Mycroft scoppiò a ridere. “Interessante, molto interessante! Ora capisco Sherlock perché tu–”
Fratello!
“–nulla, nulla. Prego, entrate. Vi faccio preparare immediatamente i letti, sarete stanchi.”
Li precedette rientrando. Passando di fianco a John, Sherlock si abbassò verso di lui – era nettamente più alto – e gli soffiò nell’orecchio: “Chiedo venia, avrei dovuto avvertirti. Mycroft è un soggetto strano… ma direi che tu te la sei cavata egregiamente!”
L’altro sorrise ironico a quel “soggetto strano” e gli rispose, sempre bisbigliando: “Senti chi parla!”
 
“Myc, ma quanto ci metti? È tuo fratello, mica la regina!”
Un’altra voce nuova risuonò nelle orecchie di John, che davvero non sapeva più come prepararsi all’ennesimo sconosciuto della giornata. Sperava solo non dovesse essere sottoposto a un altro interrogatorio. Tuttavia aveva buone speranze: era una voce allegra, graffiante e un poco ruvida. Quella di un uomo simpatico, insomma.
Il suo intuito non lo tradì. Poco dopo fece il suo ingresso in salotto il famoso Lestrade. Abiti sportivi, una bottiglia di birra in mano e un bel sorriso aperto ai nuovi arrivati. Anche lui si bloccò sulla porta: “Ah! Ma siete in due! Ciao Sherlock, tutto bene? E tu sei…?”
“John, molto piacere.”
“Piacere mio, Greg.”
“Greg? Non Geoffrey?”
Geoffrey? Che nome ridicolo. No, ti assicuro che da quando ne ho memoria so di chiamarmi Greg,” e scoppiò a ridere.
L’altro si voltò appena verso Sherlock: complimenti per la memoria! Voleva dirgli. E di nuovo, come se avesse capito, il moro lo liquidò con un’alzata di spalle.
In coda a quello scambio silenzioso, a entrambi sfuggì uno sbadiglio rumoroso.
“Qui qualcuno ha sonno, eh?” li prese in giro Greg. “Myc! Sbrigati!” urlò, andando a cercare il fidanzato cui spettavano gli onori di casa. Riemersero in due, e il maggiore degli Holmes sembrava avere un’aria particolarmente soddisfatta: “Volete seguirmi?”
Fece per andare, ma si fermò. “Povero me, dove ho la testa. Non vi ho nemmeno chiesto se aveste fame!”
“Io sono a posto,” borbottò John, la cui stanchezza cominciava ad avere la meglio sulle buone maniere.
“Sì, anch’io.”
“Immaginavo. Prego, allora.”
Sherlock fece un lieve cenno e restò in silenzio. Lo conosceva, suo fratello, e quella faccia non gli piacque per nulla.
Poco dopo comprese anche il perché di quell’infausto presentimento.
“Ecco, vi ho fatto preparare la stanza.”
La stanza.
La.
Stanza.
Sostantivo singolare.
Il cervello di Sherlock andò in tilt per un attimo.
John non replicò subito solo perché non si sentiva in diritto di farlo, ma cercò di sbirciare nella stanza, giusto per capire la situazione. In realtà era più divertito dalla reazione raggelata dell’altro e dal suo diverbio costante col fratello. A fatica scorse l’interno oltre le spalle di Mycroft.
Almeno i letti erano due.
“Perché?” chiese allora Sherlock, mascherando a mala pena il panico. “Perché la stanza doppia?”
“Come perché?” rispose Mycroft con tono amabile, “perché mi sembrava inutile scomodare due stanze solo per una notte. Questa mi pareva la soluzione più semplice e comoda per tutti.”
“Ah sì? E da quando tu…”
Sherlock si morse il labbro e sbirciò John, il quale lo pregò con lo sguardo di non discutere oltre. Era davvero troppo stanco.
“E va bene,” sospirò. Accettò più per John che per se stesso. Nel mentre si era già rassegnato al fatto che quella notte non avrebbe dormito.
“Ottimo, allora! Vi auguro una buona notte. John, fai pure come se fossi a casa tua.” E senza attendere risposta, si dileguò.
Appena rimasti soli, Sherlock sbottò: “Quel maledetto…!”
“Sherlock! Avanti, è solo per una notte. Però mi dispiace, accidenti. Lo sapevo che avrei dato solo problemi…”
“Ma cosa dici?!” gli chiese con fin troppa foga, avvicinandoglisi d’istinto, il viso a pochi centimetri dal suo. “Non lo dire mai più. Non è mica colpa tua. E poi hai ragione… non è poi così grave, no?”
“No, infatti…” mormorò John, gli occhi concentrati sulla bocca dell’altro. Si passò la lingua sulle labbra in un gesto automatico.
Il moro lo notò e non seppe come interpretarlo. O meglio, forse lo sapeva, ma non era sicuro di voler elaborare l’informazione. Raddrizzò la schiena e si schiarì la voce, guardandosi attorno. “Bene, io prendo quel letto, se per te è ok.”
“Nessun problema.”
Si cambiarono in silenzio, ciascuno dando la schiena all’altro.
Accidenti, perché tutto questo imbarazzo? Sherlock si diede mentalmente dell’idiota. Che diavolo stai combinando?
Alzando la testa, finì per guardare lo specchio che aveva davanti a sé. C’era riflesso John, che in quel momento si stava sfilando la maglia. Sherlock fece per abbassare subito lo sguardo, ma intercettò qualcosa che richiamò la sua attenzione all’istante.
Lividi.
John aveva tanti lividi sulla schiena.
Solo allora abbassò davvero gli occhi, per paura che l’altro lo notasse. I pezzetti del puzzle cominciarono a mettersi a posto da soli nel suo cervello. Smettila. John non è un enigma da risolvere.
Scosse la testa infilandosi sotto le coperte. L’altro lo imitò poco dopo.
“Beh, allora… buonanotte Sherlock.”
“Buonanotte John.”
La luce venne spenta, il silenzio calò nuovamente su di loro.
 
Sherlock, come preventivato, non riusciva a dormire: troppi pensieri in testa. Troppe emozioni. Qualcosa cui lui certamente non era abituato.
John Watson lo aveva sconvolto da ogni punto di vista.
La sensazione provata poche ore prima si ripresentò scombussolandogli lo stomaco e la mente. Non aveva mai provato nulla di simile: l’impressione – così concreta, così reale – che nella sua vita qualcosa si stesse smuovendo, o addirittura mettendo in moto. Così, dal nulla.
Come le pagine di un libro tenuto chiuso per troppo tempo. Dopo anni di immobilità, strizzato tra mille altri volumi sullo scaffale, qualcuno finalmente decide di tirarlo fuori e darci un’occhiata. E allora comincia a sfogliarlo, dando movimento alle pagine che una dopo l’altra ricominciano a scorrere sotto gli occhi curiosi del lettore.
Così quel libro, per tanto tempo dimenticato, ricomincia ad avere un senso.
Ecco, Sherlock si sentiva proprio come quel libro.
 
Si chiese se John si rendesse conto di cosa stava succedendo. Si chiese quali pensieri avesse lui in testa, quale fosse la sua storia. Si chiese la causa della sua pena, e perché non ne volesse parlare. Si chiese cosa fossero quei lividi, cosa – o chi – glieli avesse procurati. Si chiese tante cose, Sherlock.
E infine si chiese: te ne devi proprio andare, domani?
 
Non avrebbe saputo dire quanto tempo aveva passato a rimuginare su tutto questo. Sapeva solo che, a un’ora imprecisata della notte, all’improvviso udì qualcosa.
Un mugolio basso, prima appena udibile, poi più insistente. E man mano che cresceva d’intensità, iniziò a distinguerne la nota dolorosa.
Non ci mise molto a realizzare.
Era John.
Si lamentava nel sonno, probabilmente stava avendo un incubo.
“Ti…”
“Ti prego…”
Mugugnava a bassa voce.
“Basta…”
A quel punto, Sherlock si mise a sedere. Iniziò a udire anche un martellare insistente e capì solo dopo che era il suo stesso cuore.
Saltò fuori dalle coperte e in pochi secondi raggiunse il letto dell’altro. Allungò una mano e in quel preciso momento John si voltò su un fianco, dandogli la schiena, rannicchiandosi su stesso e stringendo i pugni.
Sherlock ritirò la mano e prima di ogni altra mossa si sedette sul bordo del letto.
“John?”
Ma sapeva non avrebbe funzionato, ci aveva già provato durante il viaggio in macchina. Nel frattempo i mugolii si erano fatti più lamentosi. Se li sentiva risuonare nella cassa toracica come un coltello.
Cosa ti hanno fatto?
Ritentò con la mano. La appoggiò piano sulla sua spalla.
Immobile.
John si immobilizzò istantaneamente. Poi con uno scatto si voltò, gli afferrò il polso stringendolo forte e gli girò il braccio dietro la schiena.
Portò il viso a pochi centimetri da quello di Sherlock, emettendo un ringhio basso e roco e riguadagnando lentamente coscienza.
In tutto questo, il moro non aveva emesso suono. Forse troppo spaventato dalla reazione, forse troppo poco. Semplicemente lo lasciò fare, almeno finché non sentì la presa sul suo polso farsi decisamente troppo stretta.
“Ehi,” deglutì sonoramente. “John sono io. Sono io, Sherlock.”
John ansimava come se avesse corso i chilometri. Sbatté più volte le palpebre, finché non si fu svegliato del tutto. E capì di averlo fatto di nuovo. Mollò la presa all’istante.
“O mio dio. Sherlock…”
La voce gli morì in gola, non ebbe nemmeno la forza di continuare.
“Sherlock… perdonami…”
Si lasciò andare contro di lui, sprofondando con il viso nell’incavo del suo collo.
“Perdonami,” mormorò ancora.
E pianse.
Ma era un pianto silenzioso, esausto, tant’è che Sherlock non se ne accorse finché non si sentì la spalla bagnata. Poteva distinguere ogni lacrima scivolare lentamente dalle sue guance alla propria spalla.
Una dopo l’altra.
Incapace di pensare razionalmente, si fece guidare dall’istinto. Lo circondò tra le braccia, accarezzandolo sulla schiena. Tremava.
“Shhh” ripeteva. “Va tutto bene, John. Va tutto bene.”
Non aveva la minima idea di come gestire quella situazione, ma ci provò. Per lui.
Azzardò una carezza sui capelli, per poi accorgersi che era davvero l’unica cosa che voleva fare in quel momento. Abbassò appena il viso sul suo capo, le labbra poggiarono tra i suoi capelli l’ombra di un bacio.
“Shhh...”
Rimasero così per un tempo indefinito e indefinibile per entrambi.
Sherlock continuò a cullarlo finché non percepì il suo respiro tornare regolare. John gonfiò più volte il petto per dare aria ai polmoni sotto sforzo. Tuttavia non si scostò da lui. Non aveva alcuna fretta di interrompere quel contatto. Era la prima volta da tanto tempo che qualcuno non lo faceva sentire così. Semplicemente al sicuro.
Dopo un sospiro prolungato, si decise a tirarsi su. All’inizio non fu in grado di stabilire un contatto visivo, e Sherlock non voleva farlo sentire in imbarazzo.
“V-Va meglio?” chiese esitante.
John annuì in silenzio. Dopo qualche secondo finalmente lo guardò negli occhi e da essi si lasciò avvolgere. “Mi dispiace. Ti ho spaventato?”
Sherlock scosse energicamente il capo, tanto che i ricci si mossero in scia al suo movimento. “Sinceramente no. Però…” si morse il labbro, “vorrei capire cosa è successo. Ti lamentavi nel sonno, poi quello scatto…” – man mano che nella propria testa rifletteva sulla scena prese vigore nel parlare – “Puoi anche dirmi che non sei di malumore, che non stai nascondendo nessun turbamento. Puoi dirmelo. Ma io non ti credo.”
E inaspettatamente John sorrise, lasciandolo spiazzato.
“Sei buffo, sai?”
Lo fece arrossire. “Come buffo?!”
“Beh, sì. Sei tenero.”
“Come ti permetti?!” esclamò lui indignato, al che John scoppiò a ridere.
“Scherzo, scherzo. Sei un freddo uomo senza cuore!”
“Ecco così va meglio.”
Sorrisero entrambi, accorgendosi solo in quell’istante che erano vicini, molto vicini. Sherlock ancora seduto sul bordo del letto, John a gambe incrociate appena più in là. Calò un silenzio imbarazzato e si schiarirono la voce all’unisono.
“Forse sarebbe meglio dormire, ora.”
“Sì, meglio… hai ancora da guidare domani, per colpa mia.”
“Ti ho detto di smetterla di dire così. Lo faccio volentieri… davvero.”
“Farò finta di crederti,” mormorò, guardandolo alzarsi per tornare al proprio letto. Agì d’istinto, gli afferrò un lembo della manica per trattenerlo. Sherlock abbassò lo sguardo su di lui in attesa.
“Ti spiacerebbe… restare qui?”
Entrambi i letti della stanza erano a una piazza e mezza. Abbastanza piccoli per lasciar adito a pensieri, abbastanza grandi per non creare eccessivo imbarazzo.
“No, certo che no. Ma resto solo se… mi racconti.”
“Questo è un ricatto bello e buono!”
“Ok, me ne vado.”
John rise e lo tirò giù con forza: “Ma dove vuoi andare…”
Si sdraiarono uno di fianco all’altro a pancia in su. Il biondo sospirò e si fece serio. Cercò di calmare l’agitazione che si impadronì di lui non appena si rese conto che stava davvero per raccontare a qualcuno ciò che era sempre stato una cosa solo sua. Sua e di sua sorella.
“Mia madre è mancata anni fa. In famiglia siamo rimasti io, mia sorella Harry e nostro padre. Lui era una brava persona… lo era davvero. Ma col tempo è cambiato…”
Si fermò per un attimo. Sherlock attese in silenzio, pazientemente.
“Con gli anni, soprattutto dalla morte della mamma, è diventato sempre più cupo, chiuso in se stesso, intollerante.”
“Intollerante?”
“Con noi. Con me e Harry. Harry…” esitò, “Harry aveva una fidanzata e questo mio padre non lo ha mai accettato. Fino al punto in cui è arrivato a dimostrare la sua non accettazione con la violenza.”
“Che cosa?”
John sorrise amaro. “Già. Diciamo che ce ne siamo prese tante, per un motivo o per l’altro. E a nostro padre bastava veramente poco… Harry alla fine non ha trovato altro modo di resistere se non anestetizzando il dolore con l’alcol. Fino a un punto di non ritorno.”
“Cosa intendi?”
“Cirrosi epatica. Sai cosa implica, no?”
Sherlock annuì piano. “Nei casi più gravi è necessario un trapianto di fegato, altrimenti il paziente…”
“…muore.” Completò per lui John.
“E Harry è…?”
“Ha ottenuto adesso, dopo anni di attesa, di essere accettata per il trapianto.”
“Ma questa è una bella notizia!”
“Sì, da un lato sì. Dall’altro, come immagini, se è stata accettata per il trapianto vuol dire che il suo caso è stato riconosciuto come grave. Non c’è tempo da perdere.”
“E quindi tu stai andando a Bournemouth per lei?”
“Esatto. C’è una comunità di recupero lì, con un reparto di cura. Nostro padre ce l’ha mandata quando ha deciso che non aveva più voglia nemmeno di sentirne parlare… non avrei dovuto permetterglielo,” aggiunse, coprendosi gli occhi con una mano.
“Non è colpa tua,” mormorò Sherlock, prendendogli quella stessa mano e allontanandola dal suo viso. Non la lasciò andare e John non fece nulla per cambiare la cosa.
“Vorrei pensarla anch’io allo stesso modo,” disse invece.
“Quel momento arriverà,” decretò Sherlock con tono sicuro, osservando il soffitto. “Un giorno questo dolore smetterà semplicemente di esserci.”
“Come fai a dirlo?”
Il moro non rispose subito. Si voltarono uno verso l’altro nello stesso momento. “Per esperienza personale.”
John si sporse un poco verso di lui. Un sorriso carico di dolcezza affiorò sulle sue labbra sottili.
 
***
 
“Come, andate già?” chiese Greg, lanciando un sonoro sbadiglio.
Il mattino seguente, Sherlock e John si alzarono molto presto. Per le sette e mezza erano già pronti a partire.
“Prima arriviamo meglio è,” sentenziò Sherlock, nettamente più sveglio dell’altro.
Lestrade si avvicinò allora a John porgendo la mano: “Beh, è stato un piacere conoscerti. In bocca al lupo per tutto. Dove ti fai lasciare?”
“Vicino Bournemouth. Grazie mille Greg, è stato un piacere anche per me.”
I due ragazzi pronti alla partenza si girarono in contemporanea verso Mycroft, che li osservava in silenzio. Più o meno. “Ma che tenero quadretto! Perdonatemi se non tiro fuori il fazzoletto per le lacrime, devo averlo lasciato di là.”
“Ma piantala!” esclamò il suo ragazzo, sgomitandolo. “Devo riferire tutte le cose carine che hai detto su John ieri?”
Mycroft diventò paonazzo. “Calunnie!”
Scoppiarono tutti a ridere escluso l’uomo oltraggiato, naturalmente. Il quale si sentì in dovere di allontanare l’attenzione da sé: “Allora fratellino, quando ci rivedremo io e te?”
“Che domanda è? Tempo di andare e tornare…”
“Ah.” Disse semplicemente Mycroft, con un ghigno.
Sherlock gli lanciò un’occhiata confusa, ma non indagò oltre. Almeno per il momento. “Noi andiamo.”
John sventolò ancora la mano in segno di saluto, e si misero in viaggio.
Solo venti minuti li separavano dalla meta.
Venti minuti ancora per stare insieme, prima di separarsi definitivamente.
Venti minuti che furono trascorsi in assoluto silenzio.
Nessuno dei due sapeva cosa dire, ogni parola sembrava allo stesso tempo inutile e necessaria. E nessuna pareva quella giusta.
John si focalizzò sul finestrino, cercando di trovare distrazione nel paesaggio in movimento.
Sherlock stringeva il volante tra le dita come se avesse dovuto staccarsi da un momento all’altro.
L’unico rumore udibile era quello del motore, ritmico e rilassante. Il ragazzo alla guida si sfiorò le labbra con un dito sottile.
 
John si sporse un poco verso di lui. Un sorriso carico di dolcezza affiorò sulle sue labbra sottili.
Sherlock sentì il respiro bloccarsi in gola, mentre il cuore cominciò a martellargli in petto. Eppure non riuscì a trattenerlo, un piccolo timido sorriso si dipinse sulle sue labbra piene a forma di cuore.
E su di esse si posò lo sguardo di un paio di occhi blu come il mare.
Gli accarezzò lentamente il viso, percorrendo la linea elegante della mandibola.
Si sporse un po’ di più.
“John…” Fu appena un sussurro.
Non ebbe bisogno di trovare ulteriori parole, perché l’altro annullò la distanza tra loro posando le proprie labbra sulle sue.
Un bacio casto, gentile.
Desiderato, non rubato.
Fu questione di attimi. Battiti di ciglia.
E John era già di nuovo steso al suo fianco, già troppo lontano.
Si addormentarono così, fianco a fianco. Sorridendo perché dimentichi dell’imminente addio.
 
“Siamo arrivati.”
“Sì, riconosco il posto.”
Scesero entrambi dall’auto e si portarono di fronte ad essa, per salutarsi. Ma non avevano la minima idea di come farlo. Un metro di distanza li separava.
John si guardò a destra e a sinistra, cercando di prender tempo. Fu Sherlock a prender parola per primo.
“Bene. Allora… qui ci salutiamo.”
“Già… grazie di tutto, Sherlock. Senza di te probabilmente sarei ancora sul ciglio di quella strada in attesa vana che qualcuno si fermasse per me.”
“Improbabile. Ma, in ogni caso, prego. Spero che… insomma… che tutto si concluda per il meglio. Salutami Harry.”
“Certo, lo farò.”
Il moro annuì e stese la mano.
John la fissò per qualche secondo, poi la strinse, rigido.
“A presto, Sherlock.”
“Arrivederci, John.”
E prima di poter aggiungere altro, Sherlock risalì in macchina e ripartì.
John lo guardò andar via, prima di inalare una bella boccata d’aria e aggiustarsi lo zaino sulle spalle.
Non avrebbe voluto lasciarlo partire. Avrebbe voluto che rimanesse con lui, per sempre. Avrebbe voluto entrare nel centro con lui, cercare la stanza di Harry insieme a lui. Avrebbe voluto presentarlo a sua sorella e dirle orgoglioso che a quel ragazzo dovevano entrambi la vita.
Oh, John avrebbe voluto tante cose.
Ma era anche abituato a vedersi sfuggire dalle mani ciò che più desiderava. Si era costretto, negli anni, a farsi il callo.
“Ok,” cercò di incoraggiarsi, “è ora di andare.”
Cominciò a camminare verso l’ingresso del centro di cura.
 
Nello stesso momento, Sherlock si allontanava a gran velocità da Bournemouth. Non aveva nessuna fretta, se non la paura di cambiare idea.
Che poi, a dirla tutta, sarebbe stato così grave?
Quella situazione non era programmata. John non era programmato. Perché avrebbe dovuto sconvolgere tutti i suoi piani per…
Le dita andarono di nuovo alle proprie labbra. Poteva ancora sentire quel bacio leggero, delicato, posarsi su di esse, strappandogli via un pezzetto di anima.
 
“Sei buffo, sai?”
 
Quella frase gli rimbombò all’improvviso nella testa, producendo un’eco nel cuore.
Sherlock inchiodò di colpo.
Dove sei stato finora?” si era chiesto. Come se lo aspettasse da sempre.
John Watson era la persona che attendeva da sempre.
Colui che aveva tirato fuori quel vecchio libro impolverato dallo scaffale, trovandolo interessante, e lo aveva aperto per leggerlo. Ridandogli finalmente un senso.
E lui lo stava lasciando andare via.
Non solo. Lo stava abbandonando.
Sherlock fece una brusca inversione strisciando i freni sull’asfalto, e riprese la strada.
Dritto verso Bournemouth.
 
John Watson era seduto all’ombra di un albero del vialetto, su una grossa pietra. Non aveva ancora trovato il coraggio di entrare, e come suo solito prese tempo.
Era del tutto immerso nelle proprie elucubrazioni, cercando di figurarsi il momento in cui avrebbe rivisto Harry e le avrebbe detto che aveva ottenuto il trapianto, quando fu distratto da un rumore quantomeno fastidioso. Un’auto si avvicinava a gran velocità.
La osservò meglio.
Lui quell’auto la conosceva.
 
“Che ci fai qui?” gli urlò da una certa distanza, appena lo vide scendere dall’auto.
Ma Sherlock, anziché rispondergli, gli corse incontro e lo abbracciò.
“Col cavolo che ti lascio qui. Da Harry ci andiamo insieme.”
John seppellì il viso nel suo collo, sopraffatto dall’emozione. In quell’abbraccio si sentì ridefinito.
In quell’abbraccio cambiava una storia che pareva ormai già tracciata.
“Grazie.” Bofonchiò contro la stoffa della sua camicia.
La stretta si fece più intensa per qualche secondo, poi Sherlock si separò dall’abbraccio: “Se mi ringrazi un’altra volta giuro che me ne vado.”
L’altro ridacchiò: “Va bene, va bene, prometto!”
Si persero ancora un poco l’uno negli occhi dell’altro.
“Pronto?”
“Pronto.”
 
 
Your love is my turning page
Where only the sweetest words remain
Every kiss is a cursive line
Every touch is a redefining phrase
  
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