Eccomi di nuovo qui con
una nuova
ff! (Poveri voi… muahmuahmuah XD) Spero che sia di vostra
gradimento, perché a
me è piaciuta un sacco scriverla, come tutte le ff che
scrivo, ma questa in
particolare perché unisce l’ff sentimentale a
quella poliziesca. Mi aspetto
molte recensioni, mi raccomando!! Ringrazio tutti quelli che seguono
sempre le
mie ff, ve ne sono davvero grata :)
I Tokio Hotel
non sono di mia proprietà (non ancora XD) e questa storia
non è scritta con scopo di lucro!!
Bene, non mi resta che salutarvi
e dirvi, ancora una volta: buona lettura!
Un bacio, _Pulse_
***
1.
Uno
strano cliente
È
in momenti come questi che mi metto a
scrivere. Non so bene perché lo faccio, ma piuttosto che
piangere come una
bambina, che non sono più da tempo, mi metto a scrivere.
La penna con cui sto scrivendo è una
stilografica che mio padre mi regalò qualche giorno prima di
morire. È molto
importante per me, è l’unica cosa che mi
è rimasta di lui, oltre le parole e i
ricordi di una vita.
Mia madre? Oh, mia madre mi ha abbandonata
quando è morto lui. Mi ha ingannata, prima, e poi
abbandonata. Aveva detto che
saremmo andate in un bel posto e che avremmo ricominciato; avremmo
comprato la
casa in campagna che sognavamo tanto io e papà e saremmo
state felici. Insieme.
Invece cos’è successo? Mentre andavamo,
improvvisamente si è fermata nel bel mezzo di un autostrada
sperduta nel
deserto e mi ha obbligata a scendere. Poi se n’è
andata.
Mamma ha sempre amato il rischio, amava il
senso del pericolo e provava uno strano piacere nel sentirsi
sull’orlo del
precipizio. Per questo non era mia stata molto furba. Almeno questo era
quello
che pensavo, ma quando mi accorsi che aveva scambiato la carta di
credito
prepagata che mi aveva regalato papà per i miei sedici anni
con una finta,
cambiai idea. E me ne resi conto anche quando chiamai la polizia per
dire che
mi aveva abbandonata in autostrada, proprio come un cagnolino, e non ne
ebbi la
forza. Mi venne in mente l’immagine di lei che mi sorrideva
dolce e mi
preparava i biscotti.
Così lei andò a farsi la sua bella vita con i
soldi di papà alle Hawaii o in qualche altra isola
tropicale. Oppure a Las
Vegas, perché no? Lei aveva sempre amato i
casinò, il rischio e blablabla. Io
invece mi trovai da sola, catapultata in una realtà surreale.
Papà aveva sempre avuto aspettative molto alte
per me: mi aveva fatto frequentare le scuole più prestigiose
degli Stati Uniti
e anche il conservatorio più costoso. Credeva molto in me e
nella mia passione
per la musica, lui non avrebbe mai voluto che finissi così,
ma è successo
quello che è successo e lui non ha colpe, a parte sposare
mia madre, sia
chiaro.
Comunque. Mia madre mi abbandonò in mezzo al
deserto, sbattendomi addosso la mia unica valigia (aveva detto di
prendere solo
il minimo indispensabile perché avremmo fatto acquisti nella
nuova città) e il
mio amato flauto traverso.
Passai qualche ora sotto il sole cocente,
evitando l’idea di incamminarmi.
Mia madre era molto furba: mi aveva lasciata
nel nulla più totale, e se anche mi fossi avviata verso la
città più vicina ci
avrei messo almeno due giorni sempre se non fossi morta prima
disidratata.
Così pensai che la cosa migliore da fare era
restare ferma per conservare le energie e aspettare che qualche
macchina si
avventurasse in quel niente per fare l’autostop.
Aspettai per circa due ore, e sulla prima
macchina che passò di lì c’erano due
ragazzi molto carini che mi diedero un
passaggio fino a New York, dove dovevano andare loro. Ero stata
fortunata.
Soprattutto perché non fecero molte domande ed erano
veramente simpatici.
Una volta a New York fui ospitata da una mia
cara amica. Fu lei la prima, ed unica, a sapere tutto, anche del fatto
che non
volevo denunciare mia madre. In poco tempo diventò la mia
migliore, ed unica,
amica nella mia nuova vita.
Trovai un lavoro della periferia di New York,
vicino alla stazione, o meglio sotto
la stazione. Tutti i giorni, più o meno a tutte le ore, si
sentono passare a
tutta velocità i treni sopra le nostre teste e tutto trema,
soprattutto i
bicchieri, le tazze e i liquori esposti.
Non è il massimo, però mi accontento e il
novanta percento di quello che guadagno lo do alla mia amica per
aiutarla con
l’affitto, anche se lei dice sempre che devo tenermi qualcosa
per me. Io le
rispondo sempre che il dieci percento è più che
sufficiente.
Ero e sono proprio come papà, io, e ne sono
orgogliosa. Lui era una delle persone più belle che avevo
conosciuto in tutta
la mia vita, e quando se ne andò fu una perdita per tutti,
non solo mia.
«Nell,
smettila di scrivere, ci
sono dei clienti!», mi sussurrò
all’orecchio facendomi sobbalzare.
Alzai la testa dal mio block
notes e lo guardai stupefatta:
«Davvero? Allora stai pur certo
che domani nevicherà!»
«Forza, vai a lavorare», mi
sorrise bonario prendendomi la spalla.
Il proprietario di quella topaia
era il signor Carlos. Era molto simpatico, ormai era parte della mia
famiglia. Mi
trattava proprio come una figlia e inoltre Nicoletta, sua figlia
veramente, che
aveva qualche anno in meno di me, era molto carina e gentile, e quando
non
c’erano clienti ci mettevamo sempre a giocare a poker, ma non
con i soldi,
bensì con le caramelle che c’erano sul bancone.
Suo padre sorrideva sempre e ci
dava molti consigli utili, sia a me che a lei, e ogni giorno diventiamo
sempre
più brave.
«Dove sarebbero questi clienti?»,
chiesi al signor Carlos,
andando dietro il bancone per mettere via il mio block notes e la mia
cara
stilografica.
Il signor Carlos e Nicoletta
erano dell’America centrale, venivano dal Messico, e avevano
un accento che mi
piaceva molto, oltre alla loro carnagione sempre abbronzata e gli occhi
e i
capelli scuri come la pece.
Indicò un ragazzo seduto in fondo
al locale, testa china sul tavolo, anche se non aveva niente da
guardare, né un
giornale né niente: guardava il tavolo.
Di primo acchito e così da
lontano non lo riconobbi, ma appena mi avvicinai per ritirare
l’ordinazione
capii chi fosse. Rimasi davvero sorpresa nel vederlo in un posto
così di basso
livello per uno come lui, ma non accennai niente, nemmeno sulla sua
identità.
Feci proprio l’indifferente, come se non l’avessi
riconosciuto.
In fondo non doveva essere bello
essere riconosciuti da tutti. Se era venuto lì voleva dire
solo che voleva
stare da solo e al riparo dai flash e dalla popolarità. Non
doveva essere poi tanto
bello nemmeno essere una star di fama mondiale: ok, c’erano
un sacco di
vantaggi, però la popolarità, il successo, se non
si sapevano controllare
sapientemente potevano anche risucchiarti e soffocarti. Doveva essere
parecchio
stressante, ma era il prezzo da pagare per una vita nel lusso.
«Ehm… buona sera, posso esserle
utile?», chiesi una volta che gli fui accanto.
Il ragazzo alzò la testa e mi
accorsi dei suoi occhi tristi, ma sarei stata scortese a chiedergli che
cosa
c’era che non andava, così rimasi in silenzio ad
attendere una sua risposta,
fronteggiando il suo sguardo.
«Una cioccolata calda?», disse
accennando un sorriso.
«Non so, deve decidere lei.»
«Ti prego dammi del tu.»
«Ok.»
«Credo che una cioccolata calda
vada benissimo.»
Rimasi lì ancora per un po’, poi
quando capii che non ci sarebbe stata nessuna forma di cortesia, tipo grazie
o per favore,
me ne andai imbronciata. La mancanza di educazione era
una cosa che non sopportavo, mi dava i nervi.
Il successo deve proprio dare alla testa, pensai.
Andai alla macchinetta e
intanto
che aspettavo che finisse, senza nessuna fretta visto il comportamento
del gentilissimo
cliente, vidi proprio lui
alzarsi e venire a sedersi al bancone, le braccia incrociate su di esso.
«Come ti chiami?», mi chiese.
«Non sono affari tuoi.»
«Oh beh…», sospirò.
«La
cordialità non esiste?»
Ah, parla lui!, pensai digrignando i denti cercando il mio sperduto autocontrollo.
«Di solito
prima di chiedere il
nome degli altri si dice il proprio», puntualizzai.
Ero proprio puntigliosa a volte,
proprio come mio padre, ma se lo eravamo lo facevamo solo per il bene
degli
altri. Potevamo sembrare un po’ presuntuosi a volte a voler
avere sempre
ragione, ma era solo quello il nostro intento: far sì che
gli altri si
accorgessero dei loro errori.
«Ok», respirò profondamente.
«Io
mi chiamo Tom. Tu?»
«Non so se mi va di dirtelo»,
sogghignai.
La cioccolata era pronta. Mi
girai e gliela porsi d’innanzi, sul bancone:
«Prego.»
«Non c’è di ché»,
sogghignò lui.
Era davvero antipatico! Tanto mi
era sempre piaciuto di più suo fratello Bill, mi aveva
sempre ispirato più
simpatia, perché a me non piacevano i Tokio Hotel, era
Frenzy la fan, la mia
amica, che aveva la camera piena di loro poster, persino sopra il mio
letto ce
n’era uno.
Sbuffai di nascosto e andai a
pulire i tavoli visto che eravamo in orario di chiusura e Tom era
l’unico
cliente. Se fossi rimasta lì a chiacchierare amabilmente
con lui avrei finito per litigarci e non volevo avere
contro una star.
Tom rimase in silenzio a bare la sua
cioccolata e mi fece piacere. Ma appena me ne rallegrai ecco che
iniziò di
nuovo a parlare. Era sempre così, come una maledizione.
«Allora non me lo vuoi dire come
ti chiami?»
«Perché vorresti saperlo?»
«Così, per fare un po’ di
conversazione.»
«E se io non volessi fare
un po’ di conversazione?»
«Non so cosa dirti.»
«Il silenzio è ben accetto.»
«Come sei scontrosa.»
«No, sei tu che sei maleducato.»
«Se lo dici tu», sollevò le
spalle.
«È stata di tuo gradimento la
cioccolata?», chiesi stranamente di mia iniziativa. Non
è che se lui era
maleducato dovevo esserlo pure io.
«Ne ho assaggiate di migliori.»
«La prossima volta ti conviene
andare in qualche locale super lussuoso.»
«Non ho detto nulla di male; io
volevo venire qui.»
«Nell, verresti a darmi una mano
se non hai nulla da fare?!»
Chiusi gli occhi al sogghigno di
Tom, sospirando.
«Grazie mille signor Carlos»,
borbottai avviandomi in cucina, dove stava lavando i pochi piatti
utilizzati
durante la giornata.
Alla fine mi aveva chiamata solo
per dirmi che il cliente aveva sempre ragione e che se, soprattutto se
era un
cliente di quel livello – probabilmente l’aveva
riconosciuto perché anche
Nicoletta era una loro fan –, aveva voglia di fare un
po’ di conversazione io
dovevo accontentarlo, anche per educazione.
Mio padre mi aveva detto la
stessa cosa una volta, solo che Tom proprio non lo mandavo
giù. Comunque feci
uno sforzo e tornai al bancone con il sorriso sulle labbra.
«Cambi in fretta gli stati
d’animo, eh?», disse il chitarrista.
«No», sorrisi dolcemente per poi
sogghignare nel modo più maligno che conoscevo. Guardai
l’orologio appeso alla
parete alle mie spalle, sopra lo scaffale dei liquori e un grande
specchio un
po’ arrugginito sui bordi. «Sono solo contenta
perché tra poco me ne vado a
casa.»
«Non ti sto molto simpatico?»
Mi fermai con la tazza vuota di
Tom fra le mani, il getto d’acqua calda aperto. Alzai lo
sguardo su di lui, mi
aveva sorpresa.
«Beh, io non ti conosco… Sarei
proprio una stupida a giudicarti così in fretta. Magari
è solo una giornata
storta, può capitare a tutti. Chi lo sa se sei il ragazzo
più educato del
mondo», sollevai le spalle sorridendo, questa volta sincera.
Lui ricambiò. Era molto carino
d’aspetto, anche se i suoi modi ancora non mi convincevano.
Forse l’avevo
giudicato negativamente troppo in fretta e non era una cosa bella:
papà mi
avrebbe sicuramente ripresa se mi avesse vista.
«Scusami se ti ho risposto male»,
aggiunsi.
«Non ti preoccupare.»
Il signor Carlos uscì dalla
cucina e mi sorrise annuendo, iniziando a sistemare le sedie sopra i
tavoli.
«Nell, se vuoi puoi andare, me ne
occupo io.»
«Ok. Grazie signor Carlos, a
domani.»
Mi tolsi il grembiule e Tom pagò
la sua cioccolata, poi ci avviammo assieme fuori dal locale, mentre un
treno
passava sopra di esso.
«Abiti lontano da qui?», mi
chiese ad un certo punto.
«Ahm… no.»
«Posso accompagnarti lo stesso?»
«Io non lo so…», mi grattai la
nuca indecisa.
Forse voleva solo riscattarsi e
voleva dimostrarsi più gentile, ma papà mi aveva
sempre detto di non fidarmi
degli sconosciuti e non conoscevo tanto bene Tom da potermi fidare.
Però il suo
sorriso mi convinse e accettai. Così ci incamminammo verso
casa mia.
«Posso farti una domanda?»,
chiesi.
«Sì, dimmi.»
«Che sei venuto a fare dal signor
Carlos?»
«Volevo stare un po’ da solo,
tutto qui. Sai, non è stata una bella giornata.»
«Oh, capisco.»
Morivo dalla curiosità di sapere
della sua giornata, ma non volevo sembrare troppo indiscreta. Inoltre
fare
troppe domande non era educato, e almeno io dovevo dare il buon esempio.
«Ora posso farti una domanda
io?», mi chiese sorridendo obliquo.
«Non ne sono certa, ma… sì,
dai.»
«Nell
è il tuo soprannome, vero? Per cosa sta?»
«Non te lo dirò mai.»
«E dai, io ti ho risposto!»
«Io non voglio risponderti. Non
mi piace molto il mio nome, è infinitamente snob.»
«E quindi tutti ti chiamano
Nell?»
«Sì. O Nell o Nellie, dipende.»
«Posso chiamarti Nellie io?»
«Come preferisci.»
Qualche minuto dopo di una
conversazione piuttosto vaga, arrivammo al portone di casa mia, la luce
che si
accendeva e spegneva ad intermittenza. Un po’ me ne
vergognavo, ma non potevo
farci niente.
«Bene, sono arrivata. Grazie»,
dissi imbarazzata.
«Prego», disse soddisfatto. Aveva
imparato la lezione.
Sorrisi e entrai nel portone
sempre aperto perché la serratura era rotta e poteva entrare
chiunque.
«Allora… Buona notte», dissi
ancora prima di chiudere.
Tom mi salutò con la mano,
sorridendo, e poi io chiusi. Quel ragazzo mi era sembrato molto
arrogante, ma
se gli davi del tempo poteva anche dimostrarsi gentile. Tanto ero
sicura che
non l’avrei più visto, così non rimasi
molto a pensare a lui.
Nella nostra casella di posta
vidi una lettera. La presi corrugando la fronte e scoprii che era
indirizzata a
me: mai nessuno da quando avevo ricominciato mi aveva mandato una
lettera,
perciò ne rimasi piuttosto colpita.
Salii le scale ed entrai in casa
senza aprire quella busta di carta bollata, non prima di essere in
presenza di
Frenzy. Avevamo sempre condiviso tutto, quindi volevo che ci fosse
anche lei.
«Ciao, sono a casa!», annunciai
chiudendo la porta con il chiavistello.
«Ciao Nell! Com’è andata la
giornata?»
La raggiunsi in cucina, dov’era
intenta a cucinarmi qualcosa. Era molto tenera, si prendeva cura di me
come se
fossi sua sorella e avevo fatto un po’ fatica ad abituarmici,
ma era una cosa
bella. Anche io avrei fatto lo stesso per lei in fondo.
«Bene.»
Avevo deciso di non dirle niente
di Tom, almeno per il momento. Tanto sapevo che non sarei riuscita a
nascondergli qualcosa, lei aveva come un sesto senso per quelle cose.
«Guarda, mi è arrivata una
lettera.»
«Davvero? Chi potrebbe essere?»
«Non ne ho idea.»
«Allora c’è solo una cosa da
fare: aprirla.»
Mi misi seduta al tavolo e usai
il coltello per aprirla. Ne estrassi il contenuto, un foglio che
sembrava
essere anche molto pregiato, di quelli che si usano negli uffici
veramente
importanti, e Frenzy venne al mio fianco per vedere.
«È un invito a…», sussurrai
senza
fiato.
«Ad essere presente all’apertura
del testamento di tuo padre», finì la frase lei
per me, annuendo.