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Autore: _Pulse_    24/07/2009    4 recensioni
Nellie è una ragazza come tante, con una vita come tante, ma qualcosa la sconvolgerà totalmente. In più ci si metterà un certo Tom Kaulitz che, diciamo, non faciliterà le cose. E poi ci sarà Frenzy, la migliore amica di Nellie, il signor Carlos, il proprietario della locanda in cui lavora... e molti altri. E' una ff poliziesca e sentimentale, quindi godetevela!!
Genere: Romantico, Triste, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Eccomi di nuovo qui con una nuova ff! (Poveri voi… muahmuahmuah XD) Spero che sia di vostra gradimento, perché a me è piaciuta un sacco scriverla, come tutte le ff che scrivo, ma questa in particolare perché unisce l’ff sentimentale a quella poliziesca. Mi aspetto molte recensioni, mi raccomando!! Ringrazio tutti quelli che seguono sempre le mie ff, ve ne sono davvero grata :)
I Tokio Hotel non sono di mia proprietà (non ancora XD) e questa storia non è scritta con scopo di lucro!!
Bene, non mi resta che salutarvi e dirvi, ancora una volta: buona lettura!
Un bacio, _Pulse_

 

***

 

1. Uno strano cliente

 

È in momenti come questi che mi metto a scrivere. Non so bene perché lo faccio, ma piuttosto che piangere come una bambina, che non sono più da tempo, mi metto a scrivere.
La penna con cui sto scrivendo è una stilografica che mio padre mi regalò qualche giorno prima di morire. È molto importante per me, è l’unica cosa che mi è rimasta di lui, oltre le parole e i ricordi di una vita.
Mia madre? Oh, mia madre mi ha abbandonata quando è morto lui. Mi ha ingannata, prima, e poi abbandonata. Aveva detto che saremmo andate in un bel posto e che avremmo ricominciato; avremmo comprato la casa in campagna che sognavamo tanto io e papà e saremmo state felici. Insieme.
Invece cos’è successo? Mentre andavamo, improvvisamente si è fermata nel bel mezzo di un autostrada sperduta nel deserto e mi ha obbligata a scendere. Poi se n’è andata.
Mamma ha sempre amato il rischio, amava il senso del pericolo e provava uno strano piacere nel sentirsi sull’orlo del precipizio. Per questo non era mia stata molto furba. Almeno questo era quello che pensavo, ma quando mi accorsi che aveva scambiato la carta di credito prepagata che mi aveva regalato papà per i miei sedici anni con una finta, cambiai idea. E me ne resi conto anche quando chiamai la polizia per dire che mi aveva abbandonata in autostrada, proprio come un cagnolino, e non ne ebbi la forza. Mi venne in mente l’immagine di lei che mi sorrideva dolce e mi preparava i biscotti.
Così lei andò a farsi la sua bella vita con i soldi di papà alle Hawaii o in qualche altra isola tropicale. Oppure a Las Vegas, perché no? Lei aveva sempre amato i casinò, il rischio e blablabla. Io invece mi trovai da sola, catapultata in una realtà surreale.
Papà aveva sempre avuto aspettative molto alte per me: mi aveva fatto frequentare le scuole più prestigiose degli Stati Uniti e anche il conservatorio più costoso. Credeva molto in me e nella mia passione per la musica, lui non avrebbe mai voluto che finissi così, ma è successo quello che è successo e lui non ha colpe, a parte sposare mia madre, sia chiaro.
Comunque. Mia madre mi abbandonò in mezzo al deserto, sbattendomi addosso la mia unica valigia (aveva detto di prendere solo il minimo indispensabile perché avremmo fatto acquisti nella nuova città) e il mio amato flauto traverso.
Passai qualche ora sotto il sole cocente, evitando l’idea di incamminarmi.
Mia madre era molto furba: mi aveva lasciata nel nulla più totale, e se anche mi fossi avviata verso la città più vicina ci avrei messo almeno due giorni sempre se non fossi morta prima disidratata.
Così pensai che la cosa migliore da fare era restare ferma per conservare le energie e aspettare che qualche macchina si avventurasse in quel niente per fare l’autostop.
Aspettai per circa due ore, e sulla prima macchina che passò di lì c’erano due ragazzi molto carini che mi diedero un passaggio fino a New York, dove dovevano andare loro. Ero stata fortunata. Soprattutto perché non fecero molte domande ed erano veramente simpatici.
Una volta a New York fui ospitata da una mia cara amica. Fu lei la prima, ed unica, a sapere tutto, anche del fatto che non volevo denunciare mia madre. In poco tempo diventò la mia migliore, ed unica, amica nella mia nuova vita.
Trovai un lavoro della periferia di New York, vicino alla stazione, o meglio sotto la stazione. Tutti i giorni, più o meno a tutte le ore, si sentono passare a tutta velocità i treni sopra le nostre teste e tutto trema, soprattutto i bicchieri, le tazze e i liquori esposti.
Non è il massimo, però mi accontento e il novanta percento di quello che guadagno lo do alla mia amica per aiutarla con l’affitto, anche se lei dice sempre che devo tenermi qualcosa per me. Io le rispondo sempre che il dieci percento è più che sufficiente.
Ero e sono proprio come papà, io, e ne sono orgogliosa. Lui era una delle persone più belle che avevo conosciuto in tutta la mia vita, e quando se ne andò fu una perdita per tutti, non solo mia.

«Nell, smettila di scrivere, ci sono dei clienti!», mi sussurrò all’orecchio facendomi sobbalzare.
Alzai la testa dal mio block notes e lo guardai stupefatta:
«Davvero? Allora stai pur certo che domani nevicherà!»
«Forza, vai a lavorare», mi sorrise bonario prendendomi la spalla.
Il proprietario di quella topaia era il signor Carlos. Era molto simpatico, ormai era parte della mia famiglia. Mi trattava proprio come una figlia e inoltre Nicoletta, sua figlia veramente, che aveva qualche anno in meno di me, era molto carina e gentile, e quando non c’erano clienti ci mettevamo sempre a giocare a poker, ma non con i soldi, bensì con le caramelle che c’erano sul bancone. Suo padre sorrideva sempre e ci dava molti consigli utili, sia a me che a lei, e ogni giorno diventiamo sempre più brave.
«Dove sarebbero questi clienti?», chiesi al signor Carlos, andando dietro il bancone per mettere via il mio block notes e la mia cara stilografica.
Il signor Carlos e Nicoletta erano dell’America centrale, venivano dal Messico, e avevano un accento che mi piaceva molto, oltre alla loro carnagione sempre abbronzata e gli occhi e i capelli scuri come la pece.
Indicò un ragazzo seduto in fondo al locale, testa china sul tavolo, anche se non aveva niente da guardare, né un giornale né niente: guardava il tavolo.
Di primo acchito e così da lontano non lo riconobbi, ma appena mi avvicinai per ritirare l’ordinazione capii chi fosse. Rimasi davvero sorpresa nel vederlo in un posto così di basso livello per uno come lui, ma non accennai niente, nemmeno sulla sua identità. Feci proprio l’indifferente, come se non l’avessi riconosciuto.
In fondo non doveva essere bello essere riconosciuti da tutti. Se era venuto lì voleva dire solo che voleva stare da solo e al riparo dai flash e dalla popolarità. Non doveva essere poi tanto bello nemmeno essere una star di fama mondiale: ok, c’erano un sacco di vantaggi, però la popolarità, il successo, se non si sapevano controllare sapientemente potevano anche risucchiarti e soffocarti. Doveva essere parecchio stressante, ma era il prezzo da pagare per una vita nel lusso.
«Ehm… buona sera, posso esserle utile?», chiesi una volta che gli fui accanto.
Il ragazzo alzò la testa e mi accorsi dei suoi occhi tristi, ma sarei stata scortese a chiedergli che cosa c’era che non andava, così rimasi in silenzio ad attendere una sua risposta, fronteggiando il suo sguardo.
«Una cioccolata calda?», disse accennando un sorriso.
«Non so, deve decidere lei.»
«Ti prego dammi del tu.»
«Ok.»
«Credo che una cioccolata calda vada benissimo.»
Rimasi lì ancora per un po’, poi quando capii che non ci sarebbe stata nessuna forma di cortesia, tipo grazie o per favore, me ne andai imbronciata. La mancanza di educazione era una cosa che non sopportavo, mi dava i nervi.

Il successo deve proprio dare alla testa, pensai.

Andai alla macchinetta e intanto che aspettavo che finisse, senza nessuna fretta visto il comportamento del gentilissimo cliente, vidi proprio lui alzarsi e venire a sedersi al bancone, le braccia incrociate su di esso.
«Come ti chiami?», mi chiese.
«Non sono affari tuoi.»
«Oh beh…», sospirò. «La cordialità non esiste?»

Ah, parla lui!, pensai digrignando i denti cercando il mio sperduto autocontrollo.

«Di solito prima di chiedere il nome degli altri si dice il proprio», puntualizzai.
Ero proprio puntigliosa a volte, proprio come mio padre, ma se lo eravamo lo facevamo solo per il bene degli altri. Potevamo sembrare un po’ presuntuosi a volte a voler avere sempre ragione, ma era solo quello il nostro intento: far sì che gli altri si accorgessero dei loro errori.
«Ok», respirò profondamente. «Io mi chiamo Tom. Tu?»
«Non so se mi va di dirtelo», sogghignai.
La cioccolata era pronta. Mi girai e gliela porsi d’innanzi, sul bancone:
«Prego
«Non c’è di ché», sogghignò lui.
Era davvero antipatico! Tanto mi era sempre piaciuto di più suo fratello Bill, mi aveva sempre ispirato più simpatia, perché a me non piacevano i Tokio Hotel, era Frenzy la fan, la mia amica, che aveva la camera piena di loro poster, persino sopra il mio letto ce n’era uno.
Sbuffai di nascosto e andai a pulire i tavoli visto che eravamo in orario di chiusura e Tom era l’unico cliente. Se fossi rimasta lì a chiacchierare amabilmente con lui avrei finito per litigarci e non volevo avere contro una star.
Tom rimase in silenzio a bare la sua cioccolata e mi fece piacere. Ma appena me ne rallegrai ecco che iniziò di nuovo a parlare. Era sempre così, come una maledizione.
«Allora non me lo vuoi dire come ti chiami?»
«Perché vorresti saperlo?»
«Così, per fare un po’ di conversazione.»
«E se io non volessi fare un po’ di conversazione
«Non so cosa dirti.»
«Il silenzio è ben accetto.»
«Come sei scontrosa.»
«No, sei tu che sei maleducato.»
«Se lo dici tu», sollevò le spalle.
«È stata di tuo gradimento la cioccolata?», chiesi stranamente di mia iniziativa. Non è che se lui era maleducato dovevo esserlo pure io.
«Ne ho assaggiate di migliori.»
«La prossima volta ti conviene andare in qualche locale super lussuoso.»
«Non ho detto nulla di male; io volevo venire qui.»
«Nell, verresti a darmi una mano se non hai nulla da fare?!»
Chiusi gli occhi al sogghigno di Tom, sospirando.
«Grazie mille signor Carlos», borbottai avviandomi in cucina, dove stava lavando i pochi piatti utilizzati durante la giornata.
Alla fine mi aveva chiamata solo per dirmi che il cliente aveva sempre ragione e che se, soprattutto se era un cliente di quel livello – probabilmente l’aveva riconosciuto perché anche Nicoletta era una loro fan –, aveva voglia di fare un po’ di conversazione io dovevo accontentarlo, anche per educazione.
Mio padre mi aveva detto la stessa cosa una volta, solo che Tom proprio non lo mandavo giù. Comunque feci uno sforzo e tornai al bancone con il sorriso sulle labbra.
«Cambi in fretta gli stati d’animo, eh?», disse il chitarrista.
«No», sorrisi dolcemente per poi sogghignare nel modo più maligno che conoscevo. Guardai l’orologio appeso alla parete alle mie spalle, sopra lo scaffale dei liquori e un grande specchio un po’ arrugginito sui bordi. «Sono solo contenta perché tra poco me ne vado a casa.»
«Non ti sto molto simpatico?»
Mi fermai con la tazza vuota di Tom fra le mani, il getto d’acqua calda aperto. Alzai lo sguardo su di lui, mi aveva sorpresa.
«Beh, io non ti conosco… Sarei proprio una stupida a giudicarti così in fretta. Magari è solo una giornata storta, può capitare a tutti. Chi lo sa se sei il ragazzo più educato del mondo», sollevai le spalle sorridendo, questa volta sincera.
Lui ricambiò. Era molto carino d’aspetto, anche se i suoi modi ancora non mi convincevano. Forse l’avevo giudicato negativamente troppo in fretta e non era una cosa bella: papà mi avrebbe sicuramente ripresa se mi avesse vista.
«Scusami se ti ho risposto male», aggiunsi.
«Non ti preoccupare.»
Il signor Carlos uscì dalla cucina e mi sorrise annuendo, iniziando a sistemare le sedie sopra i tavoli.
«Nell, se vuoi puoi andare, me ne occupo io.»
«Ok. Grazie signor Carlos, a domani.»
Mi tolsi il grembiule e Tom pagò la sua cioccolata, poi ci avviammo assieme fuori dal locale, mentre un treno passava sopra di esso.
«Abiti lontano da qui?», mi chiese ad un certo punto.
«Ahm… no.»
«Posso accompagnarti lo stesso?»
«Io non lo so…», mi grattai la nuca indecisa.
Forse voleva solo riscattarsi e voleva dimostrarsi più gentile, ma papà mi aveva sempre detto di non fidarmi degli sconosciuti e non conoscevo tanto bene Tom da potermi fidare. Però il suo sorriso mi convinse e accettai. Così ci incamminammo verso casa mia.
«Posso farti una domanda?», chiesi.
«Sì, dimmi.»
«Che sei venuto a fare dal signor Carlos?»
«Volevo stare un po’ da solo, tutto qui. Sai, non è stata una bella giornata.»
«Oh, capisco.»
Morivo dalla curiosità di sapere della sua giornata, ma non volevo sembrare troppo indiscreta. Inoltre fare troppe domande non era educato, e almeno io dovevo dare il buon esempio.
«Ora posso farti una domanda io?», mi chiese sorridendo obliquo.
«Non ne sono certa, ma… sì, dai.»
«Nell è il tuo soprannome, vero? Per cosa sta?»
«Non te lo dirò mai.»
«E dai, io ti ho risposto!»
«Io non voglio risponderti. Non mi piace molto il mio nome, è infinitamente snob.»
«E quindi tutti ti chiamano Nell?»
«Sì. O Nell o Nellie, dipende.»
«Posso chiamarti Nellie io?»
«Come preferisci.»
Qualche minuto dopo di una conversazione piuttosto vaga, arrivammo al portone di casa mia, la luce che si accendeva e spegneva ad intermittenza. Un po’ me ne vergognavo, ma non potevo farci niente.
«Bene, sono arrivata. Grazie», dissi imbarazzata.
«Prego», disse soddisfatto. Aveva imparato la lezione.
Sorrisi e entrai nel portone sempre aperto perché la serratura era rotta e poteva entrare chiunque.
«Allora… Buona notte», dissi ancora prima di chiudere.
Tom mi salutò con la mano, sorridendo, e poi io chiusi. Quel ragazzo mi era sembrato molto arrogante, ma se gli davi del tempo poteva anche dimostrarsi gentile. Tanto ero sicura che non l’avrei più visto, così non rimasi molto a pensare a lui.
Nella nostra casella di posta vidi una lettera. La presi corrugando la fronte e scoprii che era indirizzata a me: mai nessuno da quando avevo ricominciato mi aveva mandato una lettera, perciò ne rimasi piuttosto colpita.
Salii le scale ed entrai in casa senza aprire quella busta di carta bollata, non prima di essere in presenza di Frenzy. Avevamo sempre condiviso tutto, quindi volevo che ci fosse anche lei.
«Ciao, sono a casa!», annunciai chiudendo la porta con il chiavistello.
«Ciao Nell! Com’è andata la giornata?»
La raggiunsi in cucina, dov’era intenta a cucinarmi qualcosa. Era molto tenera, si prendeva cura di me come se fossi sua sorella e avevo fatto un po’ fatica ad abituarmici, ma era una cosa bella. Anche io avrei fatto lo stesso per lei in fondo.
«Bene.»
Avevo deciso di non dirle niente di Tom, almeno per il momento. Tanto sapevo che non sarei riuscita a nascondergli qualcosa, lei aveva come un sesto senso per quelle cose.
«Guarda, mi è arrivata una lettera.»
«Davvero? Chi potrebbe essere?»
«Non ne ho idea.»
«Allora c’è solo una cosa da fare: aprirla.»
Mi misi seduta al tavolo e usai il coltello per aprirla. Ne estrassi il contenuto, un foglio che sembrava essere anche molto pregiato, di quelli che si usano negli uffici veramente importanti, e Frenzy venne al mio fianco per vedere.
«È un invito a…», sussurrai senza fiato.
«Ad essere presente all’apertura del testamento di tuo padre», finì la frase lei per me, annuendo.

   
 
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