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Autore: Parmandil    10/06/2019    0 recensioni
Semidistrutta nella Guerra delle Anomalie, la Federazione è risorta dalle ceneri, fondendosi con Klingon e Romulani nella più vasta Unione Galattica. Gli Accordi Temporali, imposti agli sconfitti, preservano la Storia dalle interferenze. Ma con tante fazioni assetate di vendetta, occorre qualcuno che vigili sugli Accordi. L’Unione deve forgiare la sua prima generazione di Agenti Temporali.
Dalla nuova Accademia ecco arrivare Jaylah, figlia dei leggendari Chase e Neelah. Destinata a salvare i genitori nella Battaglia di Exosia, la ragazza sogna di diventare Agente Temporale. Ma il suo primo incarico la porta sulla misteriosa Keter, la nave dallo scafo invulnerabile che “ufficialmente non esiste”. Comandata da un Capitano ambiguo e piena di strani, inquietanti ufficiali, la Keter è autorizzata a difendere l’Unione e gli Accordi con ogni mezzo necessario.
Nella sua prima missione, Jaylah è alle calcagna di un imprendibile ladro, lo Spettro, i cui attacchi rischiano di scatenare una nuova guerra contro i Breen. Ma col procedere della missione, la lealtà della giovane sarà messa sempre più alla prova. E quando lo Spettro si toglierà la maschera, Jaylah capirà finalmente chi è il suo vero nemico.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Star Trek Keter Vol. I:

Spettri del passato

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE KETER.

LA SUA MISSIONE È DIFENDERE

GLI ACCORDI TEMPORALI

E L’UNIONE GALATTICA,

CON OGNI MEZZO NECESSARIO.

QUANDO UNA MINACCIA ELUDE

LE CONTROMISURE TRADIZIONALI,

LA KETER ENTRA IN AZIONE.

 


-Prologo:

Data Stellare 2555.341

Luogo: Ammasso Nero

 

   «Il dottor Wolff e la dottoressa Virtanen si rechino immediatamente all’hangar 3. Ripeto, il dottor Wolff e la dottoressa Virtanen si rechino immediatamente all’hangar 3». La voce del computer di bordo era innaturalmente calma, in quella baraonda. Civili terrorizzati affollavano i corridoi, spintonandosi e accalcandosi davanti alle porte dei turboascensori e alle cabine di teletrasporto. I bambini piangevano; alcuni di loro si aggiravano smarriti, senza i genitori. Gli ufficiali della Sicurezza cercavano di mantenere l’ordine, ma le loro espressioni serrate tradivano la tragedia incombente. Ogni pochi secondi l’astronave vibrava, mentre gli scudi assorbivano il fuoco nemico.

   «Papà, mamma! Parla di voi?!» chiese Jack, intimorito da quella situazione paurosa e incomprensibile. Per un bambino di cinque anni, Jack era molto sveglio. Ma l’effettiva portata di una battaglia spaziale, e il pericolo che tutti loro correvano, gli sfuggiva ancora. Se ne stava aggrappato a suo padre, che lo teneva in braccio, e cercava di seppellire il volto contro il suo petto. La mostrina della Flotta Stellare, sezione scientifica, luccicava a un centimetro dagli occhi del bambino.

   «Sì, Jackie, parla proprio di noi» confermò il dottor Wolff, carezzando la testa bionda del figlio. «Solo che... io non posso venire».

   «Hans!» protestò sua moglie, afferrandogli il polso. «Che stai dicendo? Certo che vieni... ce ne andremo tutti assieme!».

   «E chi formatterà il computer?» chiese Hans, fissandola con i chiari occhi penetranti. Si erano fermati in un angolo. Lo scienziato depose a terra il figlio e si raddrizzò, per affrontare la moglie.

   «Ci penserà qualcuno dello staff!» sibilò la donna.

   «Se non lo facessero? Se dimenticassero qualcosa? Marika, il nostro lavoro è troppo importante. Non possiamo permettere che cada in mano al Fronte».

   «Hai sentito gli allarmi? Questo non è il Fronte» disse Marika. In quella l’astronave si scosse con particolare violenza. I tre Umani furono scaraventati contro la parete, su cui l’interfaccia del computer sfrigolò e si spense. Anche l’illuminazione del corridoio venne meno per un secondo o due. Quando l’energia tornò, le luci d’emergenza tinsero l’ambiente di un angoscioso bagliore sanguigno.

   «Mamma!» gridò Jack, spaventato. Si aggrappò alla vita della madre, che lo abbracciò e gli carezzò la testa.

   «Gli scudi hanno ceduto» avvertì il computer, con calma surreale. «Il nemico ci sta abbordando. La Sicurezza si rechi sui ponti da 2 a 9. A tutti i passeggeri: mantenete la calma, recatevi alle navette e alle capsule di salvataggio. Il Capitano ordina di abbandonare la nave. Ripeto: abbandonare la nave. Impostate la rotta per Antos o per Deneb el-Okab e mantenetevi in silenzio subspaziale fino all’arrivo. Non attardatevi a prendere i vostri effetti personali».

   «Fronte o non Fronte, ci hanno attaccati!» esclamò Hans, con l’urgenza nella voce. «E il nostro lavoro non deve cadere nelle loro mani. Cambierà le sorti della guerra! Quindi dobbiamo proteggerlo... anche a costo della vita» aggiunse cupo.

   «Non la sua!» gridò Marika, stringendo disperatamente a sé il figlioletto.

   «No, certo» convenne Hans. «Ecco perché devi portarlo all’hangar. Fuggite col prototipo... non potranno seguirvi».

   «Ti aspetteremo» disse Marika, con voce incrinata.

   «No, per niente» ribatté Hans. «Ogni secondo perso vi mette in pericolo. Andate... se la fortuna ci assiste, ci ritroveremo in qualche avamposto federale». Trasse un phaser manuale dalla cintura e lo consegnò alla moglie. L’arma passò sopra la testa di Jack; era regolata per uccidere. Marika la prese con mani tremanti, conscia che, senza di quella, suo marito era disarmato. Aprì la bocca, ma le parole le morirono in gola.

   «No, papà!» protestò Jack, aggrappandosi alle gambe del padre. «Non andare, sta’ con noi!». Capire che quello era un addio lo terrorizzava più di ogni altra cosa.

   «Mi spiace, Jackie... è anche per te che lo faccio» disse Hans, addolorato. Facendo violenza contro se stesso, si staccò il bambino dalle gambe. Ma poi s’inginocchiò, così che i loro volti fossero quasi alla stessa altezza. Padre e figlio si fissarono un’ultima volta. «Spero che un giorno capirai. Resta con la mamma, fa’ quel che dice... e sii coraggioso, mi raccomando. Ti voglio bene, piccolo». Lo abbracciò stretto, solo per un istante, e lo baciò sulla testa. Poi si rialzò e strinse la moglie.

   «Hans, ho paura» gli sussurrò Marika all’orecchio, piano, perché Jack non sentisse. Calde lacrime le appannavano la vista, scendendo a bagnarle le guance.

   «Anch’io» disse lo scienziato. «Bada a Jackie... e a questo» aggiunse sfiorando un monile, simile a un piccolo cristallo, che la donna portava appeso al collo. «Ora devo andare. Ti amo, Marika... diamine, quanto ti amo!». La baciò sulle labbra. Quando Marika riuscì ad asciugarsi le lacrime, Hans era già sparito. La nave sussultò ancora e Jack le afferrò una mano.

   «E adesso, mamma?» chiese il bambino.

   «Facciamo come ha detto papà» disse la donna, soffocando i singhiozzi. «Stammi vicino, amore». Impugnò il phaser con la mano destra, mentre con l’altra stringeva il braccio del figlio, portandoselo dietro da un corridoio all’altro. Mancava poco all’hangar 3, ma in giro non si vedeva più molta gente. Chi poteva aveva già abbandonato la nave. Gli altri erano stati presi.

 

   Le tre navi trasporto stazionavano immobili fra le volute di gas interstellari blu e violetti. L’Ammasso Nero era una delle formazioni nebulari più antiche della Via Lattea. I numerosi residui stellari collassati emettevano onde gravitazionali e subspaziali, che minacciavano la rotta delle astronavi. I phaser tradizionali subivano ramificazioni ad albero che li rendevano inefficaci e persino le comunicazioni erano fortemente disturbate. Con le armi compromesse e nell’impossibilità di chiamare aiuto, il convoglio federale era una preda perfetta. Non si sarebbe addentrato in quella regione, potendo fare altrimenti.

   Ma la Guerra delle Anomalie, che da cinque anni flagellava la Federazione, non lasciava scelta. Il Fronte Temporale, la potente alleanza votata alla conquista della Galassia, colpiva i mondi federali uno dopo l’altro. Li bombardava con le armi tradizionali, o li infettava con malattie incurabili, o li devastava con letali anomalie spaziali. Questa sorte era toccata anche a Deep Space 3, uno dei più remoti avamposti federali, posto al confine con la Confederazione Breen. Prima che le anomalie distruggessero completamente la stazione, i suoi occupanti l’avevano lasciata su tre grossi trasporti. A causa dello sforzo bellico, la Federazione e i suoi alleati – ora noti come Unione – avevano inviato solo due piccole navi-scorta a proteggerli.

   Non osando prendere la rotta per Izar o Berengaria, che era bloccata dalle anomalie e pattugliata dal Fronte, il convoglio aveva preferito attraversare l’Ammasso Nero, costeggiando lo spazio Breen, nella speranza di raggiungere Antos. Sebbene i Breen avessero un passato di scontri con la Federazione, in questo conflitto si erano dichiarati neutrali. Ecco perché i federali avevano osato bordeggiare il loro spazio. Ma ora le navi-scorta erano distrutte, i loro frammenti si perdevano tra i cupi gas dell’Ammasso. Privati della propulsione e di ogni difesa, i trasporti subivano l’abbordaggio. Molte navette e capsule se ne distaccarono, cercando di mettersi in salvo; furono distrutte con colpi chirurgici o catturate con raggi traenti. Nella confusione e nel terrore, molti degli occupanti non sapevano nemmeno chi li stesse attaccando.

 

   Hans correva a perdifiato, sentendo dietro di sé il ronzio dei phaser federali, misto al sibilo dei disgregatori nemici. La battaglia infuriava sulla maggior parte dei ponti. Le squadre della Sicurezza resistevano eroicamente, ma presto sarebbero state soverchiate. Restava poco tempo. Raggiunse trafelato la sala del processore centrale e digitò il suo codice di sicurezza per accedervi.

   «Dottor Wolff!» lo accolse un collega, alzando il viso tirato dall’interfaccia del computer. «Pensavamo che si fosse già messo in salvo».

   «La sua famiglia?» chiese un altro, vedendo che l’Umano era solo.

   «È salva, spero» rispose Hans, celando la preoccupazione. «Se raggiungono il prototipo, nulla li potrà fermare. Ma io dovevo accertarmi che non restasse nulla al nemico».

   «Abbiamo cancellato tutti i dati» garantì uno scienziato Bynario, dall’enorme cranio glabro. «Peccato che la nostra ricerca finisca così...».

   «Mia moglie ha una copia dei dati» rivelò Hans. «Non pensavate che ci rinunciassi così facilmente, vero? La Federazione deve averli».

   «Allora possiamo andare!» disse uno scienziato, affrettandosi alla porta.

   «Un momento!» lo fermò Hans, e gli requisì il phaser. «Sapete quanti dati si possono recuperare dal nucleo di un computer. È un rischio che non possiamo correre». Aprì un pannello, mettendo a nudo il processore centrale, circondato da sacche bluastre di gelatina bio-neurale. Lo scienziato aumentò la potenza del phaser, mentre i colleghi si appiattivano contro le pareti. Sparò dritto nello scomparto, vaporizzando il processore e surriscaldando le sacche di gel, che si gonfiarono ed esplosero una dopo l’altra.

   «Ecco, ora il segreto è davvero al sicuro» disse Hans, senza scomporsi. «Alle capsule, presto!».

   «Troppo tardi» disse il Bynario, con calmo fatalismo. «Loro sono qui». La porta della sala era blindata, ma qualcuno la stava tagliando dall’esterno, con un’arma ad alta energia.

   «Che vengano» disse Hans, truce. Si appostò dietro a una consolle e tenne sotto tiro la porta, pronto a sparare.

 

   «Mamma, dove andiamo?» chiese Jack, trottando per tenere il passo della madre.

   «Te l’ho detto, all’hangar» rispose Marika, guardinga. Il ronzio delle armi echeggiava per i corridoi, misto a grida e a rumore di gente che correva. Ma per il momento lei non vedeva nessuno; non capiva se si combattesse anche fra loro e l’hangar.

   «Ma è di là!» disse il bambino, indicando una svolta.

   «No tesoro, quello è l’hangar principale» corresse Marika. «Noi dobbiamo andare all’hangar 3. Tu non l’hai ancora visto... è lì che teniamo il prototipo».

   «La vostra navetta?!» chiese Jack, saltellando per l’emozione. Sapeva confusamente che i suoi genitori avevano costruito una navetta speciale, ma ignorava che cosa la rendesse tanto importante.

   «Sì, proprio quella. Se ci entriamo, nessuno potrà farci del male» spiegò la madre con sicurezza. Passò davanti a una capsula di salvataggio, pronta a essere espulsa, ignorandola. Non intendeva portare suo figlio in un guscio così vulnerabile. Sapendo che erano quasi arrivati, affrettò il passo. Svoltò un angolo... e si trovò di fronte un soldato nemico.

   Era un Breen. La tuta corazzata color sabbia e il grosso casco dal muso allungato, col visore verdastro, non lasciavano alcun dubbio. Un ronzio elettronico – il misterioso linguaggio Breen – eruppe dal casco, mentre il soldato alzava il disgregatore. Marika fece altrettanto con il suo phaser.

   Spararono nello stesso momento. Il Breen fu colpito in pieno petto; il raggio aveva una tale potenza che perforò la corazza, uccidendolo all’istante. Ma anche Marika fu colpita, di striscio, nel fianco. La donna gridò, sconvolta dal dolore, e si accasciò a terra.

   «Mamma, mamma!» strillò Jack, terrorizzato. «Ti ha fatto male?!».

   Marika non rispose subito. Sentiva l’odore di carne bruciata e non osava nemmeno guardare la ferita, intuendone la gravità. Sì sentì svenire... e sapeva che, una volta persa conoscenza, non si sarebbe più risvegliata. Ma non poteva abbandonare suo figlio; non in quel frangente. Doveva resistere ancora per qualche minuto. Con una forza che non immaginava di avere, riuscì a rimettersi in piedi, anche se barcollava e piangeva per il dolore lancinante al fianco.

   «Jackie, aiutami» mormorò, reggendosi al figlio per non cadere. «Ci siamo quasi... dobbiamo andare avanti...». Accecata dal dolore, seguì la parete quasi a tentoni, finché raggiunse la porta dell’hangar. Era chiusa, naturalmente. Per fortuna l’interfaccia funzionava ancora, grazie al circuito autonomo che regolava l’ingresso. Marika digitò il codice d’autorizzazione. Ci fu un bip negativo e il portone restò chiuso. Intanto il corridoio risuonava d’esplosioni e grida; il nemico si stava avvicinando.

   La scienziata gridò stizzita e barcollò in avanti, sempre più debole. Si passò il dorso della mano sugli occhi, asciugando le lacrime, e cercò di mettere a fuoco l’interfaccia. I numeri oscillavano davanti a lei, precisandosi un istante per poi tornare sfocati. Ignorando stoicamente il dolore, la donna strinse gli occhi, mettendoli a fuoco. Digitò nuovamente il codice, stavolta senza errori. Il portone si aprì.

   «Vieni, presto!» ansimò Marika, trascinandosi dietro il figlio. La porta si richiuse alle loro spalle, separandoli dalla battaglia nei corridoi. Davanti a loro c’era un’unica navetta, nera come la pece e dalle linee avveniristiche.

   «Ma tu stai bene? Guarirai?» chiese Jack, sempre più spaventato. Non aveva mai visto sua madre in quello stato e intuiva che le sue condizioni erano gravi. «Chiamo il dottore?» si offrì ingenuamente.

   «No! Resta con me» raccomandò Marika, temendo che attirasse l’attenzione dei Breen. Raggiunse il fianco della navetta e posò la mano sul lettore di DNA, che confermò la sua identità. Uno stretto ingresso apparve, materializzandosi come dal nulla. La donna vi spinse dentro il figlio e poi entrò a sua volta. La porta si richiuse subito, sigillando il prototipo. La cabina era lunga ma stretta, con due sole poltroncine davanti al quadro comandi. Con un gemito, Marika si accasciò su quella del pilota. Ogni respiro era un’agonia... le restava poco tempo. Affidandosi alla memoria tattile, più che alla vista offuscata, maneggiò i comandi, attivando i sistemi della navetta. Le interfacce LCARS si accesero di giallo e rosso, ma il resto della cabina restò in penombra. Con un ronzio, la navicella nera si sollevò a mezz’aria.

   «Dobbiamo aprirlo!» avvertì Jack, indicando il portone esterno dell’hangar.

   «Questa navetta è speciale, non le servono porte» corresse Marika, digitando una serie d’istruzioni.

   «L’Occultamento Sfasato è operativo» avvertì il computer. D’un tratto il portone interno esplose, distrutto dalle armi pesanti dei Breen. Un drappello di soldati fece irruzione, con le armi spianate. Non videro alcuna navetta. I Breen indugiarono davanti all’ingresso, regolando i visori su frequenze sempre diverse, per accertarsi che l’hangar fosse realmente vuoto. Tutti i tentativi diedero esito negativo, tanto che alla fine uscirono per aiutare i loro simili, che stavano soffocando le ultime sacche di resistenza.

   «Non ci hanno visti?» si stupì Jack.

   «Non possono vederci» disse Marika, con voce fioca. «Siamo occultati».

   «Come i Romulani?!» si emozionò il bambino.

   «Meglio dei Romulani» spiegò la madre. «Questo è il nostro segreto, l’Occultamento Sfasato. Oltre a renderci invisibili, ci permette di passare attraverso i corpi solidi. Così!». Proiettò la navetta dritta contro il portone esterno, ancora sigillato. Jack spalancò la bocca, ma prima che potesse strillare era tutto finito: la navetta sperimentale schizzava nello spazio, sempre più lontana dal trasporto. I gas viola e blu dell’Ammasso riempivano lo schermo.

   «Hai visto? L’occultamento ci protegge» disse Marika, riuscendo a sorridere debolmente.

   «L’occultamento ci protegge» ripeté Jack, serio e concentrato.

 

   I soldati Breen scortarono i prigionieri verso le loro navi, che avevano attraccato ai trasporti federali. C’erano sia civili che ufficiali della Flotta, tutti piuttosto malconci. Alcuni erano feriti mentre altri, storditi, erano trascinati brutalmente per le braccia, con le gambe che strisciavano per terra. Tra questi c’era Hans Wolff, l’ultimo a cadere fra quanti si erano asserragliati in sala computer. Giunti davanti alla camera stagna, i soldati Breen lo gettarono ai piedi di un superiore, riconoscibile dai dettagli della corazza. La loro conversazione, fatta di acuti ronzii elettronici, svegliò l’uomo.

   «Ma che...» mormorò Hans, tastandosi le braccia doloranti. La memoria dello scontro gli tornò subito ed egli balzò in piedi, pronto a lottare ancora; ma era disarmato. Intorno a lui, molti Breen lo tennero sotto il tiro dei disgregatori.

   «I miei soldati dicono che hai resistito strenuamente» disse il comandante Breen, con una fredda voce metallica, frutto del traduttore installato nel casco. «Hai ucciso molti dei nostri. Eppure sei uno scienziato, non un combattente» aggiunse, accennando alla sua uniforme nera e blu.

   «Di questi tempi, bisogna essere un po’ l’uno e l’altro» disse Hans, fissandolo con occhi iniettati di sangue.

   «Forse dovrei ucciderti, come esempio per gli altri prigionieri» affermò il Breen. Nessuna emozione traspariva dalla sua voce sintetica, né il casco rivelava alcunché della sua fisionomia.

   «Fa’ pure, se credi» ribatté l’uomo, confidando che la sua famiglia fosse in salvo. «Ma dì ai tuoi superiori che questo tradimento non sarà perdonato dall’Unione».

   «L’Unione ha già abbastanza nemici. Non farà nulla che possa inimicarle anche il mio popolo» rispose il comandante Breen, glaciale.

   «Forse non nell’immediato... ma questa guerra non durerà per sempre» obiettò Hans. «Prima o poi il Fronte cederà. E allora sconterete le vostre malefatte».

   «Se anche l’Unione dovesse trionfare, non crediate che mandi qualcuno a liberarvi» disse il Breen a voce più alta, rivolto a tutti i prigionieri. «Abbiamo un alleato nel vostro governo, che insabbierà le indagini. Ve lo dico perché non coltiviate illusioni di salvezza. La vostra esistenza, come la conoscevate sinora, è finita. Ora appartenete alla Confederazione Breen e la servirete fino al termine della vostra vita. Ogni tentativo di fuga sarà punito severamente». Ciò detto si accostò ad Hans, fino a sfiorargli il viso col muso metallico del casco. «Per oggi ti risparmierò la vita, Umano. Sono curioso di sapere quanto durerai in miniera». Indietreggiò e impartì un ordine nella lingua ronzante dei Breen. Subito i soldati condussero i prigionieri sulle loro navi, chiudendoli in cella.

   Affranto ma non ancora spezzato, Hans si lasciò portar via senza opporre resistenza. Il fatto che i Breen lo trattassero come un prigioniero qualunque lo meravigliava, ma in fondo lo confortava: sembravano ignorare il segreto di cui era detentore. Doveva accertarsi che non lo scoprissero mai, o gli avrebbero sondato la mente per impadronirsi dell’Occultamento Sfasato.

   Ciò che lo preoccupava di più era il riferimento a un alleato dei Breen nell’Unione. Qualcuno in grado d’insabbiare le indagini che certamente sarebbero seguite alla sparizione del convoglio. Era stata solo una vanteria, un modo per demoralizzare prigionieri, o c’era del vero? Da quel poco che si sapeva di loro, i Breen non erano soliti mentire... semmai celavano la verità, o parti di essa. E per quanto Hans detestasse l’idea, temeva che il comandante avesse detto il vero. C’era una serpe in seno all’Unione. Forse la stessa persona che li aveva venduti ai Breen; perché ora quell’agguato non gli pareva più casuale.

   Portato in cella, l’uomo fu appeso al soffitto per i piedi, un tipico supplizio Breen. Lo lasciarono a dondolare, con le gambe che dolevano e il sangue che andava alla testa. Hans si sforzò di resistere, pur sapendo che lo aspettavano ben altri tormenti. Non aveva molte speranze per sé, ma volle credere che almeno i suoi cari fossero in salvo.

 

   Invisibile ai Breen, la navetta sperimentale sfrecciò via dal luogo dello scontro. «Ora che facciamo?» chiese Jack. Si era accomodato sulla sedia del copilota e dondolava le gambette, troppo corte per toccare terra.

   «Sto impostando la rotta per Antos» mormorò Marika, piegata sui comandi. «A massima cavitazione ci vorrà solo un giorno. Se avrai fame, lì troverai razioni d’emergenza» disse, accennando a uno scomparto apribile sulla paratia.

   «Quando rivedremo papà?» chiese ancora Jack, non afferrando le implicazioni di quelle parole.

   «Non lo so» disse Marika, la voce ridotta a un sussurro. «Tesoro, io... sto male. Temo che dovrò lasciarti. Quando verranno a salvarti, dì i nostri nomi. Dì che sei figlio di Hans Wolff e Marika Virtanen. La Flotta ci conosce, quindi si prenderà cura di te. E se papà non dovesse tornare, andrai a vivere col nonno Tuomas e la nonna Marjatta. Ti piacciono i nonni, vero?».

   «S-sì... ma io voglio stare con te!» singhiozzò il bambino, cominciando a capire cosa intendeva sua madre. L’abbracciò, come se questo potesse impedire alla morte di portarsela via.

   «Vorrei anch’io» mormorò Marika, stringendo a sé il figlioletto, mentre lottava per resistere ancora qualche secondo. «Un’altra cosa... custodisci questo» aggiunse, levandosi la collanina e mettendola al collo del figlio. «Il cristallo è un’unità di memoria, contiene il nostro lavoro sull’Occultamento Sfasato».

   «Per costruire navette come questa?» chiese Jack.

   «Sì, ma anche... dell’altro» rispose Marika, evasiva. «Pensavo di darlo al Comando di Flotta, ma... temo che quest’attacco non sia stato un caso. Forse qualcuno ci ha traditi. Se è così, sarebbe meglio che il nostro segreto sparisse. Fa’ così... non parlarne agli estranei, consegnalo solo ai nonni. Decideranno loro cosa fare».

   «Solo ai nonni» annuì il bambino. «Ma chi sono i cattivi che ti hanno fatto male?».

   «Breen» rantolò Marika. «Si chiamano Breen. Non fidarti mai di loro, piccolo mio». Con le ultime forze, inquadrò sullo schermo la visuale di poppa. I trasporti federali erano circondati da un nugolo di agili navicelle, dalle forme scheletriche e asimmetriche. Ogni nave Breen era composta da sezioni ricurve come scimitarre, variamente saldate fra loro. Jack fissò quelle navi, imprimendosele nella memoria. D’un tratto la visione s’interruppe: la loro navetta era balzata nel tunnel di cavitazione quantica.

   «Starò attento» promise Jack. «Ma mamma, perché sono cattivi? Perché ci fanno...?». La sua vocetta si spense. Rivolgendosi nuovamente alla madre, l’aveva trovata riversa sullo schienale. I suoi occhi erano ancora aperti, perché Marika aveva voluto fissare suo figlio fino all’ultimo; ma non avevano più vita. Il suo cuore di madre, che l’aveva tenuta in vita tanto a lungo da salvare Jack, non batteva più.

   «Mamma?» sussurrò il bambino, incredulo. L’afferrò per un braccio, scuotendola come se ciò potesse svegliarla; ma ottenne solo di farla rovinare sul pavimento. Jack le s’inginocchiò accanto, ammutolito, impietrito dall’orrore. Il concetto della morte, ancora vago e impreciso nella sua mente infantile, gli divenne d’un tratto chiaro. Capì di averla persa per sempre, senza rimedio. Peggio ancora, capì che sua madre si era sacrificata per lui. E per quell’unità di memoria che gli aveva messo al collo, pensò, tastandosi il finto monile, che luccicava nella penombra.

   Lentamente Jack si rimise in piedi. D’un tratto si sentiva diverso, come se fosse cresciuto di molti anni. In lui si agitavano pensieri cupi, del tutto diversi da quelli che aveva conosciuto finora. «Custodirò il cristallo, mamma, come mi hai chiesto» promise. «E poi, e poi...» balbettò, il dolore già mutato in collera, «... ti vendicherò!» concluse, pur non sapendo come. Dietro di lui, il tunnel quantico proiettava un’irreale luce azzurrognola sulla parete di fondo della cabina. Contro quel bagliore, Jack vide stagliarsi la sua sagoma ingigantita. Era scura, dai contorni indefiniti. Come uno spettro.

 

   
 
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