Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Sarah_lilith    11/06/2019    0 recensioni
Levi aveva amato, aveva vissuto e aveva lasciato andare.
Aveva amato sua madre, aveva vissuto come un vagabondo e aveva lasciato andare la sua vecchia vita.
Aveva amato Kenny, aveva vissuto come un lupo feroce e aveva lasciato andare le sue abitudini.
Aveva amato Erwin ed Hanji, aveva vissuto la vita da soldato e aveva lasciato andare i bassifondi della città.
Aveva amato la sua squadra, aveva vissuto la loro fine e aveva lasciato andare le loro anime.
Poi era arrivato Eren, e il mondo non era più stato lo stesso.
- - -
Una riflessione senza pretese di un Levi troppo concentrato sul non farsi fare del male, da farsene da solo.
[Ereri]
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non sarà il demone a scegliervi, sarete voi a scegliere il vostro demone.
La virtù non ha padrone. E ognuno ne avrà in misura maggiore o minore a seconda che la onori o la disprezzi.
La responsabilità è di chi sceglie. Il demone è senza colpa.

(Platone)

 

 

 

Il peccato di Levi era che aveva amato tanto, nella sua vita. 

Aver amato è stata la costante della sua esistenza per molto tempo. Nonostante quello che i suoi soldati pensavano di lui, non era un’uomo senza cuore incapace di provare sentimenti. Le emozioni c’erano sono ancora, semplicemente non le lasciava uscire. Doveva proteggersi da quello che avrebbe potuto ferirlo, perché se c’è una cosa che aveva imparato in tutti quegli anni era che se sopravvivi hai una chance di farlo ancora.

Amore. Quasi riusciva a sentirsene l’odore sulla pelle, tra le dita, nei capelli.

C’era stata sua madre, se lo ricordava abbastanza chiaramente. C’erano stati momenti piacevoli con lei, quando qualche cliente finiva prima del solito e lei poteva coccolare Levi per farlo addormentare. A volte, però, il suo sorriso stanco a labbra chiuse non era abbastanza, e il bambino si rivolgeva alle altre prostitute che, in qualche caso, gli riservavano un abbraccio e una carezza dolce. L’affetto di una madre è il primo vero amore della vita di un’uomo, quello che non dimenticherà mai e di cui raramente si pentirà, se non per puro orgoglio.

Aveva amato sua madre, e lei era morta sussurrando il suo nome.

C’era stato Kenny, con cui aveva legato in modo strano e diffidente. Quello che alla fine si era rivelato suo zio, l’ultima parte che restava della sua famiglia, e che gli aveva insegnato a sopravvivere. “Se pugnali qualcuno allo stomaco, finirai ammazzato prima che quello ci lasci le penne. Punta alla gola” gli aveva detto “lo fanno anche i lupi”. In quei momenti gli aveva veramente voluto bene, anche più di quanto desiderasse fare. Anche dopo che lo aveva abbandonato. Perché i lupi amano anche il branco che li dimentica a morire in mezzo al freddo, continuando per il suo cammino. Alla fine Levi si era lasciato addomesticare, da bestia era diventato un cane.

Aveva amato Kenny, e lui lo aveva lasciato per andare a crepare.

C’erano stati Erwin e Hanji, che lo avevano aiutato nel suo momento di ripresa più di quanto non volesse ammettere. Loro erano quelli che c’erano stati quando aveva più bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi per non sprofondare nell’abisso nero che lo circondava. Quelli che avevano visto la parte peggiore di lui, quella fragile, e non gli avevano voltato le spalle. Quelli che, se li guardava negli occhi, non distoglievano lo sguardo per far finta di non provare paura. Erwin che gli dava fiducia allenandosi con lui e Hanji che non lo lasciava dormire per farlo ascoltare uni dei suoi assurdi monologhi su quanto fosse vicina a confermare una delle sue teorie. E Levi guardava Erwin e ascoltava Hanji come se non avesse mai visto nessuno muoversi o parlare.

Aveva amato Erwin e Hanji, e loro erano più lontani che mai.

C’era stata la sua squadra, che gli aveva affibbiato Erwin senza consultarlo, come al solito. Una squadra anormale, non equilibrata, difettosa, ma funzionante. Gli ingranaggi avevo preso a girare senza che qualcuno si impegnasse veramente per metterli in moto, poi era stata tutta questione di inerzia. Si erano spinti a vicenda per una strada che li aveva portati a creare un’amicizia delicata, di quelle che non esponi troppo al giudizio pubblico per paura di romperle. Un’amicizia fatta di risate sporadiche e coordinazione in combattimento. Fiducia e rispetto per i propri compagni, ma anche affetto e attaccamento sentimentale.

Aveva amato la sua squadra, e non avrebbe voluto vedere le loro morti.

E dopo così tante perdite, si era stancato perfino di rimanerci male. Si era arreso all’evidenza che in un mondo come quello che lo circondava, l’amore non aveva vita. Nella sua esistenza l’amore non trovava più spazio per nascere e svilupparsi abbastanza da vedere la luce del sole. Andare avanti senza rendersi conto di quello che lo attendeva sul proprio cammino era una scelta più che ponderata. Bastava non soffrire più.

Forse Levi aveva amato troppo, nella sua vita.

Hanji, quando Levi le aveva spiegato di non voler più amare, gli aveva risposto che se fosse stato così semplice, l’amore, il mondo non sarebbe stato un tale casino. 

“L’amore non ha nessun potere magico” aveva spiegato dondolandosi sulla sedia “È una malattia mentale che ti consuma il cuore e l’anima, costringendoti a mettere il bene di qualcun altro, che sia tuo figlio, tua sorella, il tuo amante o chi per loro, prima del tuo” poi aveva riso ed era tornata ad osservare il suo microscopio scuotendo la testa come davanti ad un rompicapo particolarmente complesso. “L’amore non può nulla, è vero, ma le persone innamorate si. Dovresti vedere con che furia la gente difende ciò che ama”. Hanji aveva sorriso e lo aveva guardato fisso negli occhi, ora pieni di confusione. Levi, ovviamente, non l’aveva capita.

Levi aveva amato, aveva vissuto e aveva lasicato andare.

Aveva amato sua madre, aveva vissuto come un vagabondo e aveva lasciato andare la sua vecchia vita.

Aveva amato Kenny, aveva vissuto come un lupo feroce e aveva lasciato andare le sue abitudini.

Aveva amato Erwin ed Hanji, aveva vissuto la vita da soldato e aveva lasciato andare i bassifondi della città.

Aveva amato la sua squadra, aveva vissuto la loro fine e aveva lasciato andare le loro anime.

Poi era arrivato Eren. 

Eran che aveva la dolcezza di sua madre, il coraggio di Kenny, la pazienza Erwin, la vitalità di Hanji e lo spirito della sua squadra.

Eren che gli carezzava i capelli, gli insegnava nuovi metodi per sopravvivere, non distoglieva lo sguardo quando lo guardava negli occhi e lo coinvolgeva in delle vere e proprie conversazioni, anche se quasi a senso unico, dopo aver finito di allenarsi.

Eren che gli sorrideva quando gli riusciva un’acrobazia particolarmente complessa col movimento tridimensionale.

Eren che gli strofinava via il sangue dalle mani con un panno umido, le lacrime agli angoli degli occhi pronte per sgorgare e la parlantina più fastidiosa di sempre.

Eren che, disteso sull’erba, allungava le mani verso il sole e giocava con le ombre tra le sue dita, ridendo e socchiudendo gli occhi per la troppa luce.

Eren che lo baciava a bocca chiusa come i bambini, poi gli passava le mani sulle cosce e gli affondava la lingua in gola, per niente come un bambino.

Eren che arrivava agli allenamenti mattutini senza fiato e ricoperto di sudore per via della corsa dai dormitori al a campo di addestramento, scusandosi con la faccia in fiamme.

Eren che gli aveva raccontato della morte della madre con la voce spezzata e interrompendosi ogni tre parole, scosso da singhiozzi e lacrime che gli rotolavano sulle guance.

Eren che gli si stringeva contro aggrappandosi alle sue spalle come nessuno aveva mai fatto prima, mentre cercava invano di non gridare di dolore durante una rigenerazione post-trasformazione.

Eren che puliva la usa stanza con il broncio più tenero del mondo, le guance gonfie e i sospiri sconfitti mal trattenuti, ma comunque mettendoci impegno.

Eren che gli aveva urlato contro tutta la sua preoccupazione, preso dal sollievo di vederlo salvo dopo una missione, insultandolo con epiteti che il Caporale mai avrebbe potuto nemmeno immaginarsi.

Eren che gemeva al suo orecchio e gli graffiava la pelle cercando di artigliargli la schiena per stringerlo e farsi stringere più forte.

Eren che gli andava incontro con passo marziale e lo afferrava per il colletto della divisa, piegando la testa per poterlo baciare, per poi assumere una tonalità di rossore quasi violaceo e correre via in preda al panico.

Eren che era così giovane ed innocente, buono e giusto, ma riusciva comunque a capire quanto male potesse fare il mondo.

Eren che gli diceva “ti amo” ogni giorno, senza un motivo preciso…


La amo così tanto che mi sembra di essere sempre felice e di poter volare, a volte, Caporale.

Ho un problema, Signore: la amo tanto da star male, credo sia grave.

Anche se la amo non pulirò di nuovo quel porcile!

Ti amo abbastanza da sopportarti, tranquillo. Non ti lascio.

Se non ti amassi, a quest’ora ti avrei già ucciso, sei insopportabile! 

Ti amo davvero tanto, tanto, tanto.

Levi, sei il migliore, ti amo.

Ti amo.


Eren, non morire, non andartene, non allontanarti, non dimenticarmi, non tradirmi, non rinunciare a me, non gettarmi via, non lasciarmi solo…


Per chi mi hai preso, Caporale? Noi del Corpo di Ricerca non abbandoniamo i nostri compagni, e poi, sai… ti amo.

Ti amo tanto.


Io di più.

 

 

ANGOLINO D’AUTRICE
Beh, non so davvero che dire… mi sembra di aver finalmente sviscerato l’argomento più saliente della vita di Levi: la sofferenza derivata dall’affetto che prova verso gli altri. So che probabilmente questa storia appare solo come un flusso disconnesso di pensieri caotici che non hanno un senso logico, ma spero riusciate a seguirne il filo.
Per quanto riguarda il finale, ho volutamente alternato Eren che usa il tu ed il lei, per fare capire in che modo cambia il loro rapporto, da professionale a intimo.
Spero come al solito che la storia vi sia piaciuta e vi prego di avvertirmi sugli eventuali errori, grazie.

Baci a tutti, Sarah_lilith

   
 
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