Libri > Twilight
Ricorda la storia  |       
Autore: Fissie    26/07/2009    0 recensioni
Era inverno, ora, come allora; e lo sarebbe stato per sempre.
Era inverno – il nostro inverno. L’inverno della nostra vita. L’inverno della nostra eternità.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: James, Victoria
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
   >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
L'angolino degli sproloqui inutili
Questa cosa è il frutto di tanti pomeriggi spesi a strizzarmi i bulbi oculari - miopi, miopi come quelli di una talpa, ovviamente miope - davanti allo schermo del pc, invece di studiare. Ma, soprattutto, questa cosa è la fantiction con la quale intendevo partecipare al concorso "Victoria's Last Breath", indetto da uchiha_girl nel lontano (sono una creatura malinconica, essssì) novembre dello scorso anno. La cosa ridicola è che sono riuscita a completare la fanfiction soltanto il giorno successivo alla data di scadenza. Sì, la standing ovation ci sta tutta XD
Beh, che dire, le recensioni sono particolarmente gradite nel caso di questa long-fic, perchè scriverla non è stato facile. Ovviamene se avete tempo e voglia ^^
Okay, in conclusione... dedico questa storia alla giovane pulzella che ha indetto il concorso, cioè la sopracitata uchiha_girl. Per la pazienza dimostrata nel sopportarmi e per il premio fuori contest - quello di rompibolle, che, modestia parte, credo di aver meritato (e me ne vanto pure!) - che mi ha accordato, in onore alla sfilza di post coi quali l'ho torturata sino allo sfinimento, previo poi ritirarmi dal contest. Ti ringrazio per non aver sporto denuncia!
Infine, vorrei fare un'ultima precisazione. Probabilmente - ma forse è solo una mia paranoia - nel corso della fanfiction i personaggi potrebbero risultare un po' OOC, per questo tengo a sottolineare che la storia è ambientata molti anni prima delle vicende narrate nei libri della Meyer ^^
Adesso vi saluto davvero!
Vi auguro una buona lettura!





Capitolo 1

1906, Upleadon, Gloucestershire


Una spessa coltre di neve ricopriva la campagna del Gloucestershire, quell’inverno. Soltanto gli alberi, raggrinziti e spogli, spezzavano la monotonia di quel candore. Si issavano tutti ritorti e curvi, come vecchi spossati dall’età, coi rami nodosi protesi verso l’alto. Il cielo, di un buio tetro spolverato solo dal fumo caliginoso delle nuvole, sembrava curiosamente riflettere il negativo del paesaggio sottostante.
Il giovane, con gli scarponi che affondavano nella neve fino al ginocchio, si trascinava a falcate urgenti attraverso la campagna, in direzione dell’edificio diroccato che dominava l’altura. La bassa chiesa parrocchiale di Upleadon era stata abbandonata da parecchi decenni, da quando una porzione del transetto sud, cedendo al logorio delle intemperie, si era rovinosamente accasciata su se stessa.
Il portone di pesante legno massiccio cigolò sinistramente quando lo spinse verso l’interno. Il ragazzo si infilò lesto nello spiffero e poi, immediatamente, lo richiuse, accogliendo il tonfo con un sospiro di sollievo. La superficie ruvida e irregolare del legno gli graffiò i palmi quando si lasciò scivolare verso il basso, con le spalle accostate al portone.
Era salvo?
Forse.
Ma non sapeva quanto lo sarebbe stato lì dentro e, soprattutto, per quanto. Prima che lui lo stanasse. Non era avvezzo alla fuga; la sua prerogativa era la caccia. Per questo il ruolo della preda lo rendeva terribilmente inquieto. Con la testa ancora china, levò lo sguardo sulla grande navata centrale che costituiva il nucleo dell’edificio, sbirciando attraverso le ciocche unte dei suoi capelli lunghi. In altre circostanze, il trovarsi in un luogo del genere non lo avrebbe certo rincuorato. La penombra avvolgeva come un manto la nuda pietra del pavimento e delle pareti spoglie, tingendo l’ambiente di un tetro blu scuro. Due file di robuste colonne, massicce e tarchiate, ritagliavano le navate laterali; sopra quella destra erano stati allestiti impalcature e tendaggi, forse in previsione di un restauro che non era mai avvenuto.
Un silenzio sacrale impregnava l’aria, rendendola quasi irrespirabile e viscosa.
Crack.
Un rumore secco, come quello di un legnetto spezzato, ma amplificato dall’eco cavernosa, lo fece sobbalzare e fu subito in piedi.
«C’è qualcuno?», urlò, alla fitta penombra che lo circondava e sovrastava. Vagò con lo sguardo tra le panche di legno della navata centrale e scandagliò gli interstizi delle cappelle, ai lati delle navate minori, ma l’oscurità gli impediva di vedere alcunché.
Infilò una mano nella tasca interna del pastrano, estraendone una scatola di fiammiferi, e ne accese uno. La debole luce prodotta dalla capocchia di fosforo non era sufficiente a illuminare un raggio superiore a pochi centimetri e le torce appese alle pareti erano troppo pregne di umidità perché il fuoco potesse attecchire alla miccia.
Avanzò comunque di qualche passo, circospetto, i sensi tesi come corde di violino, pronte a vibrare al minimo stimolo.
Un fruscio.
Si voltò di scatto in direzione del suono, gli occhi ridotti a due fessure sottili per scrutare nel buio. Qualcosa parve sgusciare lesta dal braccio del transetto rimasto intatto, scivolando come un’ombra dietro l’altare dell’abside.
L’indole predatoria si destò nel petto giovane, istigandolo a lanciarsi d’istinto in una corsa verso il polo opposto della navata. Rallentò solo in prossimità del presbiterio. Quindi procedette con prudenza, muovendosi accorto per carpire ogni nuovo eventuale spostamento. Era vicino al punto in cui aveva visto sparire l’ombra. Aggirò guardingo il piano sopraelevato dove il prete un tempo doveva aver celebrato i riti liturgici. Già pregustava l’eccitazione ferrigna che avrebbe appagato la sua sete predatoria una volta stanato ciò che si nascondeva nell’edificio, qualunque cosa fosse – o chiunque. La mano, infilata nella tasca, stringeva saldamente il manico di un coltello.
Così svoltò l’angolo, ma lo stretto corridoio dietro l’altare era vuoto.
Il rilascio improvviso della tensione lo lasciò prosciugato, con una voragine al posto del petto che fu presto colmata dal nervosismo. Stava diventando paranoico.
Sbuffò, esasperato da quella sconosciuta condizione di vulnerabilità.
Non sarebbe dovuto scappare. Il boss lo avrebbe fatto a fette e poi avrebbe dato le sue ossa in pasto ai cani. A cosa diamine stava pensando quando aveva deciso di disertare l’incarico?
Lui, il segugio, ridotto a scappare come un coniglio.
Diede un calcio liberatorio alla parete.
Ecco come si finiva quando si dava troppo ascolto alla voce della coscienza: pazzi, nel migliore dei casi, oppure morti. Lui era prossimo al primo, ma presto avrebbe varcato la soglia del secondo stadio.
Tornò a passi gravi nella navata centrale e si lasciò scivolare con un tonfo su una delle numerose panche disposte in fila e un tempo destinate ai fedeli. Aveva appena disteso la schiena contro il legno pregno d’umidità, quando un altro rumore allertò nuovamente i suoi sensi, rinfocolando il sospetto di non essere l’unico abitante dell’edificio. Si drizzò a sedere, coi muscoli tesi e irrigiditi…
...poi un gatto sbucò da una colonna del porticato, nero come un’ombra, e quasi altrettanto silenzioso. «Fammi capire… quindi eri tu?», lo rimbrottò il giovane, abbandonandosi mollemente contro lo schienale. Era sfinito. E si era fatto fregare da un gatto. Per fortuna nessun testimone oculare avrebbe potuto compromettere la sua stimata – che impagabile ironia – reputazione, diffondendo voci diffamanti sul suo conto.
Il micio avanzò con movenze sinuose e felpate, puntando indolente verso la panca su cui era stravaccato. Quando la raggiunse, vi balzò sopra, a poca distanza da lui.
Il giovane aggrottò le sopracciglia spesse, sorpreso dall’impudenza della bestiola. Un gatto socievole, ma guarda un pò.
«Che ci fai in una chiesa dimenticata dal Signore?», gli chiese. Ottimo. Stava cercando di intrattenere una conversazione col gatto. Poteva ben dire, a ragione, che il primo stadio – quello della pazzia – era stato raggiunto.
Ma, se il gatto avesse potuto rispondere (e, quindi, se lui avesse del tutto perso il senno), avrebbe avuto motivo di rigirargli la domanda.
Il volto cereo del suo capo prese forma nella sua mente, sottoforma di una nebbiolina sbiadita e galleggiante, non appena richiamò le ragioni della sua defezione. Un brivido gli percorse la schiena quando ne incrociò gli occhi nerissimi come il carbone, e lo spinse a scacciare febbrilmente la visione funesta.
Pesce grande mangia pesce piccolo, era una legge ineluttabile della natura di cui si era avvalso spesso; ma nel ruolo del pesce più grande.
Allungò cautamente una mano verso il dorso del gatto, che seguì con lo sguardo il suo movimento senza manifestare alcuna reazione contrariata. Incoraggiato da quella tacita approvazione, azzardò allora una carezza, alla quale, notando che il gatto non si ritraeva, ne seguitarono una seconda, e una terza. Finì col prendere confidenza con il pelo dell’animale e non seppe quando, cullato dal suono monotono delle sue fusa, abbandonò il capo sullo schienale e si addormentò.

L’indomani il gatto non c’era più, ma trovò del pane e del prosciutto al suo posto.


Scivolai nella notte lasciando metà del mio pasto sulla panchina. Mi soffermai solo un istante a scrutare il viso di quello sconosciuto appena illuminato dal chiarore opaco della luna. Non era bello, ma c’era qualcosa, chissà dove – forse nella curva del mento sfuggente, nella ruga sottile della fronte contratta in un sonno agitato, nelle palpebre appena tremanti, o nella linea delle labbra dischiuse; qualcosa che mi colpì profondamente. Mi sembrò di riconoscere qualcuno cercato da tempo, benché lo vedessi allora per la prima volta.
E non avevo mai creduto nel destino, ma tant’è…
Col senno di poi seppi che non sarei dovuta uscire allo scoperto, che avrei dovuto lasciare quel rifugio e non farvi ritorno, scappare lontano.
Ma non mi avevano mai tradita, i miei sensi.
Ero allenata a percepire il pericolo; lo sentivo vibrare sotto le dita, attraversare ogni infinitesimale fibra del mio corpo come una scarica elettrica di variabile intensità. Ogni circostanza emanava la propria, si modulava sulle persone come un calco. Il fatto che non sentissi il pericolo accanto a lui doveva essere esso stesso un segnale di pericolo. Le eccezioni sono figlie dell’inganno.
Eppure quella notte fui sorpresa. Volli fidarmi dell’istinto felino - l’unico che considerassi più competente del mio in materia di pericolo. L’audacia di quel gatto, che si era avvicinato al tipo da cui poco prima io ero fuggita, mi sollecitò a fare altrettanto.
Fui spinta dalla curiosità.
La curiosità uccise il gatto, si dice. Nel mio caso… uccise me.


***


Il cibo continuò ad apparire misteriosamente non appena il giovane abbassava la guardia. Talvolta era una focaccia, o un frutto, o un pezzo di formaggio, accompagnati persino da bevande.
Non c’era bisogno di un indovino per avere l’assoluta certezza che non si fosse mai sbagliato, fin dal principio; c’era qualcun altro nell’edificio sconsacrato.
Avrebbe potuto fingere di dormire e coglierlo in fallo. Era persino capitato, una volta, che gli passasse accanto, mentre credeva che stesse dormendo profondamente e invece si era appisolato appena. Aprire gli occhi sarebbe stato facile; eppure la gentilezza di quell’individuo gli suscitava una forma di rispetto del tutto nuova e sconosciuta. Il sapore della gratitudine era dolce; un balsamo per la sua lingua abituata all’acredine e al disprezzo.
«Grazie», disse, una volta, seduto sulla medesima panca del primo giorno; gli occhi rivolti verso l’alto, nell’incertezza – sembrava stesse parlando con Dio e, oh no, quello non lo faceva da un pezzo. Che gli avesse mandato un angelo per redimerlo? A Dio piacciono le missioni impossibili, pensò, mentre l’eco della sua voce veniva assorbita dalla pietra, senza ottenere risposta. Bè, che stesse salvando la sua anima o meno, di certo gli stava salvando la pelle. Senza quel tipo misterioso che provvedeva al suo fabbisogno sarebbe dovuto uscire allo scoperto, esponendosi al rischio che lui lo trovasse.
In certi momenti avrebbe voluto chiedergli chi fosse, cosa volesse, che scopo avesse, ma soprattutto… perché. Già, perché, una di quelle domande inesplicabili sulle quali generazioni di filosofi si erano arrovellati per secoli! Non era mai appartenuto a quel tipo di gente dedita alla caccia dei perché – perché di questo, perché di quello; era avvezzo a un altro tipo di caccia, quella che odorava della paura delle vittime e di adrenalina – la sua. Ad ogni modo era una domanda ingombrante e temeva che la sua indiscrezione potesse farlo scappare via.
Certamente era strano, per lui, prestare attenzione a che i suoi comportamenti non urtassero gli altri. Si sentiva come un gigante con un oggetto particolarmente fragile tra le grandi mani rozze: goffo, impacciato, e tremendamente sciocco, in un grossolano tentativo di delicatezza.
Tossicchiò, poi azzardò un sonoro «ehi» e attese che l’eco si consumasse. «Prima, ti ho detto grazie.»
Non si aspettava davvero una risposta. Voleva solo pungolarlo un po’, ma, soprattutto, assaporare fino in fondo l’assurdità di quella situazione.
Avvenne, però, qualcosa di assolutamente inaspettato: un pezzo di pane piovve dall’alto e colpì la panca su cui era seduto. «Ma allora mi senti!», esclamò, sorpreso.
Un altro pezzo di pane gli sfiorò l’orecchio.
«Devi perfezionare la mir…». Non ebbe il tempo di completare la frase, perché un colpetto sulla nuca gli segnalò che questa volta il suo enigmatico compagno aveva centrato il bersaglio.
«Okay, okay», si arrese, ridacchiando. «Sei bravo.»
C’era qualcosa di strano nel modo in cui il gorgoglio rauco della risata appena abbozzata gli aveva solleticato la gola. Era una sensazione remota, qualcosa che non provava da tempo. Non era così rilassato da un pezzo, benché si trovasse in una lugubre chiesa sconsacrata per nascondersi dalla persona che voleva ucciderlo. E nel modo più truculento possibile. Questo la diceva lunga sul tenore della sua vita precedente.
Ad ogni modo, non poteva fare a meno di pensare che fosse merito di quello sconosciuto se non era crollato sotto il peso della tensione nervosa. In quella situazione alienante era difficile mantenere saldo il nesso con la realtà esterna.
«Sei per caso il mio angelo custode?», gli chiese, la mattina seguente al giorno in cui pezzi di pane cominciarono a piovere dal cielo.
L’insolita risposta atterrò tra i suoi capelli. Il giovane raccolse il tozzo di mollica, e iniziò a giocarci distrattamente; la schiena curva e i gomiti poggiati sulle ginocchia.
«Era da tanto che non entravo in una chiesa, sai?», disse, con una simulata leggerezza nel tono, mentre una pioggia di briciole cadeva dalle sue dita, sparpagliandosi sulla pietra del pavimento. «Certo, questa non è una vera e propria chiesa, ma ti chiedo di abbuonarmela. I grandi viaggi iniziano tutti da un unico passo, si dice così, no? Chissà che tra una decina d’anni non avrò una chierica in testa», ridacchiò, disegnando un cerchio immaginario sulla sommità del capo, laddove aveva immaginato la rasatura circolare tipica dei frati. «Nah, dici che non mi donerebbe? Sono d’accordo, pensa che brutto.»
Tacque e per alcuni minuti cadde il silenzio.
Il vento infuriava all’esterno e gli spifferi violenti che penetravano dalle rovine del transetto facevano turbinare vorticosamente il pulviscolo nei quadrati di luce ritagliati sul pavimento dalle vetrate.
«Ho fatto molte cose di cui non vado fiero… di cui nessun uomo andrebbe fiero. Nessun uomo sano di mente, perlomeno. Non che sia invece motivo d’orgoglio averle fatte lo stesso, pur considerandole insane. Forse è più malato fare qualcosa di orrendo con la coscienza che lo sia, che farlo pensando di essere nel giusto, no?», esternò, in preda a una sorta di impeto confessionale del tutto irragionevole: non si era mai dovuto giustificare con nessuno, lui, e di certo non avrebbe immaginato di iniziare a farlo con uno sconosciuto, nemmeno se fosse stato un tipo fantasioso e di tanto in tanto avesse vagheggiato delle assurdità, come i pazzi.
«Ma poi, che differenza c’è? Sei quello che fai, punto. Le buone o le cattive intenzioni sono soltanto fronzoli, il nocciolo resta lo stesso: che puoi decidere di fare quella cosa oppure di non farla, e questo determina che razza di persona sei», continuò, registrando, nel frattempo, un debole fruscio, che tradiva uno spostamento del suo invisibile interlocutore.
«Io ho piantato in asso la mia vecchia vita. Avevo una bella tenuta di campagna, un letto sfarzoso con lenzuola di seta, il conforto di un camino, un’intera vita che si dispiegava davanti a me, oziosa come il fumo denso e amaro dei miei sigari. Potevo continuare a vivere così, e invece… e invece sono venuto qui a farmi gelare le chiappe. Questa è la fregatura del diventare una brava persona: che la bontà cammina a braccetto con l’idiozia», rise, ma di una risata amara che aveva del liberatorio.
Il suo benefattore doveva essersi avvicinato di molto. Non poteva determinare esattamente dove si trovasse, ma avvertiva il suo respiro sommesso. Immaginò la sua aura vitale, il calore corporeo che emanava quella presenza invisibile e impalpabile, eppure così intensa da indurlo a una confessione che non aveva mai concesso nemmeno a se stesso.
Nel buio di quella chiesa, nel silenzio sacrale di quell’edificio ormai spoglio delle sue funzioni sacre, si sentì improvvisamente meno solo.

La tua risata era gutturale e rauca, come se non ci fossi avvezzo, ma io ne sorridevo, con un calore che si irradiava nel petto ad ogni tuo sbuffo. Mi compiacevo del suono della tua voce, e dell’intonazione particolare del tuo accento; me ne beavo come un assetato di un ruscello, e più l’ascoltavo più non riuscivo a farne a meno.
Mi faceva sentire sciocca stare lì nascosta, dietro una colonna a così pochi metri da te, solo tacendo e ascoltando. Per la prima volta qualcuno aveva catturato la mia attenzione; la cosa avrebbe dovuto spaventarmi: nessuno era mai riuscito a catturare nulla di me.
Mi giustificavo ripromettendo a me stessa che non sarei mai giunta al punto di varcare il confine tra fuga e non-ritorno. Non avrei messo a repentaglio il mio equilibrio. Stavo solo soddisfacendo un capriccio.
Non sarei andata oltre, mi dicevo.
Avevo vissuto quindici anni mescolandomi all’ombra. C’era una sola persona al mondo che fosse a conoscenza del mio esistere: io.
E tanto bastava, perché non avevo mai sofferto di solitudine. Sarebbe stato come soffrire dell’aria.
Ma questo era prima che iniziassi a respirare i tuoi respiri; questo era prima che la mia e la tua solitudine divenissero semplicemente la nostra.

La prima volta che oltrepassai il limite fu quando tu mi dicesti: «Mi chiamo James. Tu?»
Ed io, sorprendendo persino me stessa, risposi.
«Victoria»
   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Fissie