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Autore: Ghostclimber    14/07/2019    3 recensioni
Rukawa ha ricevuto la tanto agognata convocazione per giocare a basket negli Stati Uniti.
E ha ricevuto anche un metaforico pugno nello stomaco.
Genere: Fluff, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti!

Non chiedetemi da dove arriva questa one-shot, non era assolutamente prevista e non avevo la minima intenzione di scriverla.

È arrivata da sola, grazie ad uno dei brani più dolci dei Kiss (che adoro), Forever.

Stranamente, questa canzone è priva di riferimenti al sesso, probabilmente li avevano già utilizzati tutti nelle altre canzoni (“Tu premi il grilletto del mio cannone dell'amore”, “Avanti, lecca il mio bastone candito”, “Mangialo come un pezzo di torta”).

Ascoltatevi la canzone qui, che merita. Anche Black Diamond, soprattutto l'assolo di basso.

Un grazie di cuore a tutte le persone che mi stanno a fianco, nonostante io sia una psicopatica che passa dalla modalità Rukawa alla modalità Ore Wa Tensai Desu in meno di un millesimo di secondo.

 

 

 

Per la mia amica Ilaria. You don't have to go it alone.

 

 

 

 

 

-Rukawa?- Ayako ridacchiò, sentendosi un po' sciocca per come stava flirtando spudoratamente con Miyagi ma incapace di smetterla. Lo sguardo adorante di quel ragazzo la faceva sentire bella, speciale e...

No.

Non era adorazione, quella nei suoi occhi.

Quella, la vedeva ogni santo giorno, e la detestava, perché la faceva sentire un mero oggetto sessuale.

Quella che vedeva negli occhi di Miyagi era felicità.

Lui era felice anche solo di starla ad ascoltare, non chiedeva nulla di più, non l'aveva mai fatto.

Ayako si vide attraverso gli occhi del neo capitano e vacillò.

-Ayako, va tutto bene?- chiese Miyagi, preoccupato.

-Solo... solo una cosa che mi è venuta in mente...- tentò un sorriso, e nella sua mente si vide come il famoso arco di Hiroshima, rimasto in piedi anche dopo la deflagrazione della bomba atomica, -Stavo dicendo?- chiese, per cercare di non pensare troppo alla consapevolezza che si stava facendo in strada dentro di lei.

-Qualcosa riguardo a Rukawa...- rispose Miyagi, sollecito e più che disposto a proseguire una conversazione trita e ritrita, se quello avesse potuto aiutare la sua splendida Ayako.

-Ah sì. Dicevo, Rukawa fa tanto il duro, ma un giorno crollerà. Ne vedremo delle belle, vedrai.- Ayako si insultò mentalmente per la ripetizione, lei non era proprio il tipo di persona da impappinarsi nelle parole, ma quel giorno pareva essere decisamente diverso dal solito. Miyagi la guardò, confuso; Ayako non seppe trattenersi e gli fece un occhiolino, poi si voltò di scatto e tornò alla panchina, dove si premurò di seppellire il proprio rossore dietro ad un quaderno zeppo di appunti che non avrebbe saputo decifrare nemmeno sotto tortura. Il coach Anzai ridacchiò, e Ayako trattenne a stento un gemito di imbarazzo.

 

Per mesi, non accadde nulla.

Poi, Rukawa ricevette una lettera.

 

-Ohi, Kitsune!- sbraitò Sakuragi, sgomitando per raggiungere la classe di Rukawa; si bloccò un attimo, vedendo il compagno di squadra seduto al banco, a rigirarsi tra le mani un mazzo di fogli con il logo molto ufficiale di un'università americana.

-Allora è vero...- soffiò Sakuragi, ignorando le proteste degli altri studenti, che aveva con la solita veemenza spintonato e schiacciato contro muri ed elementi di arredo scolastico.

Le mani di Rukawa tremarono, stropicciando i fogli.

Il suo volto si levò con estrema lentezza, e Sakuragi indietreggiò di un passo. C'era solennità, in quel gesto, così tanta che per un istante temette che Rukawa lo avrebbe ricoperto di tutti gli insulti che non aveva espresso in due anni.

Invece, si ritrovò ad incontrare uno sguardo vacuo, perso e un po' spaventato.

A dirla proprio fuori dai denti, ebbe l'impressione di incrociare gli occhi di un bambino perduto in mezzo al bosco, che sente una voce urlare da lontano, suppone siano solo gli strilli acuti delle strolaghe in qualche palude vicina ma teme qualcosa di molto, molto peggio.

Sakuragi indietreggiò ulteriormente e tornò nella propria classe.

 

“I gotta tell you what I'm feeling inside,

I could lie to myself, but it's true.”

 

L'impassibile Rukawa Kaede era terrorizzato.

Aveva sofferto, imprecato e sanguinato per raggiungere l'obiettivo di andare negli Stati Uniti a giocare a basket, e ora che gli era arrivata una proposta di borsa di studio si era reso conto di una cosa sconcertante.

Lui, in America, non ci voleva andare.

Visualizzava quel paese come un soffocante agglomerato metropolitano interrotto da zone desertiche, quasi interamente popolato da folli.

Attese, fuori dalla palestra, che i compagni di squadra terminassero l'allenamento, lo stesso che lui aveva saltato, per la prima volta in tutta la sua carriera di giocatore, in attesa di avere l'amata palestra dello Shohoku tutta per sé.

Contò i giocatori che uscivano uno ad uno, da Sakuragi che si allontanava lentamente, parlando ad un tono di voce stranamente pacato con il suo amico Mito, uno per uno fino a Miyagi e Ayako, che uscirono chiacchierando fitto tra loro; il capitano chiuse la porta con un grosso lucchetto, ma Rukawa non se ne pose il problema. Sapeva benissimo che sul retro, in corrispondenza della grondaia, c'era una finestra che non si chiudeva bene. Era sgattaiolato dentro la palestra almeno una dozzina di volte utilizzando quella finestra.

Camminò a passo svelto verso il retro della palestra, con i Kiss sparati a palla negli auricolari.

Paul Stanley, con quella sua voce nasale e suadente, cantava:

 

“There's no denying when I look in your eyes,

girl I'm out of my head over you...”

 

E il basso di Gene Simmons, sempre ruvido e preciso, faceva da accompagnamento al battito del cuore di Rukawa, accelerato per lo sforzo e...

...ma sì, Rukawa, ammettilo, almeno con te stesso...

...e per la paura.

 

“I lived my life believing all love is blind,

but everything about you is telling me this time is

Forever, this time I know and there's no doubt in my mind...”

 

Per sempre.

Se fosse andato in America, le cose sarebbero cambiate per sempre.

Non sarebbe più stato il giocatore più acclamato della prefettura, al suo posto ci sarebbe stato Sendoh, o forse addirittura Sakuragi, che nell'ultimo campionato era stato uno dei best five, cosa che aveva reso le successive settimane un inferno per tutto lo Shohoku.

Rukawa aveva comprato dei tappi per le orecchie; il capitano, più saggio, aveva comprato del nastro isolante, e alla prima occasione aveva legato Sakuragi mani e piedi in un armadietto, e gli aveva tappato la bocca con altro nastro isolante. L'aveva liberato solo due ore più tardi, dopo avergli estorto la promessa che l'avrebbe piantata di vantarsi.

Rukawa sorrise, poi vacillò.

Solo l'istinto gli concesse di aggrapparsi all'ultimo istante al bordo della finestra, salvandolo da una caduta potenzialmente pericolosa per le ossa.

“Ma perché non ti spezzi una gamba?” parole piene di astio, rigurgitate da una bocca invidiosa, che ormai risalivano a un anno e mezzo prima.

Rukawa oltrepassò la finestra, atterrò con garbo su un gradino degli spalti e si riavviò i capelli.

 

“Forever, until my life is through,

girl I'll be loving you forever...”

 

Rukawa troncò le parole di Paul Stanley pigiando un pulsantino sul lato destro del lettore mp3.

Era una canzone stupida, tra l'altro, anche se aveva un bel tiro.

Si ripromise di ricordarsi di passare alla traccia successiva, Black Diamond, e ricacciò indietro la sensazione di essere in fuga da qualcosa pensando al magistrale assolo di basso della canzone.

Scese i gradini, si spogliò rapidamente, prese un pallone e cominciò a palleggiare.

 

Sakuragi si arrampicò sulla grondaia, maledicendo la propria testa di cazzo per avergli fatto dimenticare di nuovo il portafoglio nell'armadietto dello spogliatoio.

Ignorò Rukawa, che tirava palle verso il canestro come un invasato, prendendosi solo il disturbo di dargli dell'arrogante per aver saltato gli allenamenti e corse senza farsi notare nello spogliatoio.

Recuperò il portafoglio, e già che c'era approfittò per spegnere la caldaia; ultimamente, Ayako e Miyagi erano distratti di brutto, avrebbe dovuto far loro un bel discorsetto. Sicuramente, il parere del Tensai li avrebbe riportati alla ragione.

 

Mezz'ora dopo aver cominciato, Rukawa sedeva sul parquet, tremante e sconvolto.

Non uno dei tiri che aveva eseguito era entrato in maniera pulita nel canestro, parecchi non si erano nemmeno avvicinati al ferro.

Sembrava quasi vittima di una maledizione.

Sbatté i pugni a terra, fremente, con violenza, fino a farsi sanguinare i pugni, desiderando di avere sotto di sé Sakuragi, il suo eterno partner di lotte, qualcuno che rispondesse, che gli facesse provare dolore, che lasciasse spurgare ogni sensazione negativa.

Si sentiva così bene, dopo aver fatto a botte con Sakuragi.

Era l'unica cosa, a parte il basket, che gli dava la sensazione di essere vivo.

Black Diamond, dicevamo! Bellissima canzone. Brano storico, con la voce di Paul Stanley che apre in acustico e Peter Criss che prosegue, in un tono più duro e sgraziato e forse proprio per questo più rock'n'roll.

Rukawa, gemendo senza nemmeno accorgersene, raggiunse il borsone, recuperò il lettore mp3 e lo accese con dita tremanti. Si appoggiò al muro, scivolando fino a sedersi a terra, e premette un pulsante per saltare la fine di Forever.

Invece di premere forward, alzò il volume.

 

“I hear the echo of a promise I made,

when you're strong you can stand on your own...”

 

-Ah.- disse Rukawa a mezza voce nella palestra vuota, realizzando di colpo che Paul Stanley stava cantando a lui, e a lui soltanto.

La promessa che aveva fatto a se stesso, quella di diventare il numero uno del mondo nel basket, stava svanendo con la rapidità di un treno che esce dalla stazione aumentando la velocità poco a poco, mentre al suo posto si faceva viva la consapevolezza di essere un ragazzo appena diciottenne che si era messo in testa di andare dall'altra parte del mondo a combattere da solo una battaglia persa in partenza.

Perché non era abbastanza forte per farcela da solo.

Non era forte, non era furbo, non era “sgamato”, come avrebbe detto Sakuragi. Si sarebbe fatto fottere alla prima occasione e sarebbe dovuto tornare in Giappone con la coda tra le gambe, costretto ad ammettere che la vita reale, fuori dai palazzetti, aveva i denti e sapeva mordere.

Una mano si posò sulla sua spalla, senza preavviso, e Rukawa spalancò gli occhi, pronto a fuggire o a combattere.

 

“Those words grow distant as I look at your face,

no I don't wanna go it alone...”

 

-Rukawa, va tutto bene?- chiese Sakuragi. Il suo sguardo era calmo e sinceramente preoccupato.

 

“I never thought I'd lay my heart on the line...”

 

Sakuragi piegò le ginocchia e si accovacciò di fronte a Rukawa. Le sue mani grandi e calde erano posate sulle spalle coperte di sudore freddo del compagno, e i loro occhi ancora incatenati.

 

“But everything about you is telling me this time is

Forever...”

 

Rukawa scosse il capo, e lacrime silenziose cominciarono a solcargli le guance. Sakuragi si inginocchiò di fronte a lui, si tolse un fazzoletto dalla tasca e le asciugò una ad una mano a mano che cadevano.

 

“This time I know and there's no doubt in my mind,

forever, until my life is through,

girl I'll be loving you forever... yeah!”

 

Stava cantando per lui.

Paul Stanley stava cantando per lui, Rukawa lo sapeva.

Per quel motivo aveva detto “yeah!” proprio nel momento in cui la sua mente era stata attraversata dal pensiero di gettarsi in avanti tra le braccia di quell'individuo casinista e megalomane che in quel preciso istante sembrava essere l'esatto opposto di se stesso.

Accettò il suggerimento dello Starchild e si spinse in avanti.

Dopo un istante di esitazione, le braccia di Sakuragi si ripiegarono sulla sua schiena, in un abbraccio impacciato e timoroso che durò lungo tutto l'assolo acustico della canzone.

 

“Oh,

I see my future when I look in your eyes,

it took your love to make my heart come alive,

'cause I lived my life believing all love is blind,

but everything about you is telling me this time...”

 

-Non voglio andarci da solo.- sbottò Rukawa contro la spalla di Sakuragi.

 

“Is forever, this time I know and there's no doubt in my mind,

forever, until my life is through, girl I'll be loving you forever...”

 

Era fuoco.

Non il fuoco di paglia, aggressivo e violento, che spesso fomentava Rukawa durante le partite, ma che poi si spegneva, lasciando solo ceneri e ciottoli anneriti.

L'amore di Rukawa per il basket era enorme, inimmaginabile, inestinguibile.

Ma lì, tra le braccia di Sakuragi, stava facendo conoscenza con un altro amore enorme, inimmaginabile ed inestinguibile.

Guardando Sakuragi negli occhi aveva trovato un caldo e calmo fuoco di legna, scoppiettante e confortante nelle sue volute scintillanti, un caldo conforto nell'inverno della sua adolescenza solitaria ed ossessionata.

Solo quel gesto di semplice empatia, quel gentile asciugargli le lacrime, senza commentare, senza chiedere, senza voler ricevere nulla in cambio, aveva chiarito ogni dubbio.

Non sempre l'amore è cieco, ma a volte la paura ti rende tale.

Rukawa rammentò un brano di filosofia, probabilmente qualcosa imparato un po' a caso in vista di una verifica su Schopenhauer.

Questo tale, forse meno fuori di testa degli altri, sosteneva che la vista dell'uomo è offuscata da un velo fatto di sogni e della percezione della propria individualità; Rukawa aveva trovato l'immagine molto calzante per se stesso, e forse già allora aveva avvertito i primi palpiti di insicurezza, sebbene li avesse liquidati come probabile preoccupazione in vista della verifica.

Ora, con l'arrivo della lettera della University of Carolina, il velo di Maya era caduto, lasciando Rukawa nudo e indifeso di fronte ad una realtà ancora troppo grande e maestosa perché potesse pretendere di affrontarla da solo.

Si era reso conto, realizzò finalmente, di essere niente più che un adolescente di talento e belle speranze che voleva scalare la vetta del mondo senza un minimo di preparazione; non tanto la formazione agonistica, quella di certo non gli mancava, ma si era dovuto riconoscere sprovvisto delle armi di difesa necessarie per affrontare una realtà più grande dei palazzetti giapponesi.

Non aveva la minima capacità di rapportarsi.

Sarebbe stato rapidamente isolato, rimproverato per la sua incapacità a fare gioco di squadra, e presto si sarebbe ritrovato in panchina, sotto agli occhi delusi e arrabbiati del coach, del preparatore sportivo, dell'addetto alle selezioni dei talenti per le borse di studio.

Eppure, sarebbe bastato così poco.

Avvertì le gambe di Sakuragi che si stendevano, ai lati delle sue ginocchia, e si lasciò scivolare tra di esse, senza interrompere l'abbraccio.

Ricordò una scena di Big Bang Theory, quando il sociopatico Sheldon Cooper abbraccia la vicina di casa e poi le dice “Siccome sei più esperta, mi affido a te per definire la durata dell'abbraccio”, e lo colse l'improvvisa, irrazionale voglia di sorridere.

-Se ti fossi degnato di far vedere la tua brutta faccia agli allenamenti, sapresti che non devi farlo.- disse Sakuragi, soffocando gli accordi finali della canzone dei Kiss.

-Nh?- chiese Rukawa.

-Ah! Oh, Kami, che sollievo, ci sei ancora tu lì dentro!

-Nh?

-Ah, lascia perdere, non riconosceresti una battuta neanche se ti ballasse davanti nuda con il berretto dei Bulls in testa.- Rukawa non si degnò di rispondere.

Dopo una pausa, Sakuragi annunciò: -Sono spiacente di informarti che hanno mandato la stessa lettera anche a me. Mi ti hanno appioppato per il prossimo anno.- il suo petto vibrava, mentre l'aria lasciava i suoi polmoni e veniva poi forgiata dalle corde vocali fino a formare dei suoni, delle parole.

Era una sensazione così piacevolmente intima che Rukawa non ne registrò il significato.

-Ehi, sei vivo o lo shock ti ha ucciso?- chiese ancora Sakuragi. Il tono della frase era di domanda, per cui Rukawa chiese gentilmente di ripetere: -Nh?- Sakuragi gli prese la testa tra le mani e si puntò addosso un paio di occhi blu ancora lucidi e gonfi.

-Vengo. Anch'io. In Carolina.- sillabò Sakuragi, e finalmente il concetto fece presa.

-Nh?!

-Parla potabile, Rukawa, per cortesia. Saremo gli unici due stronzi a sapere il giapponese, laggiù, non costringermi a parlare solo inglese e volpese.- Rukawa raddrizzò la schiena e si sedette, ponendo un po' di distanza tra i loro corpi, poi chiuse gli occhi per assimilare la notizia.

Quando li riaprì, Sakuragi era sdraiato sulla schiena, appoggiato ai gomiti con la testa rovesciata all'indietro e con le ginocchia piegate che dondolavano a destra e a sinistra.

-Vieni in America con me?!- chiese di nuovo Rukawa. Sakuragi abbassò la testa per guardarlo.

-Alé, vedi che ci arrivi, se vuoi?

-Vieni alla University of Carolina con me?!- sottolineò Rukawa.

-Kami. Sì, Rukawa, vengo con te. Ti ho già comprato un regalo di Natale, un bel quadretto al punto croce con scritto “Meglio soli che male accompagnati”. Un bel rompicoglioni come me e vedi che ti passa la paura.

-Non ho paura, Do'aho.

-No, certo che no.- ironizzò Sakuragi, poi sbatté la testa contro il parquet, mentre ottantacinque chili di ala piccola gli si schiantavano sul petto senza il minimo preavviso, spremendogli tutta l'aria dai polmoni.

-Ahia, ma sei sce...

-Non più.- Rukawa nascose il viso nell'incavo del suo collo e lo avvertì sobbalzare. Non si mosse, tuttavia, e dopo poco le mani di Sakuragi cominciarono ad accarezzargli la schiena.

-Ti ricrederai, sono un gran rompicoglioni.- sussurrò Sakuragi tra i capelli di Rukawa, che in tutta risposta passò un braccio sotto al suo e gli si aggrappò ad una spalla.

Con la mano libera armeggiò un po' con il lettore mp3, tornò indietro di qualche secondo nella traccia che stava ascoltando, mise un auricolare nell'orecchio di Sakuragi e lasciò che ad esprimersi al posto suo fosse Paul Stanley:

 

“It's forever,

this time I know and there's no doubt in my mind,

forever,

until my life is through, girl I'll be loving you forever!”

 

Rukawa pensò che sarebbe stato bello se Sakuragi l'avesse baciato.

Sakuragi pensò che gli sarebbe piaciuto baciare Rukawa.

Attese un segno.

Paul Stanley intonò un'ultima parola:

 

“Yeah...”

 

Sakuragi accettò il consiglio.

 

 
   
 
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