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Autore: Spoocky    15/07/2019    6 recensioni
Francia, 1944. Paul Richter è un caporale della Wermacht, assegnato ad una mitragliatrice con due commilitoni.
Rimasto ferito in uno scontro, viene soccorso da un medico americano.
Il titolo della storia è dovuto all' omonima canzone dei Pink Floyd, a cui è ispirata.
Dedicata alla carissima Saelde_und_Ehre ^^
Genere: Guerra, Hurt/Comfort, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
- Questa storia fa parte della serie 'Human Beings'
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Prima di iniziare il racconto sento la necessità di lasciare due parole d' introduzione.
Nonostante la storia sia scritta per lo più dal punto di vista di un soldato tedesco nella Seconda Guerra Mondiale non ho intenzione di fare propaganda di alcun genere, tantomeno apologia. Lo specifico da subito onde evitare eventuali fraintendimenti.
Inoltre non accampo diritti di alcun genere sulla canzone che dà il titolo alla storia e che viene citata: appartiene in toto agli aventi diritto.
Come sempre, ringrazio anticipatamente chiunque vorrà fermarsi a leggere e, magari, commentare questa storia.


Buona Lettura ^^
 
Floating down through the clouds
memories come rushing up to meet me now
in the space between the Heavens
and the corner of some foreign field


I had a dream


Francia Meridionale, agosto 1944

Il caporale della Wermacht Paul Richter era attestato con due suoi camerati in una tana di volpe appena al di fuori del villaggio di Cavalaire sur Mer, nei pressi della Baia di Cavalaire. Il capitano Bauer aveva ordinato loro di presidiare la strada con una MG42.
Trattandosi di una strada di campagna era improbabile che gli Alleati vi si avventurassero ma, da quando avevano iniziato l’invasione,  i loro spostamenti si erano fatti sempre più imprevedibili e le comunicazioni tra i vari avamposti e le stazioni di comando sempre più difficili.
Da Berlino le direttive arrivavano con ritardi sempre maggiori e le notizie erano spesso contraddittorie, ma nessuno aveva nemmeno preso in considerazione l’ipotesi di una resa: avrebbero lottato fino all’ultimo uomo, corpo a corpo, con le unghie e con i denti se fosse stato necessario.
Persino una morte atroce sarebbe stata preferibile all’onta della sconfitta.

Erano le prime luci dell’alba ed il giovane aveva appena smontato dal turno di sentinella, quindi si permise di stendersi al riparo dei sacchi di sabbia che proteggevano la loro postazione e posò la testa sulle braccia incrociate. Era stanco, tanto da reggersi a malapena in piedi, ma ancora resisteva per sé stesso ed i suoi due compagni d’armi.
Quella era stata la terza notte che avevano trascorso in quell’anfratto, un infinitesimale angolo di Germania nel territorio occupato. Senza direttive dai superiori, senza conoscere la posizione del nemico, ormai quasi senza cibo e con i nervi sempre tesi in previsione di un attacco che sarebbe arrivato ma non si sapeva né da dove né quando.
Anche il pur resistente caporale era ormai logorato da quell’attesa infinita e le palpebre calarono pesanti sui suoi occhi stanchi non appena riuscì ad appoggiare il capo.
Chiuse gli occhi ed iniziò a sognare.

Non sognò il passato né il futuro: sognò il presente.
Vide sé stesso ed i suoi due camerati, rannicchiati come volpacchiotti nella loro tana. Si chiese perché, nonostante tutto, ancora combattessero.
Poi fu come un librarsi a volo d’uccello, sorvolando la valle del Reno e le fitte foreste del suo Paese, i tetti delle case, i campanili delle chiese, le guglie svettanti delle cattedrali gotiche. Un vento leggero agitava le fronde degli alberi ed ovunque era silenzio: spariti i crateri lasciati dalle bombe, sparite le macerie ed i corpi straziati dei suoi compatrioti. Quello non era il presente.
Non era neanche il passato e forse nemmeno il futuro. Quello era il motivo per cui avevano imbracciato le armi ed ancora rifiutavano di cederle: non per sé stessi, non per i capi, ma per un mondo migliore. Un mondo libero, sicuro, dove i loro figli avrebbero potuto crescere senza l’ incubo della povertà, senza che arrivassero altri ad imporre loro di chinare il capo e strisciare per terra. Senza che nessuno li disprezzasse.
Paul lottava per quello e per gli uomini che aveva accanto:  volti familiari, quasi cari, che aveva visto piangere e ridere, corpi che aveva visto distrutti dalla fatica, dilaniati da orribili ferite, ma anche saldi e vigorosi, lanciati in imprese che mai avrebbe creduto possibile.
Quella era la realtà che vedeva ogni giorno e che avrebbe dato la vita per difendere.
Perché, forse, a quel punto cominciava a non avere più senso parlare di Patria o di vittoria finale, ma la maggior parte di loro era ancora pronta a dare la vita per gli uomini che vivevano, dormivano, e respiravano accanto a loro.
E di nuovo quelle immagini bellissime della terra in cui era nato.
Aveva senso continuare a lottare: foss’ anche solo per un sogno.
Se anche fosse morto, i suoi avrebbero sentito la sua mancanza e lo avrebbero pianto, ma quel sogno sarebbe sopravvissuto e qualcun altro lo avrebbe fatto suo.
Forse anche in un altro tempo, in un altro luogo.

 


Fu il rumore delle macchine a riportare Paul nella realtà contingente.
Aveva i nervi tanto tesi da aprire gli occhi ancora prima che Franz gli appoggiasse addosso la mano per scrollarlo, ed il suo scatto fu tanto repentino da farlo sobbalzare.
Il soldato si riprese in fretta, tuttavia, e con un cenno del capo gli indicò la strada: pur senza vedere nulla, si sentiva chiaramente una colonna di veicoli militari in avvicinamento. Arrivavano da Sud, quindi non c’era verso che fossero rinforzi o alleati: dovevano essere gli Americani.
Il caporale annuì e con un gesto segnalò loro di mettersi ai propri posti: Karl servente al pezzo, Franz avrebbe provveduto al fuoco di copertura con il suo MP-40, e Paul alla mitragliatrice. Sarebbe stata un’ azione disperata e, in retrospettiva, quasi certamente inutile ma a quel punto tanto valeva morire combattendo invece che essere presi prigionieri.

Si posizionarono ed armarono le mitragliatrici in completo silenzio. Acquattati e protetti com’ erano dal ciglio della buca nessuno si sarebbe accorto della loro presenza prima di essere a portata di tiro.
Pochi secondi di silenziosa attesa, in cui tutti si domandarono se fosse davvero la cosa giusta da fare, poi il primo veicolo passò loro davanti, ondeggiando leggermente sotto il peso dei soldati e del loro equipaggiamento.

La mano di Paul si contrasse sul grilletto in un gesto più istintivo che razionale e la mitragliatrice prese a far fuoco sulla colonna, falciando le ruote dei veicoli e ferendo alcuni soldati.
Il frastuono delle armi rimbombava nelle loro teste, attutendo persino le urla dei nemici ed il loro controfuoco.  Tutto sembrava sfocato e confuso, quasi ovattato, come un sogno.
Nemmeno si accorsero di stare gridando con tutte le loro forze.

Gli Alleati erano superiori in numero e ben armati, non impiegarono molto a riorganizzarsi e rispondere al fuoco. Trincerandosi dietro un autoblindo, aprirono il fuoco verso la tana dei Tedeschi, tempestandoli di proiettili.
Franz cadde per primo, falciato da una raffica di Thompson.
Poi Karl, dilaniato dalle schegge di una granata.

All’ inizio, Paul nemmeno si rese conto di essere ferito.
Poi cominciò a sentire la testa pesante, la vista sempre più appannata, mentre al caldo sole estivo si sostituiva una gelida coltre che lo avvolse spietata fino a costringerlo ad accasciarsi a terra, il capo reclinato sul corpo ancora caldo di Karl.
Sentiva freddo, molto freddo, come quando da bambino si rannicchiava nella neve per nascondersi da suo fratello Johann. Sentiva come un peso sul petto e qualcosa di caldo e appiccicoso gli scorreva sull’addome. Cercò di raggomitolarsi, per raccogliersi intorno a quel nocciolo caldo, ma appena le sue cosce accennarono a contrarsi venne trafitto da una stilettata di dolore. Lo investì come un fulmine a ciel sereno, strappandogli un lieve gemito.
Perso nel suo limbo, non si rese conto di essere stato circondato dai nemici finché non sentì una mano calda posarglisi sul collo per tastarne il polso. Subito dopo un grido, parole che non riconobbe, e qualcuno gli sfilò l’elmetto.

Gli sollevarono piano la testa e qualcuno gli diede dei colpetti su una guancia: “Ohi, Fritz! Fritz?”
Il caporale gemette piano: “Non mi chiamo Fritz.” Avrebbe voluto dire, invece dalle sue labbra uscì solo un mugolio pietoso.
“Tranquillo, Fritz.” Riprese quella voce,  tanto accentata da risultare quasi incomprensibile “Adesso arriva il dottore. Arriva il dottore, tranquillo.”
Altre mani ed un’ altra voce, altrettanto accentata: “Ehi, Fritz, un po’ d’acqua?”
Qualcuno gli accostò una borraccia alle labbra e vi fece scorrere dentro un sorso d’acqua fresca, alleviando una sete che non si era reso conto di provare. Si chiese perché dei nemici fossero tanto gentili con lui, dopo aver massacrato i suoi due compagni ed averlo ridotto in fin di vita.
In un fugace momento di lucidità, però, ricordò i momenti in cui a sua volta aveva compiuto azioni simili sul campo di battaglia per un ferito od un morente, qualunque fosse la sua uniforme.

Non poté meditarvi a lungo, tuttavia, perché presto delle braccia invisibili lo avvolsero e lo sollevarono, strappandolo dai suoi camerati per adagiarlo su una barella, dura e rigida, con una giubba piegata sotto la testa come cuscino. Il dolore divenne improvvisamente atroce: lo investì come una secchiata d’acqua bollente, strappandogli un altro grido.
“Va tutto bene, Fritz.” Gli disse qualcuno, le parole ancora una volta deformate dall’accento “Va tutto bene. Tranquillo.”

Lo trasportarono fuori dalla buca e lo deposero sul retro di una camionetta, perché il dottore potesse visitarlo.
Paul avvertì Il sole caldo sul viso, che mitigò un poco il freddo e la luce forte gli trafisse le palpebre. L’ennesima voce a malapena comprensibile, soffusa come se provenisse da molto lontano, che gli ripeteva di stare tranquillo, che andava tutto bene.
Una fitta acuta nel braccio, seguita dalla sensazione di un liquido gelido nella vena, e lentamente i suoi muscoli contratti si rilassarono. La testa gli si fece pesante, tanto da reclinarsi verso la sua spalla.
Si abbandonò sul cuscino improvvisato, a malapena consapevole delle mani agili che tagliavano ciò che restava della sua uniforme, mettendo a nudo la sua carne lacerata per pulirla e fasciarla.
Anche il dolore sembrava sempre più distante.

 
In the corner of some foreign field
the gunner sleeps tonight
what’s done is done

Forse aveva perso troppo sangue.
Forse era stremato dal dolore.
Forse era semplicemente troppo stanco.
Paul si rilassò completamente nel suo giaciglio di fortuna e si abbandonò alla misericordia dei suoi nemici. Impossibile per lui resistere oltre: aveva dato tutto sé stesso, fino allo stremo. Non poteva fare altro.
Non sapeva che sarebbe stato di lui, cosa gli avrebbero fatto, se un giorno avrebbe combattuto di nuovo. Non lo sapeva, e nemmeno aveva più le forze di domandarselo. Quindi lasciò che il sonno lo prendesse, avvolgendolo nel suo abbraccio mentre qualcuno gli stendeva un impacco freddo sugli occhi per ripararli dalla calura.

Sognò di nuovo il suo Paese, gli alberi in fiore come nel pieno della primavera. Speranza di un’ estate ricca di frutti.
Sognò dei bambini, liberi di scorrazzare per i campi senza il timore delle bombe.
Sognò la cattedrale della sua Norimberga, con le sue guglie ed i suoi rosoni, illuminata dal tiepido sole primaverile e non dalle fiamme degli obici incendiari.
Sognò i suoi due compagni, Franz e Karl, che pescavano nel Meno. Con i pantaloni rimboccati al ginocchio e i piedi nell’acqua. Lo facevano spesso, prima della guerra, glielo avevano raccontato qualche sera prima. Ridevano e scherzavano spensierati. Niente cicatrici, niente occhiaie o rughe di dolore sui loro giovani volti.
Loro avevano già trovato la pace. Paul sognò che finalmente potesse trovarla l’ intera Germania.
Vedere quel sogno avverarsi lo avrebbe ripagato di tutte le sofferenze vissute e di tutte quelle a cui era stato costretto ad assistere. Si aggrappò con tutte le sue forze a quella speranza.


 

 
We cannot just write off his final scene

Il medico dello U.S. Army  John  “Jack” Baker, aggiustò la fascia che sosteneva il braccio del caporale tedesco ferito. Dalla piastrina avevano ricavato solo il suo reparto ed il numero di matricola. Per il nome avrebbero dovuto aspettare che si svegliasse.
La morfina e l’abbondante emorragia avevano avuto la meglio su di lui prima che potesse dire nulla e, per quanto lo riguardava, era un bene: quel poveretto aveva un polso rotto, una profonda lacerazione sullo stesso braccio, l’addome ed una coscia straziati dalle schegge.
Il corpo del suo commilitone lo aveva protetto dal peggio dell’ esplosione, ed il caporale ne era uscito con delle ferite profonde, ma non letali. Ora che aveva ricevuto i primi soccorsi, bisognava solo inserirgli una fleboclisi per regolare la volemia e portarlo al più vicino ospedale da campo, dove gli avrebbero somministrato dei sulfamidici per prevenire eventuali infezioni e gli avrebbero trovato un letto in cui riposare.

“Per te la guerra è finita, ragazzo.” Gli aveva detto quando se l’era trovato davanti.
Vedendo poi che il giovane non lo capiva, aveva preso a ripetergli la parola: “Ruhig.” Nella speranza che effettivamente significasse “tranquillo”, come gli aveva spiegato un prigioniero, e non fosse un insulto di qualche genere.
Quasi sicuramente per la morfina, il ragazzo si era progressivamente rilassato ed i suoi gemiti erano scemati in sospiri sempre più rarefatti. Si stava addormentando.
Il dottor Baker attese che fosse incosciente prima d’inserirgli la flebo, volendo risparmiargli almeno quel disagio, e stese un fazzoletto bagnato sui suoi occhi chiusi per alleviare il fastidio della calura estiva.
Si attardò un momento a guardarlo respirare e si chiese se stesse sognando.
‘A vederlo così’, si rese conto,  ‘non è poi tanto diverso dai nostri ragazzi quando sono feriti. Anche lui soffre e sanguina come noi. Ne più né meno.’

Forse anche quel ragazzo, come loro, aveva preso le armi per difendere la libertà del proprio Paese e per proteggere la sua gente. Forse anche lui, come loro, in fondo non desiderava altro che costruire un mondo migliore ed era disposto a dare la vita per ottenerlo.
Non per sé, ma per chi sarebbe venuto dopo.


Arrampicandosi sulla camionetta vicino alla barella, il dottore si fece aiutare da un soldato a stendere una coperta sul corpo seminudo del ferito, che ancora tremava leggermente per il freddo conseguente lo shock. Gli si sedette accanto, monitorando attentamente i suoi segni vitali e vegliandolo con la stessa cura che avrebbe dedicato ad un commilitone.
Perché pur appartenendo a schieramenti opposti, in fin dei conti condividevano lo stesso sogno.
E quel sogno meritava di essere portato avanti.
 
Take heed of his dream
 
- The End -


Note:

Questa è la canzone che ha ispirato il racconto: 
https://www.youtube.com/watch?v=lIJN6WWf3Rg
Ripeto di non accamparne i diritti, che spettano solo ai legittimi proprietari.

Il dottor Jack Baker è esistito realmente e questo racconto vuole essere anche un omaggio alla sua memoria.

Allego il link al blog del nipote, che costituisce anche la fonte d'ispirazione principale per questo racconto: http://www.johnbakerswarbook.org/john-baker/
 
  
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