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Autore: YellowSherlock    27/07/2019    0 recensioni
La relazione tra Sherlock e John è finita da qualche tempo, e ormai cinquantenne, il detective si ritrova a dover fare i conti con una vita trascorsa assieme all'uomo che amava, e un ipotetico futuro che ritorna puntualmente a bussare alla sua porta.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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“Rosie, dove vai?”chiese Sherlock, seduto sulla poltrona che per anni era stata quella di John.

“Papà, esco con James.” Rispose la ragazza diciassettenne, dai lunghissimi capelli color paglia, con due occhi azzurri così grandi da potercisi specchiare.

“Sai che non mi piace James.” Rispose Sherlock.

 

“Sì, lo so, ma è il mio ragazzo. Devi fartelo piacere.”

“Io non mi faccio piacere nessuno, Rosie.” Affermò Sherlock in tono più serio. 


Rosie portò gli occhi al cielo, e dondolando su una gamba si fermò all’uscio.


“Poso andare?” disse.

“Alle undici a casa.” Rispose il detective.

“Dai! Alle undici? Facciamo mezzanotte?”

“Undici, e non discuterò ulteriormente.”

Rosie sbuffò, e uscendo tirò con impeto la porta dietro di sé.

Sherlock restò solo nella stanza, e nella penombra di un tramonto vicino, si versò un bicchiere di vino poggiato al tavolino accanto e accavallò le gambe.
Il suo sguardo era fisso dinnanzi a sé, ma l’obiettivo era vago, guardava in un punto ma non intendeva centrarlo. 

Le labbra inumidite scivolavano attorno al bordo del cristallo graffiato, e tra un sorso ed un altro, i pensieri del cinquantenne viaggiavano ad altissima velocità.

Perché John lo aveva fatto? Perché?
Dopo anni di vita vissuta assieme, dopo scoperte, accettazioni, collaborazione e creazione di una famiglia, andando contro ogni pregiudizio e regola sociale, privata, e tutto ciò che ostacolava la loro unione, perché John lo aveva tradito?

Le immagini scorrevano veloci sulle pupille di Sherlock.
John e Ludwig, il famoso collega: l’asessuato. 

Il cardiochirurgo più famoso di Londra, quello che aveva dato accesso a John a tutte le vette più alte a cui avrebbe potuto aspirare. 

Eppure, anni prima, era lui ad averlo salvato dalla totale depressione, era lui ad avergli installato nella mente la questione che avrebbe potuto fare il medico, perché meglio di John non c’era nessuno. 


-Andiamo Sherlock, non essere geloso. E’ un uomo che non prova pulsioni, per lui esiste solo la medicina, medicina, medicina.

Medicina, certo, perché il suo male era John.
Era riuscito a portarglielo via. 


Sherlock tirò indietro la testa sospirando, con le braccia sui gomiti della poltrona, cercò di rilassare i polsi, ma la presa continuo ad essere così violenta che il bicchiere già segnato, si crepò in superficie.
Sherlock non se ne curò, e lasciò cadere qualche lacrima sul viso.
Chissà ora dov’era il suo John, chissà dove aveva sbagliato, e chissà se Rosie si sarebbe allontanata da lui nel corso degli anni.
Certo, doveva allentare la presa con lei, era cosi possessivo; la ragazza glielo faceva pesare in modo leggero ma era visibile la pressione.
Dopotutto James era solo avvezzo a qualche sciocchezza adolescenziale, e comunque, Sherlock era l’ultima persona che poteva emettere giudizi sulla condotta ma di questo Rosie non ne era a conoscenza.
I segni sulle braccia erano sempre stati giustificati come cicatrici d’infanzia, se lo avesse saputo probabilmente non gli avrebbe lasciato tutto questo comando.
Era una ragazzina vivace, furba ed attenta. Ma anche ribelle, e dunque in questa occasione, negandogli libero accesso al sentimento, non sarebbe rimasta al suo posto.

Per interminabili minuti Sherlock rimase seduto, sempre col bicchiere penzoloni in una mano.
Dimenticò la crepa e se lo portò di nuovo alla bocca, stavolta provocandosi un leggero senonché bruciante taglio.
Passò la lingua sul labbro e assorbì il sapore del suo sangue, gli dava il voltastomaco.
Lanciò il bicchiere a terra e corse in bagno a rimettere quel poco che il suo stomaco aveva avuto occasione di digerire; non mangiava da settimane, mesi ormai, il colorito era smunto, il corpo fragile, e i segni del dimagrimento violento iniziavano ad essere fin troppo evidenti.
Cercò di darsi un tono dopo una calda doccia che non riuscì a cancellare i pensieri, e poi indossò una vestaglia consumata ai bordi.
Cosa ne era stato delle vestaglie di seta nelle sere più calde d’estate? Quelle che John scartava come un bimbo a natale, per poter avere il suo giocattolo.
Sì, perché forse quello era stato negli ultimi anni: un giocattolo.

Si trascinò verso la cucina e mise su il bollitore del tè, iniziò a leggere un libro, poi lo richiuse.
Ne prese un altro dalla libreria, ma niente. Lo posò più in fretta del precedente. 

Doveva trovare qualcosa, qualcosa che gli permettesse di non tornare sempre col pensiero a John.
Fossero stati altri i tempi, avrebbe imbracciato il suo splendido violino ed intonato il tema dell’Arte della fuga. Quello si che gli faceva dimenticare il senso di ogni cosa, perché era essa stessa il senso.
Ma Sherlock non suonava più da anni, ormai. Dai tempi dell’incidente sulla scena del crimine, quando un colpo di pistola gli entrò nella spalla, rendendogli difficile poi negli anni a venire, i movimenti muscolari. La ripresa fu ottima, il medico si complimentò come mai prima, ma l’arco…beh, l’arco è una questione più seria. Il suono non sarebbe mai più uscito come un tempo. La fatica delle legature, degli accenti e dei momenti di respiro lo scoraggiarono a tal punto da lasciare, giorno per giorno, lo strumento, e di conseguenza la voglia di suonare.
Uno dei più grandi lutti della sua vita, mai più superati.
E adesso un altro. John.
Che la vita fosse stata poco gentile con lui, Sherlock lo sapeva fin troppo bene.
Ma mai avrebbe immaginato che le cose sarebbero potute peggiorare.
A cosa sarebbe servita, dunque, tutta quella splendida felicità?
Il primo giorno di scuola di Rosie, quando Sherlock si ritrovò alle prese con i codini e i bottoni di un grembiule troppo largo per la sua piccola bambina.
Il menarca, quando Rosie spaventata dalla situazione, svegliò nel cuore della notte il suo Sherlock, il suo papà adottivo, o per meglio dire, la sua estensione. 

Estensione, sì; perché negli anni il rapporto sviluppatosi tra i due era così unico che l’uno era l’estensione del pensiero dell’altro.

“Ho paura, papà. Sto sanguinando.”
“Oh tesoro, sei semplicemente divenuta una splendida ragazza. Il tuo corpo cambia, tu cresci, sei un adolescente ormai, ma ti prometto che per me, e per papà, resterai sempre la nostra piccina.”

Sherlock portò il capo della ragazza sul suo petto la quale inumidì la maglia con le lacrime, un po’ di gioia un po’ di confusione.

Il bollitore iniziò a fischiare e Sherlock si ridestò da quel film che gli scorreva dinnanzi agli occhi; una goccia salata uscì dall’angolo del suo occhio, ma tante erano state le lacrime che anche i suoi occhi si rifiutarono di piangere, e dunque tirò su col naso e si versò l’acqua su quella che era da mesi ormai, la bustina di mix tisanecamomille per tenersi calmo. Un tempo avrebbe usato ben altro per portare a spasso il pensiero, ma la nascita di Rosie lo aveva totalmente cambiato, e dunque tutto ciò che si muoveva era in funzione di lei; la vita, con la sua presenza, era divenuta troppo importante, e cercava di essere il più sano possibile, per recuperare col corpo quegli anni che lo avevano quasi distrutto.

Nessun tradimento, nessun dolore d’amore lo avrebbe portato a cedere, Rosie era la sua ragione d’amore, e solo la sua assenza poteva dichiarare una fine totale.

Di certo Sherlock non pensava più di recuperare il rapporto con John, le ultime parole del dottore 

erano state chiare: “E’ stato quel che è stato.”
Una coltellata in pieno petto, e poi il medico che prende le valige dalla camera da letto, che guarda un ultima volta il soggiorno, che chiude la porta dietro sé e porta via per sempre quella che era stata una surreale, viva, e viscerale storia d’amore. 

Dopo un sorso bollente di quel liquido insapore ma incredibilmente curativo, il telefono di Sherlock squillò.
Il detective scattò pensando fosse la sua bambina, ma il nome di Mycroft apparì sul cellulare. 

 

Sbuffò, poggiò con violenza la tazza sul tavolo e rispose.

“Mycroft.”

“Tra un’ora a cena, tu, da solo. Casa mia. Io e Greg ti aspettiamo.”

“Mycroft non ho nessuna intenz…”

“Un’ora.”

e riattaccò.

Sherlock aveva imparato negli anni che a quei due non gli si poteva dire di no, vivevano ormai così in simbiosi che per rifiutare un qualcosa eri costretto a combattere con un’entità fatta di due persone; e Sherlock era troppo stanco per potersi ribellare.

Si pettinò ed indossò un completo grigio, d’altronde a casa degli Holmes-Lestrade dovevi sempre mantenere un certo tono, non come dagli Holmes-Watson, patria del maglioncino di lana. 

Si guardò allo specchiò e rimase disgustato dalla quantità di capelli bianchi che gli si mostravano, si chiedeva se fosse stato saggio tingerli; ma come diceva la signora Hudson prima di morire: “Sherlock, quando avrai i capelli grigi io non ci sarò più, ma scommetto qualsiasi cosa che sarai un uomo dall’irresistibile fascino.”

Dunque, non tingerli tutti era un po’ una promessa fatta a quella donna che lo aveva accolto come un figlio, e che lui aveva amato come una madre, fino all’ultimo giorno della sua vita; quando tra le braccia la strinse, e la salutò con un bacio sulla fronte, chiudendogli gli occhi e piangendo lacrime che mai per nessuno aveva versato.

Un tocco ancora al colletto della camicia ed era pronto. Decise di non guardarsi oltre, altrimenti avrebbe notato difetti che ancora non erano venuti alla luce, ed era già in estremo ritardo.
Cosa che Lestrade non apprezzava.

Entrò nella sua Audi, sfrecciò velocemente uscendo da Baker Street e dopo un quarto d’ora si ritrovò dinnanzi alla porta della coppia felice. 

Tentennò prima di bussare, poi il dito affondò nel campanello poi sorriso apparve sulle sue labbra:
la voce dei piccoli Jude ed Ellie arrivò alle sue orecchie.
Jude aveva 10 anni, ed era il primogenito, Ellie ne aveva sette; entrambi innamorati dello zio Sherlock.
Si aggrapparono ferocemente al collo dello zio sbaciucchiandolo con estremo affetto, e Sherlock ricambiò quell’inondazione di dolcezza.

“Zio Cellok” diceva Ellie, e Sherlock sorrideva imbambolato.

“Sherlock, si dice, tontona!” Ripeteva Jude, che ormai aveva una padronanza di linguaggio impensabile per un bimbetto della sua età; ma era il figlio di Mycroft e Greg, sarebbe stato inusuale il contrario.
Sherlock si risistemò il vestito tanto curato prima di uscire di casa, e salutò Greg con un abbraccio, il quale gli era stato vicino nei mesi di crisi intensa con John.

“Come stai?” Gli chiese.

“Sopravvivo, Greg.” disse, accennando un sorriso.
“Dov’è mio fratello?”

“Arriva, è con alcuni ospiti al piano di sopra.”

“Ospiti? Credevo fossimo soli.”

“No, ha invitato alcuni vostri amici di infanzia, persone squisite! Li abbiamo incontrati settimana scorsa, a Parigi! Che bel ritrovo, non sapevo foste così affiatati.”

Sherlock indietreggiò di un passo e guardò Greg con aria turbata.

“Quali amici?”

“I vostri vicini di casa, quelli di quando eravate bambini.”

Sherlock sgranò gli occhi.

“I Trevor?”

“Esatto!  Victor e sua sorella Tina sono così simpatici!”

Sul volto di Sherlock apparve una micro espressione di terrore, e Greg lo scrutò dubbioso.

Quando le voci dalle scale superiori iniziarono a farsi più vicine, Sherlock cercò di distrarsi con i bambini, e diede le spalle a Mycroft che con gli ospiti era ormai vicinissimo.
Jude ed Ellie dissero qualcosa a Sherlock, costringendolo ad inginocchiarsi, ma egli non se ne curava, era troppo in ansia. Mycroft non avrebbe mai dovuto. 


Un brivido gelido si appigliò alla nuca del detective, il quale inviò una scarica elettrica a tutta la schiena quando Mycroft esordì: 


“Ciao Sherlock. Ti ricordi di Victor e Tina?”





























Sherlock sospirò cercando di ricorrere a tutta la sua calma interiore, la quale era decisamente labile.

Si tirò su con le ginocchia e finse un sorriso, voltandosi.

“Come potrei dimenticare.”
Con una fulminea occhiata a Mycroft, Sherlock incrociò lo sguardo di Tina che gli sorrise; era divenuta una bella donna, anch’essa sulla cinquantina, con i capelli ricci rossicci raccolti in una crocchia, eleganti orecchini di brillanti pendenti, e un tailleur blu cielo che risaltava il rosso del suo crine.
Poi il suo sguardo cadde, inevitabilmente, anche su Victor, che lo fissava già da qualche minuto, inerme, ma con un sorriso sul labbro appena accennato.

Capelli ricci anch’egli, tirati con gelatina, lievemente, in modo da accentuare le onde; occhi grigi e filo di barba impercettibile. Il grigiore non aveva intaccato troppo il colore dei suoi capelli, e nel salutarlo, Sherlock notò che egli era quasi rimasto immutato nel tempo, a differenza sua.
“Dunque, seguiteci per l’aperitivo in soggiorno!” Disse Lestrade, con entusiasmo.

Victor e Tina da buoni ospiti subito eseguirono l’ordine, e Sherlock rimase per un attimo solo con suo fratello.

“Mycroft, seriamente? Merito davvero questo?” Disse Sherlock, mettendo le mani in tasca per sopperire la voglia di lanciare pugni random.

“Sherlock, lo so. Credevo potesse farti bene, è stato una parte importante della tua vita, non puoi ignorarlo.”

“Lo ignoro da ventisei anni, Mycroft. Ventisei. Avrei sopravvissuto benissimo. Soprattuto ora che sono a pezzi! Come diamine ti è venuto in mente?”

“L’ho incontrato a Parigi e…”

“E hai pensato che poteva farmi bene una scopata con una persona che in passato mi ha distrutto. Giusto.”

“Fammi concludere! Li ho incontrati a Parigi, ho offerto loro un caffè e mi hanno chiesto di te. Viktor era insistente nel domandare. Ho considerato la questione che essendo in un periodo difficile, potrebbe farti bene un contatto con una persona che comunque è stata importante. Credo ti possa essere d’aiuto, Sherlock, sono mesi che ormai non parli con nessuno, e credo che qualcuno che abbia vissuto sulla linea dei tuoi sentimenti, possa capire meglio ciò che stai affrontando. Dopotutto siamo uomini maturi, e onestamente, per non girarci attorno, il motivo della vostra separazione mi è sempre sembrato assurdo. Hai iniziato con quella roba…schifosa…dopo di lui, e ora ho…paur…”

“Avevamo progetti di vita differenti, non c’era niente di assurdo. Eravamo totalmente incompatibili. Le cose finiscono, Mycroft.” 


“Appunto, non è successo nulla di grave. Potresti riconsiderare l’opportunità di frequentarlo da amico per…”

“Non ho vent’anni, Mycroft. Io non ce la faccio. Non ho nessuna voglia di innamorarmi, nessuna intenzione. Nessuna voglia di rimettermi in gioco! Nessuna voglia di ripescare dal cilindro atteggiamenti, rancori, che ho impiegato una vita a cancellare. Non c’è più fuoco in me. ”

“Magari lui è una fiamma silente, che non si è mai spenta.”

“Lo sai cosa c’è stato con John, Mycroft. Imparagonabile a qualunque altra cosa. Lui mi ha permesso di essere il padre di Rosie; per me nulla avrà più senso di questo.”

“Lo so. Non ti sto dicendo di dimenticare, ma, se lui è andato avanti, perché non puoi farlo anche tu?”

“Perché io l’ho amato davvero.”

Mycroft restò in silenzio, gettando uno sguardo sull’ingresso della porta. 

Abbassò la testa.

“Beh, scusami se ho creduto che potessi ricostruire qualcosa, è solo che non riesco più a vederti in questo stato, onestamente, mi manca la tua serenità. Questo umore mi ricorda giorni di un lontano passato in cui non riuscivo ad inquadrarti, e l’avvento di John mi è stato di grande aiuto.
Ho solo….beh, ho solo paura di perderti, ancora.”

Sherlock portò le mani al viso e scaricò la tensione nei suoi polpastrelli.

“Mycroft, non mi sto drogando né accadrà. Ti ripeto. Rosie, è la mia unica ragione, è lei la mia salvezza, fino a quando lei non mi abbandonerà sarò vivo.”

“Non potrai sempre esser con lei, ha la sua vita.”

“Lo so, non voglio la sua vita infatti, so solo che sono un genitore e questo mi terrà in vita fino a quando lei lo vorrà.”

Altri secondi di silenzio tagliavano lo spazio tra loro, fino a quando Lestrade…


“Ragazzi? Abbiamo cominciato senza di voi!” con un’allegria contagiosa, evidente sintomo dell’indifferenza naturale che provava nei confronti della situazione.

Mycroft si avviò chiamando Jude, e Sherlock prese in braccio Ellie, la quale giocava con i suoi ricci.

“Zio, bacio a te!"

“Oh si amore mio, bacio a me!” disse Sherlock, sorridendo con quel tesorino poggiato sul fianco.

“ E che bel vestito!” disse, agitando la gonna azzurrina con i bordi argentati.

“Papà dice che io sono la sua principetta.”

“Lo sei, tesoro mio. Lo sei! La più bella!” disse, abbraciandola ancora e assorbendo tutto il calore di quella gioia.

Jude ed Ellie erano entrambi figli di Lestrade e di una madre surrogata, ed anche per Mycroft quello era stato il regalo più grande. Solo che tra lui e Lestrade non c’era mai stato segno di rottura, due anime inevitabilmente gemelle. 


Sherlock sorrise ancora alla bambina ed entrò in salone, e con il suo sguardo subito si accorse che Victor lo osservava con attenzione restandone affascinato.
Il detective decise di evitare il suo sguardo per un po’, i ricordi affioravano violentemente, dai più dolci ai più tremendi, e cercava diversivi con i bambini e con Tina, che all’epoca della relazione con Victor, amava particolarmente.
La chiamava “La sua gemma” , poiché era la più piccina della comitiva, e Sherlock sviluppò un senso di protezione altissimo nei suoi confronti.

“Sherlock, il tempo ti ha donato ancora più fascino!” disse la donna.

“Oddio Tina, lo sai vero che quando gli amici dicono frasi del genere è perché stai inevitabilmente invecchiando, dimostrando un declino fin troppo palese?” disse, alzando un sopracciglio.

La donna rise, Victor sorseggiò sorridendo.

“Sempre così distruttivo! Sto dicendo che sei invecchiato bene, sì.”

“Oh grazie, anche tu sei una bella nonnetta.”

“Sherlock!!”

“Andiamo, me l’hai servita su un piatto d’argento!”

“Ahah! Hai ragione! Allora! Cosa mi racconti? Come va il lavoro?”

“Ah beh sai, quando il capo del dipartimento è tuo cognato, nonché padre dei tuoi splendidi nipotini…”

 

“E’ più semplice?”

“No, è una fatica tripla, perché gli devi delle spiegazioni che ad uno sconosciuto non daresti mai!”

Tina e Victor risero ancora di gusto e Lestrade affiorò dal  retro del divano.

“Scusami, detective! Io sarei uno che chiede spiegazioni? Credo di essermi abituato!”

“Addirittura!” Disse Sherlock, facendo l’occhiolino a Tina.

“Certo che non sei cambiato molto, caratterialmente.” disse Victor, mantenendo il suo divertimento.

“Una fortuna, non trovi?” Disse Sherlock, sfidandolo un po’.

“Assolutamente. Splendente come un tempo.”

Sherlock restò impassibile a quel velato complimento.

Cosa stava cercando da lui Victor? Perché lo scrutava in modo divertito. Perché aveva chiesto di lui fino a sfinire Mycroft nell’organizzare un appuntamento?

Non era bastata quella relazione chiusa nel cassetto?
Quella relazione fatta di lettere mai arrivate, addii improvvisi, e sessioni di sesso senza fine per poi rilasciarsi ancora?
Che senso aveva rivedersi? Che senso avrebbe avuto poi una ripresa?
Non poteva cedere ad un amore giovanile e dimenticare John. John era stato tutto per lui.
Rosie era tutto per lui.
Non c’era più spazio per Victor, da tempo, ormai. 


Tina si schiarì la voce comprendendo l’imbarazzo del momento e lanciò un occhiata al fratello per tenere a bada la sua sfacciataggine.


“Voi, dunque? Cosa mi raccontate? Ricordo che sei divenuta un avvocato senza pari a Londra.”

“Beh si, ho uno studio abbastanza importante al centro.”

“Lo so, alcuni miei clienti sono anche i tuoi.”

“Ma dai! E non sei mai passato a salutarmi in tutti questi anni?”

“Mi sembrava…sconveniente.” disse Sherlock, fissando l’ultimo termine sul volto di Victor, che comprese al volo il senso delle sue parole. 


“Non hai torto…” disse la donna, con un amaro sorriso “…ad ogni modo, ora puoi passare quando ti va! Se hai problemi con i clienti sai dove trovarmi!”

“Certo. E tu? Victor? Cosa ci racconti?” disse il detective, prendendo un calice di aperitivo analcolico.

“Strano, il grande detective non sa nulla sul mio conto?”

“No, non me ne sono interessato.” disse, sorseggiando con sfida.


“La mia carriera da direttore d’orchestra va a gonfie vele, grazie.”

“Oh bene, ne sono felice. Ricordo la tua passione per la musica.”

“Ed io la tua. Per conto mio posso dire che è stato l’unico grande amore della mia vita.”  disse, scostando lo sguardo su Tina, che esordì con un espressione di disagio, come a voler dire “Dacci un taglio.”


“Eh sì. Sei direttore della London, giusto?” disse, facendo cadere la maschera.

“Ah, allora lo sai.”

“Puro caso. Ho assistito ad alcuni concerti, tempo fa. Molto tempo fa.”

“Ti piacque la mia direzione?”

“Venni a saperlo solo la prima sera, un ottima rielaborazione della Bohème, senza dubbio.”

“Solo?”

“Anche della Traviata e dell’Aida.”

“Bene, felice che ti sia rimasto nel…cuore.”


“Nella mente, più che altro.” disse il detective ingollando l’ultimo sorso di aperitivo, e posando il bicchiere con una certa veemenza.

“Ho fame!” disse, guardando Tina.

“Lestrade!” Urlò, sparendo dietro la porta della cucina.

Quando Lestrade era alle prese con gli ultimi ritocchi dei piatti, Sherlock chiuse la porta dietro di sé e si poggiò sull’isola della cucina, come un maratoneta che arriva alla meta e si appoggia alla prima cosa che gli capita sotto tiro.
Erano soli.

 

“Qualcosa non va, Sherlock?”

“Tutto, probabilmente.”

“Hai detto che sopravvivi.”

“Appunto, non è vivere.”


“Qualcosa mi dice che Victor non era solo un vicino di casa.”

“Sei brillante, ispettore.” disse, con ironia.

“Smettila!”

“Hai ragione, perdonami. Comunque sì, siamo stati fidanzati per lunghi, lunghissimi cinque anni. Un amore folle, fatto di lasciti e riprese, inseguimenti e anche leggero stalking.
Una pazzia.
Sembrava l’amore della vita, invece era un’isteria di gruppo.
Un folle, lui e la sua musica. Mi ha distrutto gli anni più belli.”

“Il motivo della rottura?”

“C’è bisogno che te lo spieghi? Siamo completamente incompatibili. Se stiamo insieme di distruggiamo in qualsiasi campo, che sia il sesso o un litigio. Una violenza inaudita.”

“Ma dai, non l’avrei mai detto, mi sembra un uomo così compito. Direttore della London philharmonic, non è proprio l’ultimo deficiente.”

“Non lo è, infatti. Non gli resistevo neanche per tre secondi. Ma allo stesso tempo non potevamo condividere la stanza per più di tre ore.”

“Come avete fatto a stare insieme cinque anni?!”

“Era un fidanzamento malato. Malatissimo. Ogni volta che chiudevamo la relazione uno dei due tornava con due calici di champagne e una confezione di preservativi. Eravamo capaci di stare a letto insieme per ventiquattro ore. Per poi ricominciare a litigare anche per le mosche!”

“Tu una cosa semplice nella tua vita, mai, eh?”

“Mi conosci, Greg. Sono un melodrammatico.”

“Ah, sicuro. E come intendi comportarti ora?”

“Sono passati anni, Greg. Lo ignoro, semplicemente. Se vuole essermi amico, nessun problema. Conoscenza base a cena da mio fratello, quando capita. Ma di certo non starò lì a soffrire come un adolescente in calore, o a rimettermi in gioco in una relazione malata. Credo ci sia stato troppo di malato nella mia vita per poter continuare ad auto distruggermi. Eravamo due egocentrici sciocchi, ora siamo due uomini maturi; confido in questo, almeno per stasera la stanza la possiamo condividere.”

“Anche perché ti ammazzo se mi rovini la serata.”

“Capirai. Più rovinata di così!” disse, sorridendo amaramente.


Mycroft aprì la porta.


“Siamo pronti?”disse.


“Tutti a tavola!” Esordì Greg.

Sherlock si diresse verso il suo posto portando i piatti degli antipasti al centro della tavola.
Poi prese Ellie e la poggiò sulla sedia più alta, e la posizionò alla sua destra; alla sua sinistra subito Jude prese posto, e mentre gli ospiti si accomodavano, Lestrade si accingeva a portare le ultime leccornie, Sherlock iniziò a giocare con il fazzoletto al centro del piatto, creando uno splendido cigno origami, suscitando grande gioia negli occhi dei suoi piccoli nipoti.

“Gli origami. Ricordo. Avevi sempre una quantità smisurata di carta squadrata nello zaino.” Osservò Victor.

“Sì, ancora oggi è così.”

“Non ne dubitavo. Conservo ancora un cigno.”

“Quale dei tanti?”

“Quello che mi regalasti al Sacher coffee a Vienna.”

Sherlock si immobilizzò.

Al Sacher coffee, dopo aver assistito ad uno splendido concerto sulle musiche di Schubert al musikverein, Sherlock gli aveva detto per la prima volta: “Ti amo.” 

   
 
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