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Autore: Shichan    27/07/2009    11 recensioni
«Non è cosa che ci riguardi. Latowidge vede studenti arrivare e studenti andarsene.»
«Quello è uno studente che non deve stare affatto qui.»
«Lo consideri una minaccia?» lo sfotté palesemente, sebbene il tono sembrava rimanere comunque piuttosto pacato, come poco prima. Un nuovo verso stizzito, simile ad uno schiocco di labbra che con la scarsa illuminazione non gli era possibile scorgere con lo sguardo.
Ma dopotutto, non aveva bisogno di vedere. Erano compagni da molti anni; sapeva “osservare” anche solo ascoltando.
«Non incrocerà la tua strada. E nemmeno la mia.» assicurò, concedendosi infine di chiudere gli occhi.

[Personaggi: Un po' tutti]
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Latowidge era un collegio rinomato

Disclaimer: i personaggi di Pandora Hearts sono © di Jun Mochizuki. Gli altri, è la mia interpretazione artistica che tappa i buchi di una trama che necessita tanti pg.

Note introduttive: cercherò di farla più breve possibile, ma sono necessarie. L’intera fanfiction si svolgerà in una scuola (Latowidge, presente anche nel manga): per questa mia trovata geniale, le età dei protagonisti che nel manga sono giustificate dai mille sbalzi temporali del nostro amatissimo Abisso, qui sono inesistenti. Motivo per cui le ho dovute adattare.

Ho cercato di mantere delle linee generali (come il fatto che anche nel manga Vincent e Gilbert si passano un solo anno di differenza), ma in alcuni casi era impossibile. Per un motivo simile ho dovuto rendere Ada sorella maggiore di Oz.

Malgrado io non ami molto inserire troppi nuovi personaggi, qui mi tocca: trattandosi di una scuola con più di dieci studenti sputati quali i nostri amati protagonisti, mi capiterà non solo di sparare nomi a casaccio tanto per far numero, ma anche di dover approfondire un minimo la sfera di quel tale studente-compagno di classe.

Non avranno comunque ruoli rilevanti, ecco tutto: saranno la mia amata cornice.

Infine, ho cercato anche di attenermi abbastanza al manga per quanto riguarda il passato dei personaggi: chiaramente ho dovuto attualizzare e togliere qualche cosa strana come l'Abisso, o le Catene, i salti temporali e via dicendo. Ma Oz ha sempre il padre che meriterebbe il ritiro della patria potestà stile ritiro patente, e Vincent e Gilbert restano adottati (e con parte del loro altresì sfigatissimo passato).

Infine: non so quanto sarà lunga la fanfic, ogni quanto aggiornerò ecc. Ma se vorrete seguirmi, ne sarò felice XD Il rating per ora è arancione, per sicurezza: se la situazione degenera, verrà cambiato in rosso ù_ù”

Mi scuso per le note oltremodo lunghe, ma erano necessarie per facilitare la lettura.

 

 

Latowidge

 

 

Latowidge era un collegio rinomato.

A chiunque si chiedesse nella contea, non faceva che rispondere la stessa cosa: Latowidge è la scelta migliore per i tuoi figli.

Era collocata appena in periferia, subito fuori dalla città ma non eccessivamente lontana, cosicché i genitori più apprensivi fossero in grado di raggiungere la scuola facilmente.

Contava di tre edifici: il più grande era la scuola. Comprendeva le aule per ogni singola materia insegnata e divisa per corsi. Il primo e il secondo anno utilizzavano le stesse classi, le terze erano le uniche occupanti delle aule per il loro anno, ed infine quarte e quinte sfruttavano le medesime classi per le lezioni.

Lo stesso edificio includeva un'aula magna in cui ogni anno aveva luogo un saggio o uno spettacolo a chiusura dell'anno scolastico, una sala piuttosto capiente per ospitare l'annuale ballo di Natale, la segreteria studenti, la sala insegnanti, un ufficio per ogni docente ed infine una biblioteca ad uso e consumo di tutti gli studenti.

Tutte le aule, così come le altre stanze, presentavano un arredamento in legno - elegante ma non pomposo - e l'attrezzatura migliore per il buon lavoro di docenti e studenti.

Gli altri due edifici erano i due dormitori, uno maschile e l'altro femminile, con stanze doppie ed ognuno con un capo dormitorio per ogni anno fra gli studenti.

L'esterno vantava un grande spazio verde adibito a giardino, trattato con cura meticolosa da più di un inserviente.

Quanto alla suddivisione degli studenti, differivano di anno in anno per un particolare della divisa: un'idea della presidenza, per quel che si sapeva. La divisa bianca, sia per le ragazze che per i ragazzi, presentava – obbligatoriamente e previsto dal regolamento – un nastro posizionato sotto il colletto della camicia candida.

Per i ragazzi era sistemato in un fiocco fine, il nastro corto abbastanza perché l'ornamento non risultasse troppo femminile; per le ragazze, vi era un'applicazione simile con la sola differenza che il nastro risultava più lungo, sfiorando spesso la camicia all'altezza del seno.

Sia gli uni che le altre, comunque, cambiavano il colore del nastro in base all'anno di appartenenza: il primo anno bianco, il secondo azzurro, il terzo blu, il quarto di un grigio fumo, il quinto ed ultimo anno nero.

I docenti erano i migliori qualificati, assunti direttamente dalle migliori università del posto e, talvolta, anche di altri Paesi.

In definitiva, l'Istituto Latowidge era famoso e il luogo d'istruzione ideale.

Ma è sempre un collegio, sospirò mentalmente, alzando lo sguardo sull'edificio che si stagliava non troppo lontano rispetto a lui.

Ai grandi ed imponenti cancelli che recavano il nome della scuola, stava fermo e in piedi il classico nuovo studente destinato ad iniziare la sua vita lì di punto in bianco e non dal primo anno.

E se state immaginando un ragazzo depresso, oppure arrabbiato col mondo, che metterà piede lì dentro con l'intenzione di recitare il ruolo dello sfigato i cui genitori lo hanno mandato lì a calci nel sedere, beh... c'è una sola cosa giusta in quest'immagine mentale.

Che non ci stava propriamente andando di sua volontà.

Ma per il resto, Oz Bezarius non la vedeva nemmeno così tragica come poteva apparire.

Si stiracchiò, occhieggiando i propri abiti: gli avevano detto di quanto fosse noto il posto e di quanto solo i figli di famiglie più o meno altolocate vi studiassero – e d'altra parte lui era uno di loro.

Ma aveva preferito non indossare nulla di formale, perché non ci si sarebbe visto, né trovato a proprio agio. E, benché suo padre avesse ampiamente mostrato la sua totale disapprovazione per la semplice camicia bianca con sopra un altrettanto semplice gilet nero, e per i pantaloni al ginocchio – e gli scarponcini "da contadino" e la cravatta "vergognosamente allentata" – aveva comunque fatto di testa propria.

La stessa testa che gli aveva suggerito che farsi venire a prendere all'ingresso da sua sorella non avrebbe entusiasmato suo padre.

Aveva quindi assicurato alla maggiore che avrebbe fatto da solo, e che non doveva preoccuparsi: sarebbe arrivato alla segreteria studenti senza intoppi.

Un'ultima occhiata generale e, valigia alla mano, varcò la soglia avviandosi per il curato vialetto che suggeriva la direzione per raggiungere la scuola.

Più o meno a quello che – ad occhio – gli sembrava il centro del giardino, c'era una fontana, di quelle che a suo avviso erano più tipiche di una tenuta importante che non di una scuola.

Ma non era male: da lì il sentiero guidava ad ognuno dei tre edifici.

Mantenne l'attenzione su quello centrale, il più grande, nonché la sua meta.

«Un nuovo studente, ne? » sentì chiedere senza preavviso al proprio fianco, voltandosi istintivamente a guardare.

L'immagine che inquadrò dopo pochi istanti, gli diede la sensazione di una persona... non proprio grottesca, ma il giudizio non si allontanava di molto.

Tuttavia, abbozzò un sorrisetto leggero: «Si nota?» scherzò su, mentre l'altro sorrideva sottilmente.

Notò che forse era uno dei rari albini di cui aveva letto sui libri: i capelli chiari, e tuttavia troppo per l'età giovane che dimostrava, avevano un taglio scalato che sfiorava appena la base del collo. La pelle chiara, l'occhio che non era coperto dalla frangia era di un insolito rosso carminio.

Gli abiti che indossava gli ricordarono più una divisa: scuri, neri, con ricami argentati; parevano quelli di un qualche ufficiale.

...Non fosse stato per la bambolina di pezza sulla spalla.

«Abbastanza. Sguardo perso per il giardino, abiti tutt'altro che simili alla divisa. E anche la valigia mi ha suggerito che sei un cattivo bambino che rappresenta un nuovo acquisto.» canticchiò divertito – in un modo del tutto personale, osservò lui.

Lo vide portare una mano in tasca e allungare il braccio verso di lui, aprendo la mano stretta a pugno con il palmo rivolto verso l'altro: rivelò ai suoi occhi una caramella avvolta nella carta arancione.

Oz la prese, l'espressione che ricordava un cagnolino scodinzolante di fronte ad un biscotto dato dal padrone. Il suo interlocutore parve trovarlo simpatico.

«E il nuovo studente si chiama Oz Bezarius, scommetto.» finse di indovinare.

Questo lo sorprese un po’ di più in effetti e, al tempo stesso, gli lasciò il sentore che con ogni probabilità quell’uomo non era il giardiniere; se lo era, complimenti per la rete d’informazioni.

Sul momento, comunque, rimase in silenzio e preferì aprire la caramella e mangiarla piuttosto che rispondere. Continuò ad avanzare verso l’edificio centrale, l’uomo che proseguiva al suo fianco con aria tutto sommato divertita e con un passo tragicamente vicino al saltellare.

Si decise a lasciar stare quella compagnia inaspettata per il tempo sufficiente a guardarsi intorno, studiando i tre edifici e le loro disposizioni, così come i sentieri puliti e privi di erbacce che collegavano quel giardino enorme ai dormitori e scuola.

Quando ebbe registrato un'immagine complessiva che potesse soddisfare la sua curiosità almeno per il momento, tornò con gli occhi chiari sull'uomo al suo fianco, che guardava di fronte a sé e non gli aveva ancora posto nessuna domanda.

Fu dunque Oz a parlare: «Tutti a scuola sanno il mio nome?» chiese, ironicamente divertito dalla propria domanda retorica. L'altro parve deciso ad assecondare quel gioco.

«No, no, solo le persone importanti lo sanno!» lo prese in giro. Sembrò stancarsene subito, però, dato che in pochi istanti aggiunse: «Occhi verdi, capelli chiari. Così identico alla signorina Ada, che anche se avessi un cognome diverso non associare le vostre immagini sarebbe impossibile, no?» lo incalzò.

Oz sorrise: effettivamente c'era da ammettere che con quell'aspetto fisico, lui e la sorella non potevano certo fingersi estranei. Non solo avevano entrambi i capelli biondi - forse lei appena più scuri a seconda della luce, e ovviamente più lunghi - e gli occhi di un verde brillante. Anche i lineamenti coincidevano come solo quelli di alcuni fratelli e sorelle potevano fare.

L'unico motivo, probabilmente, per il quale non venivano scambiati per gemelli, era che Ada dimostrava fisicamente i due anni in più che li separavano.

Diciottenne - sebbene da pochi mesi - Ada Bezarius era la più grande dei due figli del casato.

Raggiunse i pochi scalini che portavano al piano rialzato su cui sorgeva l'edificio scolastico, osservando il grande portone in legno scuro, intagliato verso l'interno, con decorazioni non troppo sfarzose.

Rimase qualche istante fermo sul primo scalino; l'altro, al suo fianco, ridacchiò come chi rivede la stessa scena per l'ennesima volta. Lo superò, dunque, raggiungendo il portone e socchiudendo appena una delle due ante, il tanto che bastava da insinuarsi all'interno oltre la soglia.

Tuttavia, non la varcò subito, voltandosi ad osservarlo da sopra la propria spalla: «La segreteria studenti è raggiungibile passando per il corridoio sulla destra.» canticchiò divertito, l'espressione indecifrabile. Oz stava per dire qualcosa - un ringraziamento probabilmente - ma l'altro lo anticipò parlando di nuovo: «Benvenuto, signor Bezarius, attento a non perderti, ne?» aggiunse ed Oz non seppe dire se l'altro parlasse seriamente o se si stesse facendo beffe di lui.

Annuì, nel dubbio, fermando l'altro che a quel punto gli aveva dato le spalle e già faceva per entrare: «Ma il suo nome?» lo interrogò, come se fino ad allora avesse sempre scordato di chiederlo lungo il breve tragitto fatto. Quello ridacchiò.

«Chissà.» fu l'unica replica che gli concesse, prima di scivolare all'interno della costruzione senza chiudere il portone. Spiazzato dalla risposta - o, meglio, dall'assenza di una vera e propria - Oz si affrettò a seguirlo.

Quando ebbe aperto abbastanza il portone da passarvi con l'unica valigia che aveva a mano, quello strano individuo era sparito, ma al suo posto l'ampio atrio dell'istituto lasciava senza fiato e faceva passare di mente in un istante le domande che Oz si era posto fino ad un attimo prima.

Spazioso ed impeccabile nel suo ordine e nella sua pulizia, l'atrio dava una prima impressione di Latowidge che - com'era stato per la fontana all'esterno - somigliava più ad un villa molto grande che non ad una scuola. Per quanto fosse un istituto per figli di famiglie ricche, Oz trovava alcune parti di tutto quel luogo quasi ridondanti.

Il pavimento - in marmo chiaro, molto simile al color avorio - rifletteva le luci dei grandi lampadari in stile ottocentesco che si potevano ammirare alzando lo sguardo: grandi e in cristallo, apparivano fragili quanto bellissimi nelle forme a goccia che scendevano come addobbi dalla base in metallo che si intravedeva appena.

Poco più avanti rispetto a lui e rispetto al portone, c'era quello che - non fosse stato abituato ad ambienti più o meno vicini a quello stile - avrebbe scambiato per uno scherzo, un elemento volto alla sola volontà di portare lo sfarzo all'eccesso.

Sulla grande scalinata che si diramava in due più strette - una che saliva verso destra, l'altra verso sinistra - di fronte ad un grande quadro raffigurante un vessillo che con ogni probabilità era lo stemma di Latowidge, vi era uno strato generoso di moquette rossa che ricopriva buona parte della scalinata e per tutta la sua lunghezza.

Probabilmente, si disse muovendo qualche passo verso la scalinata, entrambe le diramazioni portavano a due diverse aree della scuola. Quel che era certo, comunque, era che se la segreteria studenti non lo avesse munito di mappa, non avrebbe avuto vita facile lì dentro.

Sarebbero state più le volte in cui si sarebbe perso che non quelle in cui avrebbe trovato l'aula giusta all'orario giusto - e possibilmente non dopo una settimana di ricerche.

Riuscendo a spostare lo sguardo dalla scalinata e a portarlo sulla destra individuò il corridoio indicato dall'uomo che sembrava sparito nel nulla. Scrollò appena le spalle: non era proprio il caso di cercarlo alla cieca, tanto più che a conti fatti non aveva altro motivo che la curiosità di scoprirne il nome.

Si obbligò quindi ad ammirare la scuola dopo - magari quando avesse avuto Ada a fargli da guida - e si avviò sulla destra, verso l'ormai famigerata segreteria degli studenti.

 

 

Per sua fortuna, trovare l'ampia sala che ospitava le quattro addette ai documenti e agli archivi non era stato difficile: era bastato andare sempre dritto e controllare le varie targhette in ottone sulle porte in legno scuro come il portone.

Una volta trovata quella giusta, come se avesse avuto un cartello con scritto il proprio nome attaccato al collo, una signora dall'aria cortese gli si era avvicinata riconoscendolo come Oz Bezarius, il nuovo studente.

Si era presa la briga di comunicargli la classe di cui avrebbe fatto parte da quel lunedì, e di dargli l'orario delle lezioni che gli consegnò insieme ad un paio di fogli con il regolamento e con uno più piccolo con sopra scritti il numero della sua stanza, il nome del suo futuro compagno di camera, il nome del capo dormitorio a cui fare riferimento.

Infine, dopo essere sparita qualche minuto in una stanza adiacente, era tornata con la sua divisa nuova e ancora avvolta dalla stoffa scura e anonima per proteggerla.

Armato di tutto ciò e cercando contemporaneamente di non perdersi nulla per strada con tutte quelle cose in mano - ringraziando come non mai che il resto dei bagagli fossero stati consegnati direttamente a scuola - si avviò verso il dormitorio dei ragazzi dove avrebbe vissuto da lì alla fine dei suoi quattro anni di istruzione a Latowidge.

L'edificio del dormitorio, una volta raggiunto, non si era rivelato troppo diverso da quello della costruzione centrale da cui veniva: il portone, del medesimo legno scuro, si apriva su un atrio forse un poco più piccolo. Anch'esso in marmo chiaro e con lampadari piuttosto simili, aveva la scalinata - più stretta - spostata completamente sul lato sinistro. Il resto dell'atrio, altro non era che una sala comune piuttosto spaziosa per gli studenti che gradivano restare in compagnia piuttosto che nella solitudine della propria stanza.

Arredata con gusto ed eleganza, presentava due o tre divani e molte poltroncine. Il camino, addossato alla parete, rendeva facile immaginare che quella sala comune fosse sfruttata più in inverno che non in estate. Un grande orologio a pendolo con la base che poggiava a terra e il legno di mogano finemente lavorato, torreggiava nell'angolo opposto alla scalinata.

Al suo ingresso, qualche studente sicuramente più grande di lui si era voltato, probabilmente attirato dal rumore del portone che si apriva.

Tuttavia, pur avendolo individuato, nessuno aveva detto nulla; non prima, almeno, di averlo visto avere seri problemi a salire più di due gradini senza che la divisa, o la valigia, o i fogli cadessero di mano. O rischiassero seriamente di farlo.

Solo a quel punto uno dei due - Oz sospettava che fosse stato mosso a pietà, o che volesse evitare una morte per soffocamento al compagno che si stava letteralmente sbellicando dalle risate a vederlo in difficoltà - gli fece un cenno leggero con la mano per attirarne l'attenzione.

«Puoi lasciarlo lì, se ne occuperà un inserviente più tardi.» gli fece presente.

Oz osservò incerto le proprie cose, decidendosi magari a lasciare qualcosa, il tempo di individuare la stanza e tornare a riprenderla.

«Largo, largo, non voglio beghe se investo qualcunooo!» sentì esclamare, obbligato da quella voce sconosciuta ad alzare lo sguardo per vedere una testa rossa e dai capelli arruffati sfrecciare sul corrimano in marmo della scala. Lo vide raggiungere la fine dandosi un lieve slancio - o così gli parve - e atterrare con un gesto tecnico che con quello che stava facendo non c'entrava nulla, o comunque dubitava servisse davvero a qualcosa.

Lo vide fare un inchino verso il portone, una folla invisibile che fungeva da pubblico immaginario.

«Ed è ancora Noah Keynes a battere i record di Latowidge! Un salto perfetto, e la folla è in delirio. As usual.» lo sentì commentare e davvero Oz non poté fare a meno di ridacchiare, per quanto perplesso da quel tipo a dir poco singolare.

Sentì il ragazzo più grande che gli aveva consigliato di lasciare lì i bagaglio rivolgersi al rosso con un: «Keynes, dovresti piantarla di fare l'idiota sui corrimano.»

Mentre quest'ultimo replicava qualcosa ridacchiando, Oz poté riservarsi di studiarlo un attimo: i capelli rossi erano scompigliati e appena mossi, tenuti in un vago e discutibile ordine da una fascia scura posta in una posizione apparentemente casuale della testa. Gli occhi, di un castano appena più chiaro del nocciola, erano ridenti ed espressivi; probabilmente erano la parte che più attirava l'attenzione del volto dalla pelle e i lineamenti abbastanza ordinari, seppur attraenti.

Ma di certo non era uno di quei ragazzi che facesse voltare le teste di un'intera sala.

Vestiva, notò Oz, abiti comuni anziché la divisa. E lo fissava tra il divertito e l'incuriosito.

E lui non se ne era accorto.

Abbozzò un sorriso divertito: «Bella discesa.» osservò, non proprio certo del perché l'altro lo osservasse. Ma quello scoppiò in una risata sinceramente divertita, facendogli il segno dell'ok alzando il pollice verso l'alto: «Tecnica che miglioro di anno in anno. Sai com'è, la noia uccide a volte.» commentò con semplicità, facendogli l'occhiolino complice.

Allungò una mano verso di lui: «Noah Keynes, piacere.» esclamò cordiale, occhieggiandolo per qualche attimo e notando la momentanea impossibilità di Oz a stringergli la mano con tutta quella roba. Ridacchiò, ritirando la propria.

«A dopo la stretta di mano. Sei quello nuovo, Oz Beza-qualcosa, giusto?» lo interrogò quasi nell'immediato.

Oz, sebbene un po' frastornato, lo trovava schietto e amichevole; annuì: «Oz Bezarius, sì.» confermò. L'altro annuì di rimando, segno che aveva capito.

«Bene, mi offro di portare una valigia al mio nuovo compagno di stanza. Anche perché non ci sono inservienti che ci fanno da facchini. Prendi nota: ci sono solo quelli delle pulizie e quelli del giardino. E i cuochi, naturalmente.» spiegò con una strizzatina d'occhio, agguantando la sua divisa e facendogli strada iniziando a salire le scale.

Con un'occhiata ai due nella sala comune che erano tornati alle proprie occupazioni, Oz lo seguì per l'intera scalinata e poi per una parte del corridoio sulla sinistra nel quale l'altro si era diretto.

«Mi sembrava un po' strano che ci fossero inservienti che portano le borse.» osservò divertito. Vide Noah, che era avanti a lui sì e no di un paio di passi, storcere appena il naso: «E' solo una cavolata dei più grandi. Sai, lo fanno con le matricole e con quelli nuovi. Penso sia una cosa da che mondo è mondo, ma questo non la rende meno stupida.» osservò, non proprio infastidito.

Sembrava più uno rassegnato.

«Per carità, eh? Io nella stupidità ci sguazzo sempre volentieri. Ma siamo tutti o più o meno ricchi qui. Non capisco il senso di mettere le mani nelle borse dei primini.» concluse, e finalmente Oz comprese il senso del voler far lasciare agli studenti più piccoli la roba nell'atrio.

«E perché dovrebbero? L'hai detto tu che siamo tutti più o meno ricchi qui, no?» gli fece notare, incuriosito e in un certo senso anche perplesso.

Fermandosi davanti ad una porta che Oz dedusse fosse la loro stanza, Noah lo osservò come a dire: "porta pazienza, che vuoi farci?".

«Boh, valli a capire. Sarà che gli fa figo?» si interrogò lui stesso, scuotendo poi la testa ed estraendo dalla tasca una chiave con cui aprì la porta: «Però tranquillo. Non sono tutti così, eh?» assicurò ridacchiando e aprendo definitivamente la porta della stanza.

«Et voilà. Metà del tuo regno da qui ai prossimi quattro anni!» esclamò fingendosi plateale.

Si guardarono un attimo, ridendo entrambi, ed entrando poco dopo.

Mentre Noah si richiudeva la porta alle spalle, Oz si prese il tempo per osservare quella stanza: come c'era da aspettarsi, solo la metà dove stava Noah aveva dei particolari che la rendevano personalizzata. La sua metà, in ordine e anonima, consisteva in un letto dalle lenzuola bianche e pulite ed un copriletto bordeaux, speculare al letto di Noah - con la differenza che su quest'ultimo pareva fossero passati una decina di bambini con la voglia di distruggerlo.

Più o meno di fronte al letto stava un armadio in legno e vicino ad esso Oz riconobbe alcuni scatoloni con le sue cose, ancora chiusi; più in là, in una posizione tale da essere illuminata dalla luce che filtrava da una delle due ampie finestre, stava la scrivania, vuota ed impersonale.

«Visto così fa un po' spoglio, ma tra poco ci saranno su un mucchio di libri e rimpiangerai lo spazio che vedi ora.» assicurò con una nota divertita nella voce mentre si buttava di peso sul proprio letto dopo aver poggiato la divisa del biondo sulla sedia della sua scrivania.

Oz poggiò la borsa a terra, andando a sedersi sul proprio letto, l'aria incuriosita mentre continuava a studiare la nuova stanza, ascoltando di sfuggita l'altro.

«Come mai c'erano così pochi studenti?» chiese, lo sguardo chiaro che andava su Noah, mentre dondolava appena le gambe avanti e indietro, in un gesto abituale. L'altro parve pensarci su qualche attimo, le braccia incrociate dietro la testa.

«Beh, nel fine settimana siamo sempre meno. Alcuni studenti non abitano tanto lontano da qui, e tornano a casa. Qui o sono venuti per la fama del collegio, o ce li hanno mandati i genitori per questo o l'altro motivo. Il primo gruppo, nel fine settimana torna a casa.» spiegò soprappensiero.

Oz annuì distrattamente: lui apparteneva senza alcun dubbio al secondo gruppo, perciò difficilmente sarebbe tornato spesso a casa. Ada, invece, ricordava che a volte lo faceva ora che ci pensava.

«Tu sei del secondo gruppo?» chiese, forse non proprio il massimo del tatto a ben pensarci. Noah non parve prendersela. Al contrario, ridacchiò: «Naah, io e il mio vecchio andiamo d'accordo. Solo che fa un lavoro che lo tiene fuori di casa, quindi è inutile.» assicurò. Oz tacque qualche istante: Noah non aveva esattamente l'aria di un ricco figlio di papà. O, se lo era davvero, si sforzava di sembrare tutt'altro.

«E che lavoro fa?» domandò, la curiosità che ormai faceva tutto per conto suo: «Fotografo. Gira un sacco di posti e secondo me prima o poi si perderà da qualche parte. Ma gli piace, e poi nessuno dei due ha mai fatto storie sulle cose private dell'altro. Io e Chris siamo così.» asserì, il sorriso sulle labbra. Dal tono con cui ne parlava, ad Oz parve abbastanza chiaro che il rapporto fra i due anche se un po' diverso da quello dei canonici padre-figlio, era buono.

«Te invece? Sei il fratello di Ada del quarto anno, vero? Lei so che ogni tanto ci torna a casa.» aggiunse, riportando l'attenzione di Oz sul discorso.

Il biondo annuì, sebbene appena sorpreso: «Conosci mia sorella?» domandò. Da quel che gli aveva detto Ada, un aspetto particolare di Latowidge e dei suoi studenti, era che fra i diversi anni difficilmente c'era un'interazione tale da far sì che qualcuno del quinto anno - ad esempio - legasse particolarmente con uno del secondo o del terzo.

Essendo divisi anche nelle aule che frequentavano, c'era una maggioranza di gruppi primo-secondo anno, o quarto-quinto. Solo il terzo anno era un po' il tramite fra i due gruppi, o per lo più rimaneva con i compagni di corso.

Spesso - aveva detto sua sorella - a Latowidge ti sembra di stare in tante scuole diverse quanti erano le classi e gli anni.

«Non conosco proprio lei, ma la sua compagna di stanza. Mi ha dato qualche ripetizione e da lì siamo diventati amici. Qualche volta è capitato anche di chiacchierare con tua sorella.» spiegò, assumendo un'espressione furba, palesemente divertita da qualsiasi cosa stesse elaborando in quel momento. Lo fissò sogghignando: «Mica avrai il complesso della sorella, eh Oz?» lo sfotté.

Oz si imbronciò quasi istantaneamente, in un cambio d'espressione abituale che spesso assumeva; oltretutto, quella storia del complesso gliel'avevano sempre messa davanti come se fosse scontato.

...Beh, magari lo aveva davvero. Ma solo un pochino!

«Proprio per niente.» borbottò comunque in risposta a Noah, che scoppiò a ridere: «La tua faccia dice il contrario, sai signor Bezarius?» continuò a prenderlo in giro. Oz, seduto sul bordo del proprio letto, si allungò a recuperare il proprio cuscino, lasciandolo e riuscendo a centrare Noah in piena faccia.

Ci fu un verso indistinto, soffocato dalla stoffa dell'oggetto, prima che vedesse riemergere il viso di Noah, il cuscino ora nelle sue mani: «Ti insegno io ad avere rispetto dei compagni che occupano la tua stanza da più tempo, ragazzino!» lo prese in giro, restituendo il favore.

 

 

La lotta con i cuscini che avevano improvvisato e che era degna di due mocciosi non era durata molto ma, come tutte le importanti esperienze della vita, gli aveva dato una lezione basilare.

Nota numero uno: Noah Keynes, neo compagno di stanza, non dovrà mai più essere sfidato ad una battaglia simile.

La sua mira è pessima.

Avevano praticamente messo sottosopra la stanza - addio ordine dalla sua parte. Quella di Noah era già disastrata da prima.

Dopo aver più o meno ripreso fiato e dopo che Oz ebbe sistemato buona parte delle sue cose - Noah era sparito a gironzolare da qualche parte, giustificandosi con un: "abituati, io vivo nel mio disordine organizzato" - mancava ancora un'oretta alla cena.

Non potendo entrare nel dormitorio femminile (così diceva il regolamento che gli avevano consegnato in segreteria) e non avendo ovviamente compiti o simili, aveva optato per un giretto in giardino. Ada l'avrebbe comunque incontrata a cena, con tutta calma.

L'esplorazione dello spazio verde tutto intorno alla scuola aveva occupato anche più tempo di quanto avesse previsto: aveva girato più che altro casualmente, incrociando diversi studenti di diversi anni, quelli che non erano tornati a casa per il weekend e che probabilmente piuttosto che chiudersi in una stanza avevano preferito approfittare della bella giornata per restare all'aperto.

Si stava infine avviando nuovamente verso l’edificio centrale, deciso a darsi il tempo di trovare la mensa, quando qualcuno che avrebbe potuto portarcelo senza intoppi lo individuò, agitando appena la mano verso di lui.

«Fratellino!» sentì chiamare, e non occorreva certo girarsi per indovinare di chi si trattasse.

Nel farlo, comunque, vide la figura della sorella che gli veniva incontro: poche volte l’aveva vista in divisa, giacché tornando a casa di solito lo faceva con abiti comodi e mai con quelli di Latowidge.

D’altra parte, non gli era nemmeno del tutto sconosciuta: non solo per le studentesse incrociate nel giardino quel pomeriggio, ma anche perché ricordava quando la stessa Ada, emozionata per il primo giorno a Latowidge, non aveva resistito e l’aveva indossata per la prima volta proprio a casa loro.

La gonna bianca, che copriva una porzione delle lunghe gambe fino a metà coscia, le calze che celavano alla vista quasi tutto il resto arrivando fin sopra il ginocchio. La camicia candida, portava sotto il colletto un nastrino le cui estremità scendevano quasi fino a metà busto, di color grigio fumo, segno distintivo del quarto anno.

Infine la giacca – anch’essa bianca – completava la divisa.

«Stavi andando in mensa?» lo riportò alla realtà la domanda, Ada di fronte a lui. Le sorrise con dolcezza, assumendo poi subito un’aria spensierata: «Sì, mi muovevo per tempo. Questo posto è grande proprio come lo avevi descritto, sai?» assicurò, vedendola ridacchiare sommessamente portando la mano a coprire educatamente la bocca.

Sembrava felice sua sorella, in quel luogo.

E lui non poté evitarsi di sorridere più ampiamente, felice per lei che nel contempo si era voltata indietro, l’espressione di chi ha dimenticato qualcosa: «Scusami se ti ho lasciata indietro Karin.» la sentì pronunciare.

Si sporse di lato, facendo capolino con la testa dal fianco della sorella e cercando con lo sguardo la “Karin” a cui Ada si era rivolta.

Individuò ormai non troppo distante da loro una ragazza che, ad occhio, sembrava avere più o meno l’età di sua sorella: i capelli corvini, leggermente mossi verso le punte, scendevano sciolti e tenuti in ordine da una fascia bianca, che lasciava libere solo la frangia e alcune ciocche più corte che incorniciavano il viso dalla pelle chiara.

Gli occhi azzurri dall’espressione gentile erano sui due fratelli, il sorriso cortese e gentile rivolto dapprima solo ad Ada, poi anche Oz appena quest’ultimo rientrò nel suo campo visivo.

Sorrise più ampiamente: «Ada, lui è il fratello di cui mi parlavi?» domandò, una nota allegra nel tono di voce. Vide sua sorella annuire un paio di volte.

La affiancò, rivolgendosi quindi a Karin, tendendole la mano: «Oz Bezarius.» si presentò senza bisogno che fosse Ada a farlo per lui. La ragazza gli strinse prontamente la mano: «Karin, Karin Hamilton. Sono la compagna di stanza di Ada.» replicò gentile. Allontanate le rispettive mani, la moretta si rivolse ad Ada.

«Allora io ti precedo in mensa.» disse, spostando poi lo sguardo chiaro su Oz e accennando ad un leggero inchino con la testa: «Piacere di averti conosciuto Oz, e benvenuto a Latowidge.» aggiunse allegra, avviandosi verso un corridoio sulla sinistra.

Lui la salutò con la mano, stile bambino piccolo, l’espressione anche un pelo ebete; Ada sorrise: «Hai già sistemato tutte le tue cose?» domandò, probabilmente impensierita dal fatto che quello fosse solo il primo giorno del fratello.

Annuì, battendosi un pugno sul petto con aria spavalda: «Ovviamente e senza intoppi!» esclamò sicuro di sé, facendola ridere. Si avviarono dunque entrambi verso la mensa: «Il mio compagno di stanza dice di conoscerti. Si chiama Noah Keynes.» osservò, mentre camminavano.

Vide Ada annuire con la coda dell’occhio: «Oh, sì. È un amico di Karin per la verità, ma qualche volta abbiamo parlato. Non sapevo fosse il tuo compagno di stanza.» ammise. Facendo mente locale, collegò le parole della sorella a quelle dello stesso Noah quando aveva detto di conoscere una compagna di Ada e non proprio Ada stessa.

Annuì quindi, mentre ormai varcavano la soglia della mensa: il vociare era concitato, mescolato a risate qua e là. Molti posti erano vuoti, ma spiegò la cosa con la questione del ritorno a casa del week-end di cui gli aveva già accennato Noah. Mentre prendevano posto allo stesso tavolo – dopo essere passati a prendere ognuno il proprio pasto al grande banco dove era possibile servirsi da soli come più si preferiva – Oz osservò i vari tavoli che vedeva tutti intorno.

«Ada?» chiamò, mentre ancora gli occhi chiari vagavano per la sala; la sorella, appena sedutasi di fronte a lui e intenta a spiegare il tovagliolo in cui erano avvolte le posate, alzò lo sguardo: «Dimmi.» replicò incuriosita.

Oz la imitò, sedendosi a sua volta, lo sguardo che rimase sugli altri tavoli ancora un po’ fino a spostarsi definitivamente sulla sorella maggiore: «È vero che anche Gilbert studia qui?» chiese.

Ada sorrise raggiante: «Allora anche tu ricordi Gilbert, Oz?» chiese entusiasta. Lui la guardò per un attimo confuso, senza capire il perché di tanto entusiasmo. Annuì lentamente.

«Perché non dovrei?»

«No, è che quando Gilbert è andato via avevi nove o dieci anni. Anche lui era convinto che non lo ricordassi.» spiegò. Le era capitato di incrociare e parlare con Gilbert da quando studiava lì, dal momento che anche lui era a Latowidge, e il ragazzo si era detto convinto del fatto che Oz difficilmente potesse ricordarlo.

Oz arricciò appena il naso, imbronciandosi: «Appunto, era solo sei anni fa. Non è così tanto da non ricordarlo, Gil è stato da noi per un sacco di tempo, no?» le fece notare, anche se effettivamente non aveva un ricordo preciso di quando fosse arrivato.

Ada sorrise, felice che lo ricordasse: «Vero. E poi a te Gilbert piaceva così tanto, ricordo che facesti un sacco di storie quando se ne andò!» lo prese bonariamente in giro mentre tagliava con attenzione la carne nel proprio piatto. Oz arrossì appena, fingendosi indignato dalla cosa – probabilmente nell’assurda speranza che così l’imbarazzo fosse meno visibile, nella sua vecchia abitudine di esasperare un’offesa o un’indignazione per nascondere dell’altro – ed esclamando un: «Non è affatto vero!»

Ada, benché non avesse certo cambiato idea si limitò a sorridere senza aggiungere altro.

Per contro, Oz sbuffò decidendo di dedicarsi alla sua cena: conosceva la sorella abbastanza da sapere che, qualunque cosa avesse potuto dire lui, lei non avrebbe cambiato il proprio modo di vedere la cosa.

 

 

Osservò fuori dalla finestra, la tenda scura appena scostata dalla mano, il tanto sufficiente a poter guardare fuori senza dare la possibilità a chi era nel giardino del collegio di fare lo stesso.

La stanza veniva appena illuminata dal poco di luce che filtrava da quella piccola apertura, rimanendo per il resto nella penombra e, in angoli particolarmente lontani dalla finestra, nella completa oscurità.

Il respiro regolare e quasi impercettibile risultava, dato il silenzio della camera, un rumore fin troppo udibile; lo sguardo che fino ad allora era rimasto puntato sul giardino si scostò, mentre la mano che lasciava andare le tende faceva sì che la stanza sprofondasse nuovamente nel buio quasi totale.

Avanzò lentamente verso la poltrona della stanza, sedendosi e rilassandosi contro lo schienale, entrambe le braccia poggiate agli appositi braccioli.

Sospirò piano, quasi stancamente.

«C’è odore di qualcosa di nuovo.» sentì pronunciare non troppo distante da sé, da un punto particolarmente nell’ombra alla sua sinistra.

«Così pare.» replicò pacatamente. Un verso stizzito gli diede ad intendere che il suo interlocutore non apprezzasse la novità, o forse la scarsa attenzione che sentiva nel tono dell’altro. Sorrise appena, un ghigno in realtà.

«Non è cosa che ci riguardi. Latowidge vede studenti arrivare e studenti andarsene.»

«Quello è uno studente che non deve stare affatto qui.»

«Lo consideri una minaccia?» lo sfotté palesemente, sebbene il tono sembrava rimanere comunque piuttosto pacato, come poco prima. Un nuovo verso stizzito, simile ad uno schiocco di labbra che con la scarsa illuminazione non gli era possibile scorgere con lo sguardo.

Ma dopotutto, non aveva bisogno di vedere. Erano compagni da molti anni; sapeva “osservare” anche solo ascoltando.

«Non incrocerà la tua strada. E nemmeno la mia.» assicurò, concedendosi infine di chiudere gli occhi.

 

 

 

 

 

Note

E il primo capitolo si concluse *faccia ebete*

Non ho note particolari riguardo il capitolo vero e proprio, giusto una puntualizzazione sul personaggio di Noah.

Di mia invenzione (a scanso di equivoci per chi, magari, non è al passo col manga), si sarà notato che quando parla sembra quasi che io abbia scordato i termini appropriati della lingua italiana XD

 

In realtà, come si capirà poi più avanti, è un tratto “personale” di Noah stesso: si esprime con toni molto colloquiali rispetto al resto degli studenti che si trovano a Latowidge.

Se vi torna più semplice, potete considerarlo come uno che parla lo slang, ecco XD

 

 

   
 
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