Stagioni (crescere)
Se c'erano delle stagioni che a Paolo non erano mai piaciute, quelle erano autunno e inverno. Lo
aveva deciso da bambino mentre, con un'espressione dura e arrabbiata - ma comunque tenera,
dati i suoi sei anni - se ne stava seduto sul divano - quello storico divano che aveva portato a
casa sua l'amato nonno - a guardare la pioggia bagnare il suolo coperto di foglie secche. La
mamma per tirarlo su di morale gli offriva sempre le buone caramelle bicolore, quelle che si
trovano a un prezzo irrisorio praticamente ovunque, e la sua idea non sbagliava mai: concentrato
sul mangiucchiare la deliziosa chicca pareva dimenticarsi di tutto quello che lo circondava,
assaporandone il gusto dolce.
Quelle stagioni erano sinonimo di scuola, freddo, bagnato, scuola: tutto quello che lui proprio
non sopportava, con gli odiosi obblighi che questo comportava. Avrebbe voluto ribellarsi alle
ore passate a sedere davanti alla maestra, segnate da una ricreazione fin troppo breve, che
lo portavano ad agitare le gambe come un forsennato sotto il banco, prima in un modo e poi
in un altro, facendo tremare tutto ciò che aveva poggiato su di esso - e spesso cadere penne
e colla. La campanella di fine giornata pareva una benedizione e quando la sentiva spingeva
frettolosamente ogni cosa in cartella, sebbene la maestra lo stesse rimproverando. Ma lui
era sordo a tali richiami, con la testa già tra le nuvole, pensando a quello che avrebbe fatto il
pomeriggio - sicuramente non i compiti, si diceva, anche se puntualmente sua madre, pur di
farglieli fare, lo acchiappava per il colletto della maglia e lo trascinava al tavolo della cucina, dove
erano sparsi i suoi quaderni scarabocchiati e spiegazzati.
«Guarda qua che sciatteria» gli diceva con disapprovo, indicandogli il materiale scolastico con
la mano «ma che figura te fè, a scóea?¹». E lui sbuffava, stanco di quella solita e ripetitiva lagna,
talvolta beccandosi occhiate che erano peggio di schiaffi in pieno viso o ciabatte volanti².
Quando desiderava uscire, sua madre, concitatamente, lo soffocava di infinite raccomandazioni:
metti il giubbotto, porta i fazzoletti, stai attento quando attraversi la strada, quando torni a casa?
Presto, ovviamente, come ti ho insegnato, che fa buio presto. Lui si limitava a ripetere sì, sì, va
bene, già con la mente altrove, a solcare ad ampie falcate il campo da calcio umido con i suoi
amici d'infanzia. In quei pomeriggi faceva così freddo che addirittura il portiere si sfregava le
mani guantate ed erano tutti costretti a tenere le felpe indossate, mentre il vento mordeva la
pelle di viso e gambe, causa di innumerevoli brividi. Spesso c'era anche la nebbia, che conferiva
un'aria mistica e sospesa agli allenamenti attutendo i fischi dell'allenatore, mentre i suoi
compagni di squadra parevano fantasmi scuri pronti a rubargli quel tesoro che era il pallone.
Alla fine, quando tornavano in panchina a raccattare tutte le loro cose, mille gocce di umidità
imperlavano i loro capelli come piccole gemme trasparenti.
«Accidenti, ma vàrdate³, Paolo!» gli strillava la mamma una volta a casa. Tornava spesso
sporco di terra - o meglio, fango - e lei doveva passare nella piccola lavanderia al piano inferiore
un bel po' di tempo, tentando di far sparire le macchie scure dai vestiti al meglio possibile. La
maggior parte delle volte, prima di spedirlo a lavarsi, si beccava una bella tirata d'orecchie, tanto
da sperare non gli si deformassero, dato quello che diceva la mamma per spaventarlo nella
speranza non rientrasse più conciato in quel modo.
Insomma, fosse stato per lui, un piccolo scalmanato, autunno e inverno li avrebbe eliminati dalla
faccia della terra, con le loro giornate tristemente brevi e gelate.
Alla luce dei suoi diciotto anni appena compiuti, tutto quello lo faceva sorridere e gli colmava il
cuore di un affettuoso divertimento.
Aveva da poco imparato come ogni stagione portasse con sé un dritto e un rovescio della
medaglia: in questo modo era riuscito a riconoscere la bellezza di autunno e inverno, da sempre
odiati, trovando in essi aspetti positivi che ora gli piacevano tanto.
La domenica mattina, dopo una settimana impegnativa di scuola con levatacce mostruose,
era bello svegliarsi per rimanere a riposare ancora un'oretta a occhi chiusi a letto, tirandosi la
coperta morbida che pareva un abbraccio fino alle orecchie. Sentiva la mamma armeggiare con
le stoviglie pulite, riponendole nei cassetti e nella credenza ancora calde, mentre sciabattava⁴
avanti e indietro nella loro accogliente cucina. Da piccolo, invece, sarebbe stato tutto il giorno in
pena per l'arrivo imminente e inevitabile del lunedì scolastico, sbuffando e lamentandosi.
Sua madre non gli faceva più i soliti prediconi interminabili prima che uscisse: si limitava a
guardarlo, apprensiva, caricarsi con disinvoltura sulle spalle il pesante borsone da calcio. Paolo,
dal canto suo, la conosceva fin troppo bene per lasciarsi sfuggire certe note nei suoi occhi
nocciola, così con un dolce sorriso la abbracciava e la salutava con un bacio sulla guancia,
riuscendo sempre a tranquillizzarla. La donna, che aveva ora i capelli bruni attraversati da fine
striature bianche, rimaneva però sull'uscio a guardarlo allontanarsi, gli occhi fissi sulle sue
ampie spalle, sfiorate da selvagge ciocche castane che lei aveva sempre cercato di domare
con la spazzola quando era bambino, senza mai riuscirci. Avrebbe voluto potesse udire i suoi
pensieri, sentire quanto lei fosse fiera di lui e quanto gli volesse bene, un bene dell'anima, però
a Paolo non servivano certo abilità del genere: gli bastava guardarla negli occhi che riusciva a
leggerglielo nelle iridi scure.
Gli piacevano gli allenamenti in quel periodo, adesso; il freddo gli impediva di fermarsi,
costringendolo a rimanere sempre in movimento, e così facendo si rendeva conto di quanto
fosse più facile mantenere d'occhio tutta la squadra e il campo, distribuendo utili e attenti
consigli a tutti. Poi, quando schiere di bambini adoranti si raggruppavano a bordo campo per
guardarli, gli si gonfiava il petto di orgoglio, ma non si lasciava distrarre, e sfoggiava al meglio le
sue capacità da giocatore e capitano, suscitando in tutti i piccoli una grande simpatia e stima.
La pioggia non lo spaventava più: frequentemente infatti si trovava a giocare con i suoi amici
sul campo cosparso di pozzanghere fangose, ma il divertimento stava proprio lì. La sfida - che
nessuno aveva mai lanciato, ma che tutti avevano in mente - era proprio quella di non finire
neanche con un piede in esse, obbligandoli a passaggi e spostamenti precisi e studiati, sempre
di ottimo aiuto nelle partite.
Succedeva anche si accordassero per allenamenti notturni, con l'illuminazione ai quattro lati
che rischiarava a giorno il campo; non era raro concludessero alle due inoltrate, mentre pareva
ancora di udire le pallonate rimbombare per il paese in quel momento deserto. Era di regola,
prima di rientrare a casa, sedersi tutti in cerchio a parlare di quello che sarebbe successo dopo
il liceo: c'era chi sarebbe andato a lavorare dai genitori, chi puntava all'università e chi, come
lui, sognatore incallito, di entrare nella nazionale italiana, a giocare con i migliori calciatori del
Paese. A sentir tale desiderio, i suoi compagni gli assestavano amichevoli pacche sulle spalle,
rassicurandolo che lui ce l'avrebbe fatta, col talento che aveva; e Paolo sperava sinceramente
in cuor suo avessero ragione. E se ne stavano così, spesso per un paio d'ore, a scambiarsi idee
e aspirazioni, seduti sull'erba umida con le gambe contro il petto cinte dalle braccia incrociate,
coraggiosi contro il freddo della notte, mentre il cielo mostrava timidamente la pallida luce delle
stelle e della luna tra le nubi scure.
Gli piaceva il profumo delle foglie secche, quelle appena cadute dagli alberi, che ricordava un
po' l'odore acre del fumo di camino che percepiva seduto sulle vecchie panchine del parco di
fianco casa, mentre assaporava le storiche caramelle che piantavano le radici nella sua infanzia,
tranquillo sotto il grigio cielo plumbeo. Si fermava quotidianamente lì prima di tornare a casa per
pranzo, appena sceso dal bus di ritorno da scuola, con lo zaino accasciato a terra tra i suoi piedi
come fosse stanco anch'esso, dopo le lezioni appena concluse.
Non aveva più fretta arrivasse la primavera o, ancor meglio, l'estate. Forse era questo che
significava crescere: sviluppare una pacata affezione per ciò che da piccoli si detestava, dalle
cose più infime a quelle come le stagioni, che di certo non si curavano delle lagne dei bambini,
e bussavano regolarmente alle case delle persone per annunciare il loro irrimediabile arrivo,
benvenute o meno, ma che sicuramente portavano con loro un dritto e un rovescio della
medaglia.
¹ «Ma che figura fai, a scuola?».
² Le temibili ciabatte volanti dei genitori. Non serve aggiungere altro.
³ «Ma guardati».
⁴ Ciabbatare, ma in dialetto veneto. Si legge s-ciabattare, "scia" non si pronuncia come "sciabola".
Angolino dell'autrice
Salve a tutti! Eccomi con una nuova fanfiction scritta in questa mattina domenicale, mentre fuori
il cielo è grigio pallido. Forse è stato anche questo a invogliarmi a darle vita, sviluppando idee
che avevo in mente già ieri pomeriggio.
Tramite essa ho potuto anche buttare giù quello che provo verso l'autunno e l'inverno: non
avendo mai sopportato queste stagioni, il fatto che ora mi piacciano è una grande evoluzione,
se posso chiamarla così. Un grande traguardo personale.
Nella scelta del personaggio ho voluto sperimentare: mai avrei pensato di scrivere qualcosa
su Paolo, però avevo voglia di rappresentare l'atmosfera del mio piccolo paese (con tanto di
dialetto) e ho pensato che lui fosse il candidato perfetto, essendo tra l'altro italiano. Da bambino
lo percepisco come scalmanato, immaginandolo però più pacato e riflessivo da (fine) liceale.
Un grande grazie va a Lila, che mi ha spronata a tornare a scrivere (e pubblicare) in EFP,
facendomi creare una storia che mi piace tanto. Un abbraccio <3
E un grazie lo rivolgo anche a tutte le persone che decideranno di leggerla e recensirla, grazie a
tutti voi.
Kriss