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Autore: K r i s s    22/09/2019    2 recensioni
{Paolo Bianchi's centric | 1416 parole secondo word}
Dal testo:
"Se c'erano delle stagioni che a Paolo non erano mai piaciute, quelle erano autunno e inverno. Lo
aveva deciso da bambino mentre, con un'espressione dura e arrabbiata - ma comunque tenera,
dati i suoi sei anni - se ne stava seduto sul divano - quello storico divano che aveva portato a
casa sua l'amato nonno - a guardare la pioggia bagnare il suolo coperto di foglie secche. La
mamma per tirarlo su di morale gli offriva sempre le buone caramelle bicolore, quelle che si
trovano a un prezzo irrisorio praticamente ovunque, e la sua idea non sbagliava mai: concentrato
sul mangiucchiare la deliziosa chicca pareva dimenticarsi di tutto quello che lo circondava,
assaporandone il gusto dolce.
[...]
La donna, che aveva ora i capelli bruni attraversati da fine
striature bianche, rimaneva però sull'uscio a guardarlo allontanarsi, gli occhi fissi sulle sue
ampie spalle, sfiorate da selvagge ciocche castane che lei aveva sempre cercato di domare
con la spazzola quando era bambino, senza mai riuscirci."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Paolo Bianchi/Fideo Ardena
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stagioni (crescere)


 Se c'erano delle stagioni che a Paolo non erano mai piaciute, quelle erano autunno e inverno. Lo

aveva deciso da bambino mentre, con un'espressione dura e arrabbiata - ma comunque tenera,

dati i suoi sei anni - se ne stava seduto sul divano - quello storico divano che aveva portato a

casa sua l'amato nonno - a guardare la pioggia bagnare il suolo coperto di foglie secche. La

mamma per tirarlo su di morale gli offriva sempre le buone caramelle bicolore, quelle che si

trovano a un prezzo irrisorio praticamente ovunque, e la sua idea non sbagliava mai: concentrato

sul mangiucchiare la deliziosa chicca pareva dimenticarsi di tutto quello che lo circondava,

assaporandone il gusto dolce.

 Quelle stagioni erano sinonimo di scuola, freddo, bagnato, scuola: tutto quello che lui proprio

non sopportava, con gli odiosi obblighi che questo comportava. Avrebbe voluto ribellarsi alle

ore passate a sedere davanti alla maestra, segnate da una ricreazione fin troppo breve, che

lo portavano ad agitare le gambe come un forsennato sotto il banco, prima in un modo e poi

in un altro, facendo tremare tutto ciò che aveva poggiato su di esso - e spesso cadere penne

e colla. La campanella di fine giornata pareva una benedizione e quando la sentiva spingeva

frettolosamente ogni cosa in cartella, sebbene la maestra lo stesse rimproverando. Ma lui

era sordo a tali richiami, con la testa già tra le nuvole, pensando a quello che avrebbe fatto il

pomeriggio - sicuramente non i compiti, si diceva, anche se puntualmente sua madre, pur di

farglieli fare, lo acchiappava per il colletto della maglia e lo trascinava al tavolo della cucina, dove

erano sparsi i suoi quaderni scarabocchiati e spiegazzati.

 «Guarda qua che sciatteria» gli diceva con disapprovo, indicandogli il materiale scolastico con

la mano «ma che figura te fè, a scóea?¹». E lui sbuffava, stanco di quella solita e ripetitiva lagna,

talvolta beccandosi occhiate che erano peggio di schiaffi in pieno viso o ciabatte volanti².

 Quando desiderava uscire, sua madre, concitatamente, lo soffocava di infinite raccomandazioni:

metti il giubbotto, porta i fazzoletti, stai attento quando attraversi la strada, quando torni a casa?

Presto, ovviamente, come ti ho insegnato, che fa buio presto. Lui si limitava a ripetere sì, sì, va

bene, già con la mente altrove, a solcare ad ampie falcate il campo da calcio umido con i suoi

amici d'infanzia. In quei pomeriggi faceva così freddo che addirittura il portiere si sfregava le

mani guantate ed erano tutti costretti a tenere le felpe indossate, mentre il vento mordeva la

pelle di viso e gambe, causa di innumerevoli brividi. Spesso c'era anche la nebbia, che conferiva

un'aria mistica e sospesa agli allenamenti attutendo i fischi dell'allenatore, mentre i suoi

compagni di squadra parevano fantasmi scuri pronti a rubargli quel tesoro che era il pallone.

Alla fine, quando tornavano in panchina a raccattare tutte le loro cose, mille gocce di umidità

imperlavano i loro capelli come piccole gemme trasparenti.

 «Accidenti, ma vàrdate³, Paolo!» gli strillava la mamma una volta a casa. Tornava spesso

sporco di terra - o meglio, fango - e lei doveva passare nella piccola lavanderia al piano inferiore

un bel po' di tempo, tentando di far sparire le macchie scure dai vestiti al meglio possibile. La

maggior parte delle volte, prima di spedirlo a lavarsi, si beccava una bella tirata d'orecchie, tanto

da sperare non gli si deformassero, dato quello che diceva la mamma per spaventarlo nella

speranza non rientrasse più conciato in quel modo.

 Insomma, fosse stato per lui, un piccolo scalmanato, autunno e inverno li avrebbe eliminati dalla

faccia della terra, con le loro giornate tristemente brevi e gelate.


 Alla luce dei suoi diciotto anni appena compiuti, tutto quello lo faceva sorridere e gli colmava il

cuore di un affettuoso divertimento.

 Aveva da poco imparato come ogni stagione portasse con sé un dritto e un rovescio della

medaglia: in questo modo era riuscito a riconoscere la bellezza di autunno e inverno, da sempre

odiati, trovando in essi aspetti positivi che ora gli piacevano tanto.

 La domenica mattina, dopo una settimana impegnativa di scuola con levatacce mostruose,

era bello svegliarsi per rimanere a riposare ancora un'oretta a occhi chiusi a letto, tirandosi la

coperta morbida che pareva un abbraccio fino alle orecchie. Sentiva la mamma armeggiare con

le stoviglie pulite, riponendole nei cassetti e nella credenza ancora calde, mentre sciabattava

avanti e indietro nella loro accogliente cucina. Da piccolo, invece, sarebbe stato tutto il giorno in

pena per l'arrivo imminente e inevitabile del lunedì scolastico, sbuffando e lamentandosi.

 Sua madre non gli faceva più i soliti prediconi interminabili prima che uscisse: si limitava a

guardarlo, apprensiva, caricarsi con disinvoltura sulle spalle il pesante borsone da calcio. Paolo,

dal canto suo, la conosceva fin troppo bene per lasciarsi sfuggire certe note nei suoi occhi

nocciola, così con un dolce sorriso la abbracciava e la salutava con un bacio sulla guancia,

riuscendo sempre a tranquillizzarla. La donna, che aveva ora i capelli bruni attraversati da fine

striature bianche, rimaneva però sull'uscio a guardarlo allontanarsi, gli occhi fissi sulle sue

ampie spalle, sfiorate da selvagge ciocche castane che lei aveva sempre cercato di domare

con la spazzola quando era bambino, senza mai riuscirci. Avrebbe voluto potesse udire i suoi

pensieri, sentire quanto lei fosse fiera di lui e quanto gli volesse bene, un bene dell'anima, però

a Paolo non servivano certo abilità del genere: gli bastava guardarla negli occhi che riusciva a

leggerglielo nelle iridi scure.

 Gli piacevano gli allenamenti in quel periodo, adesso; il freddo gli impediva di fermarsi,

costringendolo a rimanere sempre in movimento, e così facendo si rendeva conto di quanto

fosse più facile mantenere d'occhio tutta la squadra e il campo, distribuendo utili e attenti

consigli a tutti. Poi, quando schiere di bambini adoranti si raggruppavano a bordo campo per

guardarli, gli si gonfiava il petto di orgoglio, ma non si lasciava distrarre, e sfoggiava al meglio le

sue capacità da giocatore e capitano, suscitando in tutti i piccoli una grande simpatia e stima.

 La pioggia non lo spaventava più: frequentemente infatti si trovava a giocare con i suoi amici

sul campo cosparso di pozzanghere fangose, ma il divertimento stava proprio lì. La sfida - che

nessuno aveva mai lanciato, ma che tutti avevano in mente - era proprio quella di non finire

neanche con un piede in esse, obbligandoli a passaggi e spostamenti precisi e studiati, sempre

di ottimo aiuto nelle partite.

 Succedeva anche si accordassero per allenamenti notturni, con l'illuminazione ai quattro lati

che rischiarava a giorno il campo; non era raro concludessero alle due inoltrate, mentre pareva

ancora di udire le pallonate rimbombare per il paese in quel momento deserto. Era di regola,

prima di rientrare a casa, sedersi tutti in cerchio a parlare di quello che sarebbe successo dopo

il liceo: c'era chi sarebbe andato a lavorare dai genitori, chi puntava all'università e chi, come

lui, sognatore incallito, di entrare nella nazionale italiana, a giocare con i migliori calciatori del

Paese. A sentir tale desiderio, i suoi compagni gli assestavano amichevoli pacche sulle spalle,

rassicurandolo che lui ce l'avrebbe fatta, col talento che aveva; e Paolo sperava sinceramente

in cuor suo avessero ragione. E se ne stavano così, spesso per un paio d'ore, a scambiarsi idee

e aspirazioni, seduti sull'erba umida con le gambe contro il petto cinte dalle braccia incrociate,

coraggiosi contro il freddo della notte, mentre il cielo mostrava timidamente la pallida luce delle

stelle e della luna tra le nubi scure.

 Gli piaceva il profumo delle foglie secche, quelle appena cadute dagli alberi, che ricordava un

po' l'odore acre del fumo di camino che percepiva seduto sulle vecchie panchine del parco di

fianco casa, mentre assaporava le storiche caramelle che piantavano le radici nella sua infanzia,

tranquillo sotto il grigio cielo plumbeo. Si fermava quotidianamente lì prima di tornare a casa per

pranzo, appena sceso dal bus di ritorno da scuola, con lo zaino accasciato a terra tra i suoi piedi

come fosse stanco anch'esso, dopo le lezioni appena concluse.

 Non aveva più fretta arrivasse la primavera o, ancor meglio, l'estate. Forse era questo che

significava crescere: sviluppare una pacata affezione per ciò che da piccoli si detestava, dalle

cose più infime a quelle come le stagioni, che di certo non si curavano delle lagne dei bambini,

e bussavano regolarmente alle case delle persone per annunciare il loro irrimediabile arrivo,

benvenute o meno, ma che sicuramente portavano con loro un dritto e un rovescio della

medaglia.

 

¹ «Ma che figura fai, a scuola?».

² Le temibili ciabatte volanti dei genitori. Non serve aggiungere altro.

³ «Ma guardati».

Ciabbatare, ma in dialetto veneto. Si legge s-ciabattare, "scia" non si pronuncia come "sciabola".

 

Angolino dell'autrice

 Salve a tutti! Eccomi con una nuova fanfiction scritta in questa mattina domenicale, mentre fuori

il cielo è grigio pallido. Forse è stato anche questo a invogliarmi a darle vita, sviluppando idee

che avevo in mente già ieri pomeriggio.

 Tramite essa ho potuto anche buttare giù quello che provo verso l'autunno e l'inverno: non

avendo mai sopportato queste stagioni, il fatto che ora mi piacciano è una grande evoluzione,

se posso chiamarla così. Un grande traguardo personale.

 Nella scelta del personaggio ho voluto sperimentare: mai avrei pensato di scrivere qualcosa

su Paolo, però avevo voglia di rappresentare l'atmosfera del mio piccolo paese (con tanto di

dialetto) e ho pensato che lui fosse il candidato perfetto, essendo tra l'altro italiano. Da bambino

lo percepisco come scalmanato, immaginandolo però più pacato e riflessivo da (fine) liceale.

 Un grande grazie va a Lila, che mi ha spronata a tornare a scrivere (e pubblicare) in EFP,

facendomi creare una storia che mi piace tanto. Un abbraccio <3

 E un grazie lo rivolgo anche a tutte le persone che decideranno di leggerla e recensirla, grazie a

tutti voi.


Kriss

   
 
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