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Autore: kurojulia_    04/10/2019    0 recensioni
«Me ne stavo lì, in piedi... e poi mi dissi: ma che stavo facendo? Per me, era tutto finito. Quindi... che stavo facendo? Perché provavo a fare qualcosa? Perché continuavo, testardamente, a cercare una soluzione per... salvarmi? Mi coprii il viso con le mani. Volevo piangere, ma non una sola lacrima varcava i miei occhi. “Non fermarti”. Così udii alle mie spalle. Una voce, femminile, dolce, vellutata. Quando la sentii, iniziai a piangere senza nemmeno rendermene conto. Mi voltai di scatto, ma qualcosa mi spinse e caddi oltre la porta, in quel buio senza fondo. L'ultima cosa che vidi fu un bagliore dorato».
Genere: Azione, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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01.




Charlotte sollevò lentamente gli occhi dal suo portatile. Le dita si interruppero sulla superficie dei tasti, lo sguardo si allontanò in fretta dal suo studio, precipitandosi in un buio distante anni luce dal luogo in cui si trovava. Le pupille si dilatarono e le iridi grigie vennero inghiottite dal nero.

Quanto tempo passò, prima di fare ritorno in quella stanza? Per lei, una manciata di minuti: all'esterno, un secondo.

Charlotte richiuse la mano sulla tastiera. Socchiuse le palpebre e restò immobile sulla sedia della sua scrivania, in quella posizione. L'orologio sullo schermo segnava le 23.17. La luce bianca del suo computer illuminava ampiamente i lineamenti delicati della ragazza.

 

E così, era successo. Alyon era morto. A vederla così, sembrava che lui avesse predetto ogni cosa: compresa la sua dipartita. «Peccato», bisbigliò, fra sé e sé. «Non era poi tanto male... ». Le parole della ragazza morirono in quella stanza fiocamente illuminata. D'altronde, c'era solo lei lì dentro, come al solito.

 

Alyon Henrik Akawa era morto. Lei l'aveva avvertito come un mal di testa.

E se il vampiro secolare aveva lasciato il mondo, allora...

«Devo prepararmi».

 

L'istante dopo, lo studio era vuoto.

 

 

 

***

 

 

 

Takeshi spalancò gli occhi, annaspando.

Aveva fatto un sogno. Lo stesso di sempre, per inciso.

 

Fermo e rigido nel suo letto, le braccia sopra le coperte blu, Takeshi respirò flebilmente dalla bocca, e richiuse le palpebre.
Avrebbe potuto giurarlo, ma ogni giorno che passava, quel dannato sogno diventava più vivido. Man mano che le notti trascorrevano e le mattine si dissolvevano, nel suo petto una sensazione aggrovigliata cresceva e lievitava. Quel giorno – il terzo 18 aprile da quando aveva lasciato Yoshino – la sensazione era più forte del solito. Ma forse era tutta una brutale allucinazione. 

 

Secondo la psicologa che lui e tantissimi altri studenti avevano dovuto consultare, stava soffrendo di stress post-traumatico. Specialmente lui, poiché quella fatidica mattina, su un palcoscenico di guerra, l'unica persona ad aver perso la vita era stata la sua fidanzata.

Beh, nessuno poteva sapere come erano andate realmente le cose. Nessuno avrebbe potuto diagnosticare qualcosa sulla base di quelle informazioni, vere solo in piccolissima parte. Sia lui che Sayumi non avevano avuto scelta che rivelare la prematura scomparsa di Yuki Akawa, sebbene omettendo svariati particolari, per esempio il modo in cui era morta.

 

Secondo la versione ufficiale, lei era rimasta fatalmente ferita quando si era aperta la voragine sopra al palcoscenico. I detriti, cadendo, l'avevano schiacciata, e non c'era stato niente da fare – e quando la scuola e la polizia li avevano interrogati a proposito della sparizione del corpo, Takeshi era stato sul punto di passare alle mani. Doveva ringraziare Sayumi e gli altri se non era finito in un carcere minorile.
Per fortuna, avevano creduto alla scusa secondo cui la famiglia Akawa aveva preteso il corpo della ragazza, per farlo riposare nella cripta di famiglia, anche se aveva sollevato svariati – immensi – problemi. Ma, a causa della loro reputazione non proprio stupenda, la cosa non era durata troppo allungo.

Queste – e molte altre – erano state le stesse parole che Takeshi aveva ripetuto a quell'inetta della psicologa, nel corso delle sue sedute. Persino Takahiro, per una volta, aveva dato ragione al figlio, e aveva riconosciuto l'idiozia secondo cui lui stesse soffrendo di stress post-traumatico.
Misaki no. Misaki non aveva avuto dubbi, sin da quando era corsa a scuola e aveva trovato il ragazzo nel giardino della scuola, su una panchina, con la testa fra le mani.

 

Con un po' di fatica, il bruno si tirò su a sedere, spostando le coperte. Si passò una mano sulla metà destra del viso, spettinandosi i capelli scuri. Lo sguardo socchiuso fissava il pavimento in parquet di fronte ai suoi piedi.
Rispetto a quando aveva diciassette anni, non aveva più bisogno di una sveglia sul comodino per svegliarsi all'ora giusta; il suo corpo, da quando viveva in quella casa con Sayumi e Tetsuya, si era naturalmente abituato a destarsi alle 9.30, l'orario in cui il ragazzo si preparava per uscire e andare a svolgere la solita mansione: raccogliere erbe, funghi, fiori e qualsiasi altra cosa potesse diventare utile.

Fosse dipeso da lui, non avrebbe preso quell'abitudine. L'aveva fatto unicamente per Sayumi, sotto sua richiesta. Almeno così lei non si sarebbe impensierita per lui.
 

Takeshi si mise in piedi, sbadigliando ampiamente. Si diresse verso la porta della sua camera, la aprì ed uscì nello stretto corridoio. Lo percorse fino in fondo, superando altre due stanze, e giunse alla porta del bagno; il bagno del piano di sopra era dieci volte più piccolo di quello accanto al soggiorno, ma era anche quello che Takeshi preferiva, perché lo aiutava a sentirsi rilassato quando lo assalivano i tipici cattivi pensieri.
Dentro quel bagno, mentre si faceva la doccia e il getto dell'acqua tiepida gli graffiava il viso, non pensava proprio a nulla.

 

Ed era la migliore delle situazioni a cui potesse aspirare.

 

Quando finì la doccia, si avvolse nell'accappatoio ceruleo e tornò nella sua stanza per vestirsi. Dal momento che la sua nuova abitudine prevedeva fango, terra e probabili animali da cui stare alla larga, il ragazzo doveva indossare sempre abiti comodi e veloci; allora indossava un paio di jeans strappati sulle ginocchia, una maglia a maniche lunghe di cotone, degli anfibi neri e una felpa pesante addosso.
Di fronte alla porta della sua camera c'erano le scale interne che portavano al piano inferiore, una decina di gradini prima di entrare nel soggiorno, un ambiente unito alla cucina. Quando Takeshi vi giunse, sulla destra, come tutte le mattine, Tetsuya Tanigawa se ne stava comodamente seduto sul sofà viola, reggendo nella mano destra un libro – ah, quel giorno si trattava di “The new hunger”, di Isaac Marion – e nella sinistra la guancia.

«Ma guarda, ti sei dato al contemporaneo», constatò Takeshi, passando accanto al divano e raggiungendo la cucina in fondo.

Il vampiro sollevò gli occhi dalla pagina, molto lentamente, molto riluttante. La sua passione per la lettura la doveva a qualcuno in particolare, un qualcuno che si era sempre rinchiuso insieme al marito nella biblioteca privata, per ore e ore, immergendosi in un mondo fittizio.

«Sì; mi stavo cominciando a stufare della letteratura ottocentesca». Tetsuya lasciò il polpastrello sulla pagina, come segnalibro, e si voltò in direzione del suo migliore amico, osservandolo bere un bicchiere di spremuta. Takeshi, a sua volta, ricambiava lo sguardo mentre mandava giù la sua fresca spremuta.

 

Dopo la morte di Yuki, la polizia e la scuola avevano dato il via ad una situazione assurda e insensibile.

Da un certo punto di vista, era logico; non solo un tetto era crollato, uccidendo una ragazza, ma centinaia di estranei erano piombati nell'auditorium e avevano cominciato ad assalire gli studenti, senza nessuno scrupolo, senza nessuna distinzione. Alla pupilla del paese – e, ad occhio e croce, dell'intero Giappone – quello era stato parecchio simile ad un atto di terrorismo.
Aveva smosso tutta Yoshino, radicando paura e confusione.
A confortare il paese e gli abitanti era il pensiero che non c'erano stati altri morti e pochissimi feriti.
Tuttavia...

Una conseguenza ben più grave vide la luce.

Le fiamme di Tetsuya non erano passate inosservate. Quel giorno, le sue fiamme avevano probabilmente accentuato la paura di tutti gli esseri umani presenti, ma avevano soprattutto salvato tutte le loro vite – tutti quanti, nessuno escluso. Questa verità, però, non era stata condivisa da tutti; per degli esseri umani che non ne avevano mai saputo niente, per delle persone che si erano sempre affidate al raziocinio, quello che avevano visto era semplicemente impossibile: era motivo di terrore.

Dunque, molto presto, si crearono due gruppi, ed entrambi avevano vissuto sulle spalle di Tetsuya Tanigawa come avvoltoi per un anno.

Da una parte c'erano stati quelli che avevano condannato il vampiro, etichettandolo come un mostro da cacciare dalla città.

Dall'altra parte, invece, si era creato un gruppo che voleva proteggerlo a tutti i costi, perché era stato il loro salvatore.

 

Il vampiro non aveva avuto nessuna scelta. Doveva nascondersi.
Non aveva salvato quelle persone perché poi vivessero con la paura costante di morire il giorno dopo: non era per questo che lui aveva prestato la sua forza, togliendola alla sua migliore amica. La cosa “buffa” era che le sue fiamme avevano attirato così tanto l'attenzione degli umani che il combattimento intrapreso da Yuki Akawa era caduto nel dimenticatoio.

Tetsuya si era rifugiato a casa Akawa e aveva continuato a vivere con Ai – l'unica Akawa rimasta in vita... – fino a quando Takeshi e Sayumi, finalmente, non ebbero conseguito il diploma, e tutti insieme se n'erano andati.
Un anno intero in quella grande casa era stato... difficile. Era stato difficile ma necessario. In questo modo, era stato accanto alla piccola mezzosangue senza nessun ostacolo – e per fortuna, nessuno osava avvicinarsi a quella sorta di castello ingrigito dalla morte.
Nessuno voleva avere un faccia a faccia con i proprietari di quel posto, eccetto per qualche forza dell'ordine che, di tanto in tanto, si aggirava nei boschi e cercava di valutare – stupidamente – ciò che aveva di fronte.

 

 

«Smettila di guardarmi», disse Takeshi, lasciando il bicchiere di vetro nel lavandino.

Il vampiro sorrise, voltandosi dall'altra parte e riprendendo il libro. «Certo, mio signore».

Tetsuya, come ogni vampiro al mondo, non era invecchiato di una virgola, sebbene avesse quasi venticinque anni. Gli occhi viola erano sempre acuti, il loro colore vivido come un'ametista, il taglio affilato. La pelle era diventata quasi più chiara e bianca di prima e la corporatura fisica era leggermente più robusta. In generale, solo i suoi capelli biondi – un quasi accecante color crema – avevano subito un vero cambiamento; forse il vampiro si era stufato di portarli sempre allo stesso modo, ma adesso i lunghi ciuffi che gli cadevano sulle guance erano stati accorciati all'altezza degli zigomi.

 

«Dov'è Yumi?», chiese Takeshi, guardandosi intorno alla ricerca di un foglietto.

«Ha detto che andava dal nostro “vicino” a portare un campione della nuova erba che sta studiando, hai presente?».

«Ah, sì. Ma non è un po' uno stramboide, quel tizio? Avresti fatto meglio ad andare con lei».

Tetsuya accavallò una gamba sull'altra. Improvvisamente nervoso. «Beh, dobbiamo andare in paese a comprare qualcosa per la cena di stasera, quindi magari... potrei raggiungerla».

Il bruno, raccolto il foglietto scivolato sul pavimento e afferrato il solito sacchetto di stoffa, si lasciò andare ad una breve risata. «Beh, qualsiasi cosa decidiate di fare, fate attenzione. Io sto uscendo, ci vediamo dopo», disse, per poi uscire dalla casa, lasciandosi alle spalle un vampiro sempre più preoccupato.

 

 

 

***

 

 

 

Fuori dalla porta, Takeshi si trovò nella piccola veranda. Di fronte ai suoi occhi, come tutte le sue mattine da tre anni, si stendeva una morbida distesa verde, i ciuffi d'erba e i fiori incorniciavano la collina come un dipinto estremamente realistico. Ogni volta, sembrava che il tempo avesse smesso di muoversi. Si sentiva il fischio del vento serpeggiare nel verde, scompigliare le bocche di leone, e dirigersi verso la curvatura della collina, raggiungendo così il paese sottostante.

 

Dopo essersi diplomati, Takeshi, Sayumi e Tetsuya avevano abbandonato il piccolo e minuscolo paese Yoshino e con esso, anche la regione del Kansai. Era stata dura lasciare quel posto. Un luogo dove avevano passato tanti anni e dove erano cresciuti, dove avevano conosciuto tante persone e vissuto altrettante esperienze.
Takeshi non avrebbe voluto allontanarsi così tanto da sua madre e suo fratello, ma era ciò che doveva fare: non poteva più stare lì. Anche solo per aiutare Tetsuya ad uscire da quello stato di prigionia.

Per questo si erano trasferiti nella regione di Chuubu, nella prefettura di Shizuoka.

Tuttavia, i tre avevano arginato la città – decisamente più popolosa del loro vecchio paesello, con ben 700.000 abitanti – e si erano diretti, senza voltarsi indietro, verso le grandi colline più vicine, alle cui spalle sorgevano spicchi di montagna. Sotto le montagne sorgeva una sorta di villaggio composto da poco più di 500 persone, mentre in tutta la zona sulle colline, c'era solo un'altra abitazione, piccola – e lì avevano trovato una casa in cui vivere.
Di modeste dimensioni ma confortevole e rassicurante, era stata l'abitazione di Tetsuya durante il suo periodo da “persona scomparsa”, proprio dopo il doppio suicidio dei suoi genitori; il vampiro aveva fatto tante, tantissime tappe, spostandosi da una città all'altra, da una regione all'altra, incapace di fermarsi in un solo posto – e Shizuoka era stata una delle zone in cui si era fermato per più tempo.

 

 

«Vediamo che cosa devo raccogliere stavolta... », il bruno spiegò il foglietto e lo lesse mentre camminava in mezzo all'erba, affondando gli anfibi nel terreno.

Come sospettava – dal momento che erano in primavera, oramai – nella lista c'erano nomi come fragole, rosmarino e farfara. Tutte piante che si trovavano in primavera e che avrebbero potuto continuare a farne uso fino alla fine dell'estate.
Giunto di fronte all'ingresso dell'immensa foresta, il ragazzo sollevò il volto, osservando il vento soffiare e spostare le punte degli alberi.

«Bene», si disse, inspirando ed espirando. «Cominciamo dalle fragole». A forza di passare tutto quel tempo nella foresta, aveva cominciato a parlare da solo. La cosa era alquanto buffa. Per fortuna, lì non c'era quasi mai nessuno, e quello restava un suo segreto.
Inoltre, imparava un sacco sulle piante tutti i giorni, perché Sayumi aggiungeva una piccola descrizione della pianta accanto al nome; le fragole che lui aveva sempre conosciuto come un frutto dolce e un po' acidognolo, erano molto efficaci contro le infiammazioni della pelle.

 

Il moro abbassò la testa e passò sotto ad un ramo di ciliegio. Da quel punto in poi, cominciava un percorso strettamente costeggiato dalla vegetazione, per una durata di dieci minuti. Takeshi lo attraversò, con la solita attenzione, estraendo dalla tasca della felpa il sacchetto di cotone.
Alla fine del sentiero, la strada finalmente si apriva e si faceva più spaziosa. Takeshi si spostò sulla destra, piegandosi sulle ginocchia di fronte ad un rigoglioso cespuglio. Ecco le fragole.
Secondo una delle tante regole, non bisognava mai svuotare un punto di raccolta, benché meno portarlo quasi al limite; allora il ragazzo aveva imparato a raccoglierne cinque al massimo, infilarle nel sacchetto e poi dirigersi direttamente al suo prossimo obiettivo.

 

A questo punto, toccava al rosmarino.

L'avrebbe trovato in un punto più roccioso. Sayumi aveva specificato di raccogliere sia le foglie che i rametti.

Il moro fece per girarsi di spalle e sollevò il piede per fare un passo, quando in quell'istante uno scoiattolo sfrecciò sul terriccio, di fronte a lui. Takeshi sospirò profondamente – ci era mancato poco, stava per calciarlo via per sbaglio. Cose come quelle, comunque, potevano succedere. D'altronde stava infestando il loro terreno.

Subito dopo, un secondo scoiattolo fece la stessa cosa, come se volesse raggiungere il primo. Adesso Takeshi era quasi divertito. A quel punto, un coniglio di medie dimensioni sbucò dalla stessa direzione, correndo in diagonale velocemente.

Okay, inizia ad essere strano, pensò il bruno, girandosi a guardare il punto da cui i tre animali erano giunti. Quella strada portava ad un ampio spiazzo circolare, tutto abbracciato da alberi e cespugli.

Non molto lontano, si sentivano versi di animali, bassi e alti, cinguettii e squittii, un frusciare accennato di foglie.

 

Takeshi non ricordava di aver mai vissuto una situazione simile. Ma non ci voleva un esperto per capire che qualcosa non andava. No, quelli non erano dei segnali positivi. Il bruno indietreggiò lentamente, tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé. Proseguii a tentoni, rivolgendo le spalle al sentiero che l'avrebbe ricondotto verso casa.

Non ho idea di cosa ci sia lì, pensò, ma non ho voglia di scoprirlo.

Aveva paura che ci fosse qualcuno in pericolo. Magari una persona era rimasta ferita. Forse avrebbe dovuto andare a controllare, alla fine. Si fermò, piantando gli anfibi nel terreno.

«C'è qualcuno?». Nessuna risposta. «Se sei lì, rispondi».

«Sì, ci sono io», rispose una voce di uomo.

Dallo stesso punto in cui erano spuntati gli animali, Takeshi vide apparire un uomo. Era molto alto, slanciato come un palo della luce, e indossava un completo scuro con fedora e lunga giacca. Era vestito parecchio pesante per essere in primavera. Ed era elegante, inadeguatamente elegante.
Di sicuro non si indossano fedora e completo per entrare in una foresta. Takeshi analizzò il viso dell'uomo; aveva occhi piccoli e un po' incavati, un lungo naso adunco e la pelle candida. A dir il vero, il suo viso, nel complesso, era stranamente tirato, come se qualcuno ne stesse strattonando i lembi.

Il ragazzo lo osservò con celata attenzione. «Si è perso?», domandò, lentamente.

«Ah», rispose l'uomo, aggiustandosi il cappello sul capo. «Direi di sì. Stavo puntando alla città ma ho decisamente preso un abbaio, se ora mi trovo qui». L'uomo sorrise, un grande e largo sorriso cordiale.

Takeshi voleva prendere il suo pugnale. Avrebbe voluto con tutto il cuore. Ma era una stupidaggine, perché avrebbe mai dovuto? «Se vuole tornare in città, deve scendere da questa parte», disse, indicando alla loro sinistra con il pollice, dove la collina si inclinava. Infatti, non molto lontano si intravedeva il profilo del villaggio. «L'avviso in anticipo: non posso accompagnarla, ho del lavoro da sbrigare».

«No, per carità. Si vede benissimo il paese. Stavolta non finirò in una foresta». Lo sconosciuto guardò verso il villaggio. I piccoli occhi brillarono. Takeshi li aveva visti chiaramente. «Sembra essere un posto piccolo e accogliente... ».
L'uomo si voltò verso Takeshi e gli sorrise riconoscente. «Grazie per la dritta. Spero proprio di... », lo sconosciuto lasciò in sospeso la sua frase. Attraversò i pochi metri che lo separavano dall'uscita. I mocassini, lucidi e ben tenuti, affondarono nell'erba. L'uomo a quel punto si soffermò accanto a Takeshi e si avvicinò leggermente al suo orecchio. «... incontrarti di nuovo, mio caro amico bruno».

Takeshi socchiuse le palpebre.

«Voglio dire!», esclamò l'altro, tornando dritto. «Mi sei stato molto utile. Chissà dove sarei finito, se non fosse stato per te!».

Il bruno non rispose. Si limitò a tenerlo sotto d'occhio, con freddezza calcolata.

Nemmeno l'uomo in completo disse qualcosa. Gli fece un altro sorriso, stavolta più sincero, e si voltò verso la discesa della collina.


 

 

***

 

 

 

«Sono tornato». Takeshi richiuse la porta, producendo un tintinnio. Il salotto era vuoto, così come la cucina. Non c'erano né Tetsuya né Sayumi. Lui era mancato da casa per due ore, il tempo di finire la raccolta e di tornare a casa, e ci aveva impiegato anche un po' più del solito, a causa di quello strano incontro. Tetsuya e Sayumi avrebbero dovuto fare la spesa – o almeno così aveva detto il biondo – ma di sicuro non ci avrebbero impiegato ben due ore. Forse avevano qualcos'altro da fare.

Takeshi si avvicinò al ripiano in cucina e ci lasciò sopra il sacchetto con tutta la raccolta di quella mattina. Si diresse all'attaccapanni e vi appese la felpa.

Adesso non aveva granché da fare.

Si avvicinò al divano. Sul bracciolo c'era il libro che Tetsuya stava leggendo. Takeshi si lasciò cadere sul posto accanto, tirò fuori il cellulare dalla tasca e compose il numero di Sayumi.
Come volevasi dimostrare, la suoneria del telefono dell'amica si sentiva. Aveva lasciato il telefono a casa, di nuovo.

«Ma che ce l'ha a fare?», borbottò il bruno.

 

Allora provò a chiamare Tetsuya. Lui se lo portava sempre dietro.

Dopo un paio di squilli, si sentì la sua voce. «Pronto?».

«Tetsu? State facendo la spesa?».

«La spesa?», ripeté Tetsuya. «A dir il vero... ».

«L'abbiamo fatta!». Era Sayumi. Avrebbe riconosciuto la sua energica e dolce voce fra mille. «E adesso stavamo facendo i detective!».

Takeshi aggrottò le palpebre. «Come sarebbe i “detective”?».

«Adesso non possiamo parlarne», rispose Tetsuya. «C'è troppa gente, siamo in piazza. Però è una cosa abbastanza importante, quindi ne parleremo appena torniamo a casa». Il biondo sembrò sul punto di salutare Takeshi, ma poi si fermò. «Ah, giusto. Non uscire di casa. Non da solo. E non adesso».

«Okay, non... », il bruno sospirò. «Okay. Allora a dopo».


 

 

 

 

 

NOTA:
Partiamo dal presupposto che non avrei dovuto pubblicare. Ho scritto e completato sette capitoli, più un ottavo in diritura d'arrivo – e sono pochissimi per riprendere a pubblicare. Specialmente se sto pubblicando l'ultima parte di questa storia. Ma ragazzi, non giudicatemi, NON CE LA FACEVO.

In ogni caso. Bentornati!

Sono un po' di fretta al momento quindi perdonataemi se sto scrivendo una nota totalmente scema e senza senso, ma sappiate solo che sono felicissima. E non vedo l'ora di vivere quest'ultima parte insieme a voi.

Per il momento, adios!!

   
 
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