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Autore: ChiiCat92    09/10/2019    0 recensioni
"La notte era calata in fretta, quasi all’improvviso, mentre ancora erano in giro a raccogliere legna per il fuoco.
Quando avevano raggiunto il campo era buio pesto, tanto che a malapena si scorgevano le sagome delle tende contro quelle più scure e fitte degli alberi.
Suo padre aveva acceso subito le lampade ad olio che erano state sufficienti per allargare una macchia di luce bianchiccia intorno alle loro gambe.
Lea ne aveva avuto paura."
Questa storia partecipa al Writober 2019 di Fanwriter.it, lista PumpINK.
#writober2019 #fanwriterit #halloween2019
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Isa, Lea
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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09/10/2019

 

Bosco 


La notte era calata in fretta, quasi all’improvviso, mentre ancora erano in giro a raccogliere legna per il fuoco. 

Quando avevano raggiunto il campo era buio pesto, tanto che a malapena si scorgevano le sagome delle tende contro quelle più scure e fitte degli alberi.

Suo padre aveva acceso subito le lampade ad olio che erano state sufficienti per allargare una macchia di luce bianchiccia intorno alle loro gambe.

Lea ne aveva avuto paura. 

Andare in campeggio con suo padre era una sorta di punizione impostagli dal giudice, da sua madre e dalle circostanze. Odiava il freddo, la scomodità, il cibo bruciato fuori e crudo dentro, le piogge improvvise. I versi delle creature che si nascondevano nell’oscurità.

Ma era l’unico modo per stabilire un legame con suo padre, dal momento che la sua incapacità sociale si esprimeva con weekend all’addiaccio in tenda. 

Magari un giorno sarebbe riuscito a dirgli che odiava il campeggio e che avrebbero potuto tentare di fare qualcos’altro. Persino andare ad una partita di baseball sarebbe stato meglio, o avrebbe potuto premere sul divorzio per farsi portare a Disneyworld o qualcosa del genere.

Ma per iil momento, e dai suoi immaturi dodici anni d’età, Lea si faceva andare bene il campeggio, nonostante tutto. 

Quando suo padre, raschiando la lama del coltello sull’acciarino, riuscì ad accendere il fuoco, il bosco sembrò meno spaventoso.

La luce delle fiamme vive, danzanti sui ciocchi di legno, emanava un calore che non solo arroventava la pelle, ma avvolgeva e scaldava anche l’anima.

A differenza delle lampade ad olio quella luce arancio e rossa teneva lontane le creature che vivevano nel folto.

Lea allungò le dita verso il fuoco per scaldarle. Erano anchilosate e gelide nonostante i guanti, a malapena era riuscito a non farsi scappare un gemito di dolore quando aveva dovuto portare la legna da ardere. 

A suo padre non piacevano le femminucce, un vero uomo non si lamenta di cose come freddo, stanchezza o fame, un vero uomo strappa ringhiando quel che necessita per sopravvivere direttamente dalla madre terra. Per questo partivano senza scorte di cibo e acqua: tutto ciò di cui avevano bisogno si trovava intorno a loro, dovevano solo prenderselo. 

Il ragazzino alzò gli occhi sul padre. A volte si chiedeva se sarebbe diventato come lui da grande, massiccio, silenzioso, con un’eterna rabbia negli occhi, poi ricordava di somigliare molto più a sua madre. Forse era per questo che lui lo sottoponeva a quelle prove estenuanti: gli ricordava troppo la sua delicata moglie, e non poteva accettarlo.

Da lei Lea aveva ereditato la pelle leggermente brunita, baciata dai raggi del Sole, il color rosso fuoco dei capelli e il corpo sottile. Da lui, però, aveva preso lo sguardo: verde smeraldo, rigido e intenso.

Ma la rabbia, la rabbia… 

Lea sobbalzò quando il verso di un uccello notturno spezzò il silenzio. A quell’ora, quando il sole negava la sua benedizione alla Terra, il bosco di risvegliava, animato da nuova vita. 

« Che cos’era? » gli chiese l’uomo, senza alzare gli occhi dal pesce che stava sviscerando e squamando, lentamente, metodico. Le interiora da una parte, le ossa dall’altra. Le avrebbe messe in un sacchetto e poi sotterrate per nascondere l’odore agli orsi. 

« Credo fosse un barbagianni. » tentò lui, incerto.

L’uomo abbozzò un sorriso, tirando su solo un angolo delle labbra: aveva indovinato. Lea sentì le spalle rilassarsi appena. Desiderava così tanto un gesto di apprezzamento da parte sua. Tutto sommato gli andava bene essere lì con lui, a Disneyworld poteva sempre andarci con sua madre. 

L’uomo infilò il pesce pulito su di un rametto che poi conficcò vicino al fuoco così che potesse cucinare, passò quindi al secondo. 

Lea sentì lo stomaco lamentarsi. Il pesce non gli piaceva, ma non intendeva dirlo a suo padre. 

Ci aveva provato una volta, chiedendo timidamente se fosse possibile mangiare qualcosa di diverso per una volta. Lui gli aveva ficcato a forza tra le mani un coltellaccio da caccia e gli aveva indicato il bosco, là dov’era più nero e intricato. 

“Va’ e prendi quello che ti serve.” gli aveva detto. 

Da quel momento in poi Lea si era fatto andare bene qualsiasi cosa riuscissero a pescare. D’altronde si trattava solo di un paio di pasti, tornato a casa avrebbe avuto hamburger e hot dog a volontà. 

Strinse le gambe al petto, cercando di scaldarsi. Cominciava ad accusare la stanchezza. Non riusciva neanche a ricordare dove avessero parcheggiato il fuoristrada, sapeva però che avevano percorso tre chilometri almeno con indosso tutta l’attrezzatura prima che suo padre trovasse il punto perfetto per accamparsi. Avevano montato le tende e costruito un circolo di pietre per il falò in poco meno di due ore, dopo di che erano andati a procurarsi la cena, e la legna per cuocerla. Non si erano fermati un attimo e ora che finalmente poteva ascoltare il suo corpo, Lea si rendeva conto di essere allo stremo delle forze. 

Trattenne uno sbadiglio affondando il viso tra le ginocchia perché il padre non lo vedesse. Il barbagianni che aveva sentito prima urlò ancora una volta tra i rami, facendolo rabbrividire. L’uccello era di certo a caccia, e non aveva paura di far sentire la sua presenza alle prede. 

Quando il primo pesce fu cotto, l’uomo lo divise in parti uguali e, con l’aiuto di foglie verdi da usare come piatti, cominciarono a mangiare. 

Era stopposo, insipido, grasso, ma era caldo, e Lea ne aveva bisogno. Lo mangiò a piccoli bocconi, perché sapeva che sarebbe scomparso in un attimo una volta toccate le pareti dello stomaco. E intanto gli occhi grandi, affamati, guardavano l’altro spiedino, dove cuoceva lentamente il secondo pesce. 

« Vuoi sentire una storia? » chiese l’uomo. 

Lea avvertì un brivido e le pelle delle braccia si accapponò. Aveva una passione morbosa per le storie che suo padre raccontava quando erano da soli nel bosco. Aveva come l’impressione che fosse qualcosa di condiviso solo con lui, dei segreti che teneva nascosti per rivelarli solo alla luce di fiamme d’oro. Lo faceva sentire speciale. 

Annuì pian piano, dando un morso alla parte più grassa del suo pezzo di pesce. Gommoso.

« Si dice che in questi boschi, nelle notti di luna nuova, si sentano gli ululati dei lupi. » rimase per un attimo in silenzio e Lea trattenne il fiato. Si aspettava di sentire ululare tra gli alberi da un momento all’altro. Invece sentì solo qualche grillo. « Ma non sono normali lupi. » continuò l’uomo, scuotendo la testa per enfatizzare il racconto. « No, sono creature grottesche nate da rituali pagani. » si piegò sul fuoco, le fiamme gettarono strane ombre sul suo viso, gli occhi verdi, così simili a quelli del ragazzino, sembrarono sciogliersi in ambra arroventata. « Prendono le sembianze di esseri umani e vagano tra gli alberi alla ricerca di vittime. » Lea deglutì la paura, ignorando il pulsare affannato del cuore. « Si fingono esploratori sperduti, o bambini, o donne in difficoltà, e quando cerchi di aiutarli…ARGH! » l’uomo si sporse di più, ringhiando, una mano arcuata a mimare l’artiglio di una creatura spaventosa.

Lea saltò indietro per la paura, rotolando giù dal tronco che usava come seduta.

Il padre scoppiò a ridere, una risata rigida, mascolina, senza allegria.

« Non fare la femminuccia. » lo apostrofò mentre si rialzava. « Sono solo storie. » 

Divisero l’altro pesce, mangiarono in silenzio. Il barbagianni urlò ancora un paio di volte prima che il suo verso si perdesse nei meandri della foresta.

L’uomo, dopo aver nascosto al sicuro il resto della cena, spense il fuoco. Rivolse al figlio una carezza tra i corti capelli rossi, e si ritirò nella sua tenda: quello era il modo in cui gli augurava la buonanotte.

 

Faceva freddo. Si era alzato un vento capriccioso che soffiava tra i rami scuotendoli e facendoli scricchiolare: era un suono raccapricciante, si insinuava nelle orecchie e nei sogni tramutandoli in rigidi ghirigori taglienti. 

Lea si svegliò, tremante, tutto rannicchiato su se stesso. Sapeva che suo padre era sdraiato nella tenda accanto e che se avesse chiamato lui sarebbe accorso. Ma non voleva passare per un bambino capriccioso che si spaventa per un po’ di vento. 

Sbadigliò, infastidito, e si tirò su a sedere, tenendosi stretto intorno al corpicino il sacco a pelo. Doveva fare pipì, ma non aveva voglia di uscire. 

Si ritrovò a mugolare per la frustrazione ma era impossibile rimettersi a dormire con la vescica piena. 

Scivolò fuori dal sacco a pelo, rabbrividendo così forte che i denti batterono. Fuori il vento era fastidioso e pungente e Lea barcollò, stordito dal sonno.

Lanciò un’occhiata alla tenda di suo padre, come per assicurarsi che lui fosse ancora lì, prese una delle lampade e si inoltrò un po’ nel bosco. Ogni tanto si voltava a guardare l’accampamento accertandosi che fosse sempre in vista: non voleva allontanarsi troppo. 

Quando gli sembrò di essere abbastanza distante, appese la lampada ad un ramo basso e slacciò i jeans per orinare, praticamente con gli occhi chiusi, trattenendo brividi e sbadigli.

Poi lo sentì: un ululato acuto, da qualche parte tra gli alberi.  

Il sangue gli si gelò nelle vene. Spalancò gli occhi, come se avesse potuto vederci qualcosa in tutto quel buio. Per un attimo fu preso dal panico, lo stomaco si contorse, le gambe presero a tremare, e assurdamente pensò che sarebbe morto con i pantaloni alle caviglie mentre faceva pipì. 

La parte ragionevole della sua mente sovrastò il panico subito dopo. Il vento era forte e trascinava con sé i suoni, l’ululato poteva essere ben più distante di quanto lo sentisse, in più, voltandosi, poteva vedere l’accampamento, sarebbe bastato correre per tre metri al massimo: era al sicuro.

Svuotò la vescica più in fretta che poté e si rivestì di corsa. Adesso aveva caldo, sudore copioso gli appiccicava la maglia alla schiena. Non gli importava se suo padre gli avrebbe dato del codardo, della femminuccia, poteva chiamarlo come voleva: si sarebbe ficcato nella sua tenda, nel suo sacco a pelo e non si sarebbe mosso di lì per tutto il resto della notte.

Recuperò la lampada al volo e fece per tornare alla tenda quando sentì di nuovo l’ululato.

Pensò alla storia che gli aveva raccontato suo padre mentre cenavano e il panico affondò i denti nella carne. Rimase pietrificato finché quel terribile verso non si interruppe, strozzato. 

E fu allora che si accorse che qualcosa non andava.

Aveva studiato i versi degli animali in modo da essere in grado di distinguerli quando suo padre gli avrebbe chiesto di farlo, e quello che sentiva non era il normale ululato di un lupo.

Rimase in ascolto, ora più incuriosito che spaventato. 

Il verso si ripeté, meno intenso. Sembrava un gemito di dolore.

Esitò, mordicchiandosi le labbra. Quanto poteva essere lontano da lì? Cercò di capire in che direzione soffiava il vento e a che velocità andasse, ma erano calcoli troppo complicati per lui e aveva già cominciato a camminare.

L’ululato diventava più intenso man mano che si avvicinava, mentre l’accampamento spariva alle sue spalle. 

La lampada illuminava i suoi passi, cauti nel sottobosco, con la mano libera stringeva convulsamente il coltellino multiuso che adesso era felice di aver tenuto nelle tasche del pantalone. 

Il lupo ululò più forte e lui sobbalzò per lo spavento. 

Le mani gli tremavano ma riuscì a scostare i rami del cespuglio che glielo nascondevano alla vista. 

Non aveva mai visto un lupo così da vicino, se non allo zoo. Era molto più grande di un cane, ma sapeva quanto enormi potevano diventare, quello doveva essere molto giovane. 

Una zampina era incastrata in una tagliola e lui, nel tentativo di liberarsi, otteneva solo che i denti d’acciaio si conficcassero più profondamente nella carne. 

Ululò ancora, facendo tremare il ragazzino, poi il suo verso si trasformò in un uggiolio dolorante e rassegnato. 

Lea calpestò un ramo, involontariamente. Le orecchie del lupo ebbero un fremito e subito voltò la testa verso di lui. 

Aveva occhi ambrati e l’espressione sofferente, però sorpresa e dolore non gli impedì di ringhiargli contro, le zanne scoperte. Era spaventosamente bello.

« C-calmo. » tentò Lea, portando una mano avanti. « Voglio aiutarti, okay? » si mosse in avanti, il lupo ringhiò più forte e tentò di tirarsi indietro, ma il dolore lo fece ricadere penosamente. Stava perdendo molto sangue. « No, non muoverti! Così ti farai solo più male! » 

Il ragazzino appoggiò la lampada da una parte e armeggiò con il coltellino per trovare uno strumento che lo aiutasse a fare da leva per allargare le ganasce della trappola. 

Respirava affannosamente e gli occhi gli bruciavano per il sudore. Si avvicinò ancora, lentamente, il lupo emise solo un breve rantolo arrabbiato: era in trappola ma poteva sempre morderlo e staccargli una mano.

« Buono, buono. » quegli occhi gialli seguivano ogni suo movimento, così Lea cercò di non fare movimenti bruschi. « C-ci siamo, adesso ti libero. » 

Infilò la punta del cacciavite tra la zampa e i denti della tagliola. Il lupo si agitò, ringhiando, e il ragazzino si ritrovò le mani sporche del suo sangue. « Va tutto bene…! » con una mano gli accarezzò il dorso. La pelliccia era morbida, di un blu scuro quasi nero. La carezza sembrò rassicurarlo, così poté tornare a fare leva. 

La tagliola si aprì piano, facendo uggiolare la povera creatura, e quando lo spazio fu sufficiente tirò via di scatto la zampina. 

« Ah! Sei libero! » esultò il ragazzino che...realizzò solo adesso di essere faccia a faccia con un lupo che, per quanto giovane, ferito e spaventato era pur sempre un lupo.

Non riuscì a finire neanche il pensiero che l’animale gli si gettò addosso, facendolo cadere. Il coltellino gli caddè dalle mani, finendo chissà dove (riusciva a sentire suo padre, l’avrebbe sgridato per averlo perso). 

Il fiato del lupo era caldo, il naso umido e i denti affilati.

Lo annusò con attenzione e lui rimase immobile, terrorizzato all’idea di muovere anche un solo muscolo.  

Davanti ai suoi occhi il muso del lupo cambiò forma. Lentamente la mascella si ritrasse, il naso divenne più piccolo, la pelliccia scomparve, diventando uno scompigliato groviglio di capelli blu zaffiro. Gli occhi, però, rimasero uguali: due gemme di antica bellezza del colore dell’ambrosia. 

Il ragazzino che aveva preso posto del lupo non doveva essere più grande di lui. Aveva un’espressione seria, le labbra leggermente arricciate in un broncio. 

Lea sentì il cuore quasi scoppiargli in petto. Avrebbe voluto urlare, per lo sgomento, per la paura, per la gioia, non sapeva neanche più bene per cosa di preciso. 

« Grazie. » rantolò il ragazzo, stentato, come se parlare gli fosse difficile.

Si ritrasse, così che Lea potesse almeno tirarsi su a sedere. Aveva la caviglia trafitta dai denti della tagliola e perdeva ancora sangue. Quel rosso intenso sulla pelle diafana, bianca come latte, sembrava la cosa più vera di lui.

« S-stai...sanguinando. » gli disse.

Il ragazzo lupo guardò la ferita, e un mugolio gli risuonò in gola. Senza la sua pelliccia di animale era nudo e il freddo accapponava la sua pelle.  

« Aspetta...ti...ti aiuto… » Lea strappò un brandello della sua maglietta e si avvicinò. Il ragazzo lupo trasalì e gli rivolse un ringhio, ma quando si accorse di quello che voleva fare lasciò che lo facesse.

Ringhiando sommessamente per il dolore lasciò che Lea gli fasciasse la caviglia alla bell’e meglio. Se nei suoi occhi d’ambra ci fosse o meno gratitudine Lea non lo sapeva, ma gli sembrò bello coni capelli smossi dal vento e il viso candido. 

Fece per parlare quando un ululato, più profondo e minaccioso, si alzò nel bosco.

Il ragazzo lupo voltò la testa in quella direzione, in ascolto. Per lui era il richiamo di qualcosa di conosciuto e sicuro, per Lea era una minaccia. 

« È il tuo branco? » chiese il ragazzino, incerto. Il ragazzo lupo aspettò qualche istante poi...annuì. Lea sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. « Devi...tornare immagino. » di nuovo, lui annuì.

Lea assistette alla magia della mutazione una seconda volta: sotto i suoi occhi gli arti del ragazzo si allungarono, le dita scomparvero, la pelliccia blu scuro ricoprì il corpo bianco, denti aguzzi riempirono la bocca. Desiderò poterlo toccare, affondare il viso per sentire la morbidezza del manto. Non era un pensiero stupido?

Gli occhi liquidi dell’animale lo guardarono, forse presero le misure: poteva ucciderlo dopo che l’aveva aiutato, per ben due volte? 

Scosse la testa, le orecchie vibrarono cogliendo suoni udibili solo per lui, poi corse via zoppicando nel folto del bosco.

Lea provò per un attimo il folle impulso di andargli dietro, invece recuperò la lampada ad olio e poi corse, corse a perdifiato nella boscaglia fino a tornare all’accampamento.

Si gettò dentro la tenda del padre, facendolo svegliare di soprassalto.

Gli ululati dei lupi, adesso che il vento si era calmato, erano più limpidi e vicini.

« Lea! » sbottò il padre. Poi però lì sentì anche lui. 

Permise al figlio di infilarsi nel suo sacco a pelo. Il ragazzino era gelato e tremava come una foglia.
Doveva esserci un intero branco nei dintorni. 

« Non preoccuparti. » mormorò, accarezzandogli la testina rossa. Con la mano libera prese il coltello da caccia. « Non si avvicineranno, non siamo il loro ideale di prede. » gli ululati si fecero più forti. « Non dovevo raccontarti quella stupida storia, eh? »

Lea affondò il viso nel petto del padre. Non riusciva a smettere di tremare, né di pensare al ragazzo.

I lupi cantavano una canzone di morte, ma forse per quella notte li avrebbero risparmiati. 

 
   
 
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