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Autore: Amelia Sweetedge    20/10/2019    2 recensioni
C'è una porta nascosta con cura, da qualche parte dentro Sherlock Holmes, che non si apre mai. Dimora in lui da sempre e da sempre è gelosamente custodita in quel groviglio di palazzi ed anima che è la sua mente.
Con minuziosa cura la tiene chiusa e sta molto attento a non inciamparci perché potrebbe essergli d'intralcio quando abbassa le difese per pochi soli secondi: potrebbe essere la fine.

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[Ambientata PRIMA degli eventi della S4 - Pubblicata inizialmente nel 2014]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mr Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La stessa materia delle ombre


 
Close your eyes,
have no fear,
the monsters gone,
[...]
beautiful boy.
Before you go to sleep,
say a little prayer,
every day in every way,
it's gettin better and better.
[...]
Before you cross the street,
take my hand,
life is just what happens to you,
while you're busy making other plans.

- John Lennon


C'è una porta nascosta con cura, da qualche parte dentro Sherlock Holmes, che non si apre mai. Dimora in lui da sempre e da sempre è gelosamente custodita in quel groviglio di palazzi ed anima che è la sua mente.
Con minuziosa cura la tiene chiusa e sta molto attento a non inciamparci perché potrebbe essergli d'intralcio quando abbassa le difese per pochi soli secondi: potrebbe essere la fine.
A volte di notte, quando il suo corpo si arrende e anche lui riesce a dormire, intravede uno spiffero infilarsi a forza nella sua mente che non dorme mai: si allarga sempre di più, oltre quella porta che ha il sapore della sua lontana, lontanissima infanzia e la costringe a spalancarsi senza il minimo rumore, senza il minimo ingombrare.
Allora gli capita di svegliarsi nel cuore della notte, per pochi istanti: il tempo di richiuderla mentalmente, piano, senza fare rumore e poi vagare oltre, verso altri lidi.
C'è una porta nascosta con cura nella sua mente, dietro la quale qualcosa simile al concetto di Amore -quel qualcosa che lui non è mai riuscito a comprendere, a differenza della fredda, chiara, lucida logica e che, per questo, ha sempre cercato di tenere lontano, non senza un certo disprezzo- vive e impazza, in una camera senza soffitto, né terreno, né mura, e che non c'è verso di mettere a tacere. C'è e non può scomparire.
A volte, durante la sua vita, si è ritrovato a pensare che forse non si è mai sforzato abbastanza di annullare, controllare e confinare quel particolare sentimento acquisito in lui e quindi viscerale.
Tutte le volte che si sveglia nel cuore della notte, perché uno spiffero ha aperto una breccia nella sua mente, gli occhi di suo padre lo stanno guardando da un'altezza leggermente più in alto rispetto alla sua visuale silenziosa di undicenne.

- Buon compleanno, Sherlock. -
Il bambino nei suoi ricordi abbassa lo sguardo, senza rispondere, rigirandosi tra le mani il piccolo pacchetto che suo padre gli ha appena donato. Sta cercando di capire di cosa si tratti. Cosa possa mai servigli di nuovo.
Fuori piove, tanto per cambiare, e tanto per cambiare in casa non c'è il minimo rumore oltre a quello della pioggia che cade o del fuoco nel camino. Non c'è mai stato troppo rumore, in quella casa.
- Sherlock? -
- Mh? -
Suo padre sospira leggermente. E' seduto alla sua destra, le braccia incrociate sul tavolo e lo sguardo benevolo ed insieme preoccupato, puntato con discrezione sulla nuca di suo figlio.
Sua madre continua a portare il cibo in tavola. Lancia ogni volta sguardi silenziosi e perennemente preoccupati ora a suo marito, ora al suo bambino.
Qualche istante più tardi Mycroft prende posto a tavola senza degnare di uno sguardo nessuno, tranne il suo piatto.
- Non lo apri? - chiede suo padre.
Sherlock alza il capo, lo guarda negli occhi, cerca una risposta che non trova, qualcosa che non troverà mai, perché non bisognerebbe neanche cercarla -ma questo lui non lo capirà-, come non è necessario nemmeno cercare un senso al sorriso che suo padre in quel momento gli riserva. Diretto solo a lui. Il più dolce che Sherlock ricordi, da sempre.
Sherlock si ritrova a sollevare involontariamente un angolo della bocca: ricambia quel sorriso per metà, prima di riabbassare lo sguardo sul pacchetto e accingersi a scartarlo con esasperante precisione.
Suo padre sospira di nuovo, piano, mentre lo guarda apprensivo.
Persino il cipiglio altezzoso di Mycroft adesso si posa, annoiato, sulle scheletriche agili dita di suo fratello che lavorano meticolosamente in mezzo alla carta color mogano.

Alla fine solleva il coperchio della scatola e i suoi occhi si inchiodano per qualche secondo su ciò che sta tenendo tra le mani.
Sherlock alza di nuovo lo sguardo verso suo padre, senza capire.
- E' una lente di ingrandimento. - gli spiega lui, sorridendo.  
- Sì, lo vedo. - risponde Sherlock prendendola tra le mani.
- Mph. - Mycroft sempre più annoiato, prima di tornare ad occuparsi del suo piatto. Il suo contributo quel giorno l'ha dato.
Suo padre lo guarda rigirarsi la lente tra le mani, Sherlock la avvicina cautamente ad un occhio cercando di mettere a fuoco suo fratello seduto di fronte a lui.
Sua madre li raggiunge, passa una mano sulle spalle del marito e lui la stringe senza staccare gli occhi da suo figlio.
- Ti piace? - gli chiede sua madre. 
- Non ne vedo l'utilità. - risponde Sherlock, cercando di mettere a fuoco altre parti della stanza.
Suo padre sbuffa una piccola risata silenziosa che lo fa voltare.
- Per le risposte che non riesci a trovare. - gli spiega, con un accento stranamente solenne, indicando la lente tra le sue mani.
Sherlock lo guarda a lungo, registrando con estrema cura le parole che suo padre gli ha appena detto.
Readbeard era appena morto e lui non aveva più parlato per un bel pezzo. Quel compleanno era stato il primo dei più tetri compleanni di sempre ed insieme il più dolce e intimo che ricordasse.

Nel breve tempo che gli ci vuole per riattivare i neuroni e chiudere mentalmente quella porta, suo padre gli sta porgendo un tubetto di crema protettiva, sotto il sole della campagna inglese.

- Mettila. - gli dice sedendosi vicino a lui sul dondolo.
Sherlock è circondato da quaderni pieni di appunti disordinati, tra le dita lascia scivolare della terra, la fa atterrare sul palmo dell'altra mano e ogni volta ripete il gioco, come se le sue mani fossero clessidre.
Di tanto in tanto mormora qualcosa, mentre lo fa.
I capelli corvini sono attaccati alla fronte, il viso è un po' arrossato. Forse non si è nemmeno accorto dell'arrivo di suo padre. O probabilmente ha solo voluto ignorare la sua voce.
La crema protettiva aleggia ancora nella distanza che li separa perché Sherlock non la degna nemmeno di uno sguardo.
Allora, paziente, suo padre allunga il braccio destro e dopo avergli scostato i capelli dalla fronte, all'indietro, gli passa su tutto il viso la crema solare, attento a non coprirgli gli occhi per non fargli perdere la concentrazione. Sherlock lo lascia fare senza perdere il filo, anzi, le sue sopracciglia si contraggono un po' di più, come se fosse giunto a una qualche lotta interiore, un punto cruciale, circa la terra raccolta lungo la sua passeggiata solitaria di quel mattino.
Sente le dita di suo padre staccargli i capelli attaccati alla base del cranio, dove una brezza d'aria adesso gli avvolge il collo, facendolo per un istante sussultare.
Suo padre allontana la mano e sospira come se si sentisse adesso un po' più tranquillo.
Guarda quei tratti sempre più pronunciati, tipici di un adolescente e sempre più distanti da quelli di un bambino.
Sorride, come se non riuscisse a credere ai suoi occhi, perché il tempo gli è sfuggito dalle mani; sorride come sorridono i genitori, silenziosamente, quando si ritrovano a fissare il profilo dei propri figli e a scuotere inconsciamente la testa, increduli.
Non crescerà mai.
E' questo l'ultimo pensiero che suo padre ha, l'ultima speranza, prima di abbandonarsi allo schienale del divano a dondolo. Sherlock lo intuisce con la coda dell'occhio: l'ombra di un sorriso è ancora presente sul viso di lui.
- Dì a Mycroft di fare meno casino. - dice all'improvviso.
Suo padre lo guarda, senza capire.
- Mh? -
- Sta urlando come un pazzo in giro per casa. -
Suo padre si guarda intorno: silenzio.
La casa è parecchi metri lontano da loro, solo il cigolio del dondolo disturba la calura estiva di quel pomeriggio.
Ormai non gli chiede più "che stai dicendo?".
Ormai lo guarda perplesso e sbotta: - E tu come lo sai? -
- Perché ho finito tutta l'acqua della caldaia, prima. - risponde, noncurante Sherlock, scrivendo un appunto.
Suo padre lo fissa un po' a bocca aperta: riesce adesso ad immaginare le urla del suo primogenito, in giro per casa.
Poi sbotta in una risata, di quelle forti che vengono dal cuore, di quelle che non puoi trattenere.
Di quelle un po' contagiose che contagiano anche il più asociale, problematico, brillante adolescente che si ritrova lì per caso.
E allora come se si arrendesse a se stesso, ride Sherlock, guardando suo padre scuotere la testa divertito.

Non si azzardarono più a fare di nuovo una vacanza estiva al cottage di famiglia dopo quella volta. O almeno, non tutti insieme: i nervi di Mycroft furono messi a dura prova in un modo tanto estremo, che aveva minacciato di ucciderli tutti di una morte lunga e dolorosa se lo avessero di nuovo costretto a prendere parte a quella buffonata.


E ancora si guardano ad un'altezza d'occhi ormai identica, lui e suo padre, in una notte che Sherlock spera sempre di trovare il modo di sdradicare dalla sua mente.
E' ormai vicino alla porta, un altro passo per richiuderla, un altro sforzo...
...apre la luce dell'ingresso, trema, ha un terribile freddo che si insinua fin dentro alle ossa o forse si sente soffocare dal caldo perché un caos torbido e senza nome gli impazza nella mente e una fitta pungente allo stomaco lo costringe a piegarsi su se stesso, in piedi sul tappeto preferito di sua madre.
Sherlock cerca di respirare, si rialza per metà, prova di nuovo a mettere a fuoco la stanza confusa davanti a lui. Stringe forte gli occhi per riuscire a ritrovare il percorso verso camera sua, volta quindi automaticamente la testa verso destra e, inaspettato, uno schiaffo -l'unico- si schianta ferocemente sulla sua guancia e lo fa barcollare qualche passo all'indietro.
L'eco di quel rumore secco e feroce si propaga tra le mura sempre silenziose della casa.
Sherlock si porta una mano sul viso, tutti i sensi all'erta, risvegliati dal colpo deciso della mano di suo padre sul suo viso.
Lo guarda come se lo vedesse per la prima volta, stupefatto, immobile e senza fiato.
Così com'è adesso suo padre, davanti a lui. I suoi occhi, così simili ai suoi, esprimono qualcosa che si avvicina al disgusto, peggio ancora, alla delusione bruciante. Ai sensi di colpa.
Si guardano freddi, feriti, stanchi, ormai lontani anni luce da quelli che erano una volta, in un passato che basta voltare l'angolo e ti si ripresenta davanti agli occhi costantemente.
Non dice nulla quella volta, quella notte, suo padre. Si volta stancamente in un modo che a Sherlock -fermo e ansimante, come inchiodato in quel punto da sempre- sembra lento una vita intera.
Richiude la luce che il suo drogato figlio ventenne ha acceso e ritorna a letto.
Si volta stancamente, dopo una terribile notte passata a vegliare il suo ritorno, e lo lascia indietro.
Quella notte non lo prenderà per mano per guidarlo nel buio.
Quella notte spegne la luce e lascia che suo figlio trovi da solo la strada, se ne avrà ancora voglia, perché si sente addosso tutti gli anni che si porta dietro e tutte le notti insonni passate a trovare il modo di proteggerlo dal mondo. Il modo non esiste. Non è mai esistito.
E Sherlock rimane indietro al buio, tremante, bloccato in piedi in quel punto come se si fosse all'improvviso svegliato dal torpore, il volto solcato da calde, dolorose lacrime silenziose e inarrestabili.

Quella notte suo padre lo aveva lasciato indietro, perché la vita di suo figlio non gli apparteneva, non gli era mai appartenuta. 
Questo aveva capito tanti anni prima, accettato, nell'esatto momento in cui si era voltato: lui, come padre, aveva il sacrosanto compito di guidarlo nel mondo fino ad un certo punto e da quel momento in poi continuare ad amarlo come dal primo istante in cui lo vide e si commosse. Non poteva nulla contro il genio di suo figlio, né si sognava di poter avere in sé anche una minima parte, solo per poter comprendere le scelte di vita che decideva di abbracciare.
Quello fu l'unico schiaffo che diede a suo figlio: l'unico schiaffo che diede nella sua vita.
Nessuno l'ha mai visto o sentito piangere, Sherlock Holmes, nessuno ci è mai riuscito tranne suo padre.
Anche quella notte il suo cuore lo sentiva, mentre si rimetteva a letto stanco e amareggiato.
Ma non ritornò indietro sui suoi passi, si tenne stretto alla coperta con tutta la sua forza e non ritornò da suo figlio. Non quella volta.

 
   Figlio, 
disperato giglio,
luce di purissimo smeriglio:
corro nel tuo cuore e non ti piglio.
Dimmi dove ti assomiglio,
figlio.
 

- Roberto Vecchioni



 
C'è una porta, nella sua mente, che Sherlock non apre mai. Vi sono racchiusi gli anni della sua infanzia dove la cruda logica del mondo non aveva ancora preso il sopravvento. Non completamente.
Vi sono racchiusi il sorriso e gli occhi di suo padre, l'unico essere umano con il quale Sherlock non è mai riuscito ad essere un cinico bastardo senza cuore, perché solo suo padre conosce la sua vera natura; perché solo suo padre sa la verità. E' forse fatto della stessa materia delle ombre suo padre: lo segue ovunque e senza proferire parola non lo lascia mai indifeso. Mai solo.
Dietro quella porta vi è racchiuso il motivo del perché non pronuncia mai il suo nome per intero: perché al suo interno c'è il nome di suo padre, di cui lui non si sente degno, ha sempre creduto di non esserlo mai.
Quando uno spiffero lo sveglia di notte, Sherlock ripercorre la strada verso quella porta. Arriva davanti al volto di suo padre, lo guarda per un po' in quegli occhi simili ai suoi e vi cerca come tutte le altre volte qualcosa che non bisognerebbe neanche cercare. Poi abbassa gli occhi, mentre un mezzo sorriso affiora dal nulla, richiude la porta e capisce come ogni volta che l'ha guardato che suo padre è sempre stato un libro aperto, un enigma già risolto in partenza.
Per lui, il suo nascosto, onesto eroe.

E così, si riaddormenta.


 
Close your eyes,
have no fear,
the monsters gone...


 

N.B. Questa One-Shot è stata scritta e pubblicata per la prima volta su questo account nel 2014. Nella ripubblicazione odierna sono state modificate solo piccole parti di natura tecnica.
In seguito, le note originali: 


Consentitemi di dire una cosa: che parto trigemellare è stato riuscire a scrivere e finire questa one-shot. 
E' da due anni che seguo SherlockBBC con quell'amore devoto di una madre per il proprio figlio, cosa che molti di voi capiranno perfettamente; due anni che Sir Arthur Conan Doyle, mio indiscusso amore, mi tiene compagnia in egual misura; due anni in cui ho aspettato anch'io la terza, bellissima, serie di questo telefilm; due anni in cui ho mandato a quel paese varie volte un po' tutti, a partire dagli attori, perché non riuscivo a scrivere una singola parola su Sherlock, nemmeno una, bloccata proprio dalla convinzione che non ne sarei stata mai capace, intimidita da quei disgraziati di Moffat e Gatiss, ma ancora di più dallo sguardo sempre accusatorio di Sir Doyle.
Ho sempre frequentato poco questa sezione di EFP perché, capirete, sarebbe stato solo peggio per me. Sono consapevole di avere problemi, ho persino rinominato questo file "ZITTI ZITTI TUTTI".
Ed ora eccoci qui.
Vorrei precisare che ho supposto il loro rapporto sulla base di quei pochi secondi in cui Benedict Cumberbatch e suo padre si sono ritrovati in una scena da soli (così come ho supposto che il nome di suo padre sarebbe potuto essere William o Scott, anche se ho letto che sia un Siger). Non chiedetemi nulla, non lo so nemmeno io che mi passa per la mente. Ma ho pensato che valesse comunque la pena provare. Questa storia è un po' anche per il mio di padre che in 21 anni di vita non mi ha mai tirato uno schiaffo e che a modo suo cerca di essere la mia ombra.


A.
 
   
 
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