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Autore: EvrenAll    29/10/2019    3 recensioni
"Ti ricorderai di me?
Il cielo sopra di noi non era abbastanza vasto per contenere ciò che desideravamo; non lo è abbastanza per contenere la mia speranza.
Non posso perderti di nuovo: ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti."
- Seconda classificata al contest "My favourite things", indetto da Fiore di Girasole sul forum di EFP, a pari merito con "Anno del giudizio 14-41" di Raffyloveantonio Uwetta-
Genere: Romantico, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Samsara

 

saṃsāra sãsàara› s. m., sanscr. – Nella filosofia indiana, termine col quale si indica il ciclo della nascita e della rinascita, la metempsicosi alla quale ogni individuo è soggetto secondo i principî del karma, della giusta retribuzione delle azioni…”
Vocabolario Treccani


 


Lacrime di pioggia si fanno strada lungo il vetro precipitando inesorabilmente verso il basso. Ticchettano come musica sul tettuccio dell'auto.

Infilo le dita all'interno della busta per sentire di nuovo la consistenza della carta contro la pelle: mi sembra quasi di percepire sotto di essa i solchi delle lettere tracciate con cura, di riuscire a ricostruire il contenuto di quella missiva solo toccandola.

Quelle parole sono passate sotto i miei occhi ormai troppe volte.


 

“…

Ti ricorderai di me?
Il cielo sopra di noi non era abbastanza vasto per contenere ciò che desideravamo; non lo è abbastanza per contenere la mia speranza.
Non posso perderti di nuovo: ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti.
Per sempre tuo
E. L.”


 

Troppe, ma mai abbastanza.

Peccato sia datata 27 agosto 1899.

Sprofondo nel sedile, guardando dall'altra parte della strada.

L'asfalto bagnato, una ringhiera di ferro arrugginito, un cancello socchiuso.

È la stessa villa davanti a cui passavo nel tragitto obbligato per la scuola: un edificio enorme circondato da un immenso giardino che tutti, fin da piccoli, abbiamo temuto ed ammirato insieme. Nemmeno i grandi ci avevano mai saputo dire chi fossero i suoi abitanti.

Il mio sospiro annebbia il finestrino.

Caccio la busta nella borsa, l'afferro insieme alle chiavi e scatto fuori, sbattendo la portiera.

Corro, fermandomi sotto la pioggia solo i pochi secondi necessari a chiudere l'auto ed accertarmi di non essere investita.

Ho dimenticato l'ombrello anche 'sta volta.

Sorpasso il cancello scricchiolante e percorro il vialetto addossandomi all'ingresso. Il piccolo porticato mi ripara, ma ormai i capelli sono umidi: s'incresperanno, diventando ancora più ricci e ingestibili.

Ci passo le dita per cercare di ridurre il danno al minimo; li liscio più volte, ma poi ci rinuncio e scuoto con forza il capo affinché non rimangano appiccicati tra loro come spaghetti cotti male.

Ecco, forse ora sono pronta.

Prendo coraggio, inspiro e busso sul legno ferendomi le nocche prima di accorgermi dell’esistenza di un battiporta in ottone. Sbuffo appena, busso di nuovo e faccio un passo indietro, dondolandomi sulle gambe.

 

Non sperare.

Non illuderti di scoprire qualcosa di più di una storia già scritta.

 

Mi mordo il labbro, obbligandomi a zittire la voce irrazionale che mi rimbalza nella testa, un sussurro inquieto, tetro, speranzoso.

Continua a parlarmi, continua a ripetere...


Ti sto aspettando.


Il silenzio del porticato è rotto da un tuono.

Lo scroscio dell’acqua è aumentato di intensità e girando il capo mi rendo conto di non riuscire più a distinguere nulla oltre alla coltre di fitta pioggia.

Non ho molte altre scelte: busso più forte e continuo ad attendere, stringendomi nel cappotto nero che ho dovuto indossare per proteggermi dal gelo di questo anomalo ottobre.

Dopo due eterni minuti lo scatto della serratura mi sorprende. La porta si schiude quanto basta per farmi vedere l’ospite al suo interno.

È un miraggio, l'ombra di un ricordo, il ritratto seppellito nel cassetto della scrivania del bisnonno che prende vita: come in quell’immagine i capelli chiari gli cadono appena sul volto, oscurando in parte l’incarnato e gli occhi aperti verso di me. D'improvviso una delle vecchie storie di famiglia mi passa per la mente: quella di una vecchia prozia che era dovuta partire per il Nord e non era più stata in grado di tornare, un matrimonio, un amante…

-Perdonami, la pioggia non aiuta-

Non può essere davvero lui.

Mi squadra mentre rimango in silenzio a ripetere conti che ho già fatto. La fattura della carta, l’inchiostro… dovrebbe essere morto.

Il corpo lo tradisce. Non gli piace riconoscere lo sconcerto nei miei occhi e rimane a fissarmi fino a che la tensione nella stretta della sua mascella scema del tutto. Cerca.

-Sei la ragazza delle lettere-

Non so cos’abbia visto, ma sembra bastargli e il cipiglio serio si trasforma in sorriso.

-Sono Eric Langdon-

Mi porge la mano e la stringo per automatismo, presentandomi a mia volta.

-Lilian Graeme-

La sua espressione si addolcisce e prima che possa impedirglielo la porta alle sue labbra in un gesto antico che mi fa avvampare: un bacio semplice e caldo.

Mi ritraggo con cautela, fingendo di non essere vittima di una galanteria troppo simile a quella che ho già conosciuto nella lettera. La estraggo dalla borsa e la allungo verso di lui.

-Hai lasciato tu questa a casa mia?-

Un altro tuono lo interrompe prima che possa rispondermi. Guarda il cielo e di nuovo me prima di spalancare la porta.

-Accomodati, rischi di prendere freddo lì fuori-

-Grazie-

Lo precedo nell’ingresso e attendo che mi faccia strada dentro questa vecchia enorme casa, che da dentro sembra più calda ed accogliente.

-Ho trovato quella lettera in un vecchio cassetto- spiega, guidandomi in salotto e facendomi prendere posto su un morbido divano dai cuscini beige.

-Non era la sola, ce ne sono altre, datate tutte verso la fine dell’estate del 1899 e indirizzate alla stessa donna. Sì, forse dovrei decidermi a cambiare mobili- ridacchia rispondendo alla mia occhiata sorpresa, sedendosi sulla poltrona davanti a me.

Di fianco all’entrata è posto un tavolino tondo e alto su cui sono appoggiati un centrino ricamato ed un posacenere blu da usare come svuota tasche, il caminetto vecchio stampo è spento nonostante la temperatura della stagione. Mi piace qui, e la voce profonda di Eric mi culla, facendomi immergere ancora di più nell’atmosfera di questo luogo sospeso nel tempo. Mancherebbe solo una tazza di tè per rendere tutto perfetto.

-Nessun nome, mai, però l’indirizzo era su tutte le buste, come se chi le aveva scritte non avesse avuto il tempo o l’occasione per inviarle-

Si lascia sfuggire un sospiro.

-Ho fatto qualche ricerca ed ho scoperto che la casa del destinatario, la tua, appartiene alla stessa famiglia da metà del diciannovesimo secolo: era giusto portarne almeno una lì-

Stringo la borsa al petto, pensierosa. Prima che mio nonno morisse ho collezionato da lui racconti preziosi che emergono dalla mia memoria con facilità, ora che ho l’occasione di trasmetterli.

-Probabilmente erano indirizzate ad una mia antenata. So che mentre i suoi fratelli sono rimasti qui lei si è trasferita in Scozia. Matrimonio combinato, credo- gioco con il pendaglio appeso alla mia borsa, evitando di menzionare la diceria dell’amante abbandonato.

-Che ingiustizia-

Lo guardo, colpita dall’amarezza con cui ha pronunciato quelle parole. Di nuovo oscilla tra buio e luce, scegliendo di rinunciare al dolore per sollevare gli occhi fino a raggiungere i miei e dedicarmi uno splendido sorriso. Passa una mano tra i capelli biondicci, allontanandoli dal viso.

-Le assomigli molto-

Ridacchio. Vorrei dirgli che lui è l’immagine vivente del ritratto che dal giorno dell’esplorazione conservo nel cassetto del mio comodino, ma non lo faccio. È da pazzi.

-Lo prenderò come un complimento-

-Lo è- ammicca, lusingandomi.

-Vivi qui da molto?- imbarazzata interrompo il contatto per ammirare la stanza e provare a negare a me stessa quanto sia meraviglioso vedere quel volto familiare dal vivo. Deve essere un suo nipote: è l’unica spiegazione.

-Abbastanza. È difficile non affezionarsi a tutto questo…-

-Le case vecchie sono uno spasso- approvo.

-Vuoi fare un tour?-

-Dici davvero?- spalanco gli occhi, incredula.

-Certo- ride del mio manifesto entusiasmo, e si alza facendomi cenno. Trascura il piano terra e mi trascina verso le scale.

Saliamo al piano superiore: mi fa notare la qualità degli inserti di legno della ringhiera delle scale, la carta da parati, i lampadari. Mi porta da una stanza all’altra e ride della mia espressione idiota quando rimango immobile davanti all’enorme quadro appeso sulla parete.

-Non mi avevi detto di avere una galleria-

Bisbiglio, sconcertata, sotto il suo sguardo furbo.

-1896, L’Odio. Viene dall’Italia. Dicono che abbia un soggetto troppo tetro-

È tetro: è un uomo che trafuga un bara.

Lo dico a voce alta.

-Però sembra ti piaccia-

-Già- faccio un passo indietro.

-Rischio di precipitarci- sussurro, annichilita dalla potenza di quell’immagine.

-Mi crederesti se ti dicessi che ho lasciato il meglio per ultimo?-

-No-

Quando lo cerco, lui è già scomparso nel corridoio.

-Eric?- avanzo di qualche passo, incerta, guardando a destra e a sinistra.

-Di qua-

Sinistra.

-Se le assomigli abbastanza non riuscirai a resistere a tutta questa storia-

Seguo la sua voce divertita fino ad infilarmi in quello che credo essere semplicemente uno studiolo.

-Wow-

Non è affatto uno studiolo, è un reliquario di libri, foto, documenti.

-Dove hai trovato tutto questo?-

-Sono un collezionista-

Avanzo sfiorando ogni cosa, immergendomi più a fondo nel penetrante e familiare odore di carta e di passato.

-Io lavoro nella biblioteca del centro città, ma questo…-

-Ero certo che l’avresti adorato-

-Davvero?- lo guardo, sfidandolo, prima di sparire dietro ad uno degli scaffali.

-È come se ti conoscessi da sempre-

-Merito delle lettere. Nonno ha sempre detto che la mia somiglianza con sua zia gli metteva i brividi-

Non faccio più caso a ciò che dico e continuo a vagare per la stanza assorbendo più che posso, impregnandomi di polvere e di felice malinconia.

Mi fermo improvvisamente: le mie labbra si incurvano verso il basso e le mie mani si allungano in un automatismo ad afferrare l’unico dettaglio stonato in questo idillio.

È una foto in bianco e nero stampata su un vecchio foglio lucido delle dimensioni di un A5. Raffigura un piccolo rudere di legno e pietra, circondato da un recinto di pali cadenti e posto come un giocattolo rotto ai margini del bosco. C’è neve per terra, sul tetto, sugli alberi e su quello che dovrebbe essere il vialetto.

-Sai, c’è una storia su quella casa-

Eric è stato veloce a raggiungermi.

-Non fatico a crederci- sussurro.

Rimango immobile a guardarla. Non vedo la sua espressione, ma lo sento avvicinarsi per continuare a stregarmi con i suoi racconti.

-Lei era la figlia di una delle più importanti famiglie di Londra, lui un orfano di guerra, adottato per pietà da una famiglia del quartiere ed impiegato come servo. Si conobbero durante un ricevimento, quando lui la salvò da un clamoroso scivolone sulle scale dell’entrata principale. Riuscirono a parlare mentre i grandi non guardavano, a ballare. Si promisero di vedersi ancora. Il loro amore sbocciò in fretta ma a causa dell’opposizione della famiglia della giovane decisero di scappare per vivere da soli e felici.

-Li trovarono dopo pochi mesi. Portarono via lei e lasciarono lui in fin di vita sul ciglio di quella casa. Si dice che lui abbia pregato la morte perché lo lasciasse lì ad aspettare il ritorno della sua amata, ritorno che lei aveva promesso prima di essere caricata a forza sul carro che l’avrebbe riportata da suo padre-

Distolgo lo sguardo dall’immagine, afflitta da uno strano senso di vuoto.

-È molto triste-

Cerco altro su cui concentrare la mia attenzione ed approfitto della libertà che mi ha concesso per avvicinarmi alla finestra ed afferrare un altro dei suoi cimeli. Le sue parole mi risuonano ancora in mente, fino a quando realizzo il perché.

-Sembra una strana revisione di Romeo e Giulietta- provo a ridere senza riuscirci davvero, sfiorando con le dita la polvere immobile sopra alla vecchia foto che ho appena sollevato.

Le facce che appaiono al di là della coltre grigia prendono definizione. 1861.

-Davvero non ricordi niente, Lilian?-

Il giovane dai capelli chiari e gli occhi intensi guarda l’obbiettivo tenendo per mano una ragazza i cui boccoli scuri sono nascosti da un buffo cappello a falda larga. Il ghigno complice ritratto sulle labbra è lo stesso che ho visto allo specchio stamattina. La mia bocca si dischiude senza che la possa fermare. Eric mi accarezza le spalle, mi abbraccia.

Siamo noi nel 1861, eravamo noi nel 1899, noi, noi…

-Lily?-

Mi allontano, bruciata dal suo tocco.

-Questo scherzo non è divertente-

Folgorato dal mio sguardo, rimane immobile mentre appoggio la foto e mi dirigo alle scale per tornare al piano terra.

-Devi smetterla di credere solo a quello che ti dice la ragione-

Mi blocco tra un gradino e l’altro e scuoto la testa girandomi a guardarlo, infastidita dalla sua presuntuosa pretesa di conoscermi.

-Eric: potrei o non potrei essere una persona razionale, ma non ho intenzione di essere presa in giro così-

-Non ho mai avuto intenzione di farlo-

Stringo le labbra, ricordandomi come l’alluminio della cassetta scottasse il giorno d’estate in cui avevo trovato la lettera e l’avevo letta per la prima volta. Il pensiero di quelle parole dolci e piene d’affetto ora mi fa venire il voltastomaco. L’accenno alle mie passioni, al mio carattere lunatico e riflessivo… Per quanto tempo mi ha spiato per arrivare a conoscere tutte quelle cose su di me? Mesi? Anni?

-Lilian, ascoltami-

Ho bisogno di uscire da qui immediatamente.

-Sei pazzo-

Quando mi raggiunge sono ormai arrivata in mezzo all’ingresso.

Mi blocca, mi afferra il braccio sinistro forzandomi a rimanergli abbastanza vicino da non poter distogliere lo sguardo da lui.

-La notte del solstizio d’inverno, quando gli scagnozzi di tuo padre hanno fatto irruzione nella nostra casa e ti hanno trascinata sul carro per riportarti a Londra, lasciandomi mezzo morto tra la neve…-

Mi percorre la schiena con una mano, mi accarezza come se conoscesse il mio corpo alla perfezione. Rabbrividisco di paura mentre un’ondata di nausea mi annoda le interiora.

-Non posso dimenticare i tuoi occhi segnati dal pianto, la tua voce rotta, incrinata come vetro-

È pazzo.

-Hai giurato che saresti tornata per amarmi in quella vita o nella prossima-

Faccio un passo indietro, ma un ostacolo impedisce la mia fuga. In uno sprazzo di lucidità mi rendo conto che è il tavolino appoggiato vicino alla porta.

-Ho giurato che sarei rimasto per sempre ad aspettarti-

Con la mano libera tasto la superficie del tavolo fino a trovare l’oggetto rettangolare che avevo visto appena entrata in casa. Devo solo colpirlo, poi avrò il tempo necessario per scappare. Basta qualche secondo, il minimo per arrivare in auto e chiudermici dentro. Oh, Dio...

-Mi hai dimenticato?-

Ignora il posacenere che sbatte contro il suo cranio frantumandosi in grossi pezzi di vetro. La sua mano resta aggrappata alla mia, la stretta si rinforza, sembra passare oltre la pelle ed arrivare ad afferrare direttamente la mia anima.

Osserva distrattamente le schegge blu ed inspira profondamente, scocciato come se stesse ripetendo di nuovo un abitudinario ed ingrato compito.

-La prossima volta andrà meglio-

L’espressione si addolcisce. Mi accarezza con la sinistra, incurante dei miei strattoni, quindi scatta, scaraventandomi contro la parete.

Le sue mani si serrano di più sulla mia gola. Non mi sta togliendo solo il respiro: mi sta strappando l'anima.

La presa della mie dita viene meno, le braccia improvvisamente troppo pesanti precipitano a terra. Non sono mai stata forte.

Non perdo subito conoscenza: mi trovo a fissare il suo viso, mi scontro con i suoi occhi grandi, dalle iridi verdi e piene di emozione.

Mentre mi soffoca, Eric annega.

Annega nella speranza, come quella notte in cui il riflesso della luna ha illuminato il suo corpo scomposto e dipinto di sangue. Annega nella disperazione, come tutte le volte in cui l’ho rivisto e non l’ho riconosciuto.

Le mie vite mi passano davanti come un film, compresso in un secondo. Eric è in ognuna di esse, nessuna ha un finale felice.

Siamo spiriti ingabbiati in un viaggio di eterno dolore.

Quando provo ad urlare è già troppo tardi: non ho più respiro. La vista si annebbia.

Smetto di lottare.


 


 

A presto.



 

  
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