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Autore: RoseRouge    26/11/2019    15 recensioni
Nota: inserita una piccola aggiunta al finale.
Ho deciso di accontentare chi mi ha chiesto di aggiungere qualcosa sulle loro mani, ma più di così non posso :)
Un'ispirazione improvvisa, rifacendomi alla OS di Red Drago sulla scena dello strappo della camicia.
Un breve missing moment sul dopo, quando ormai sono già entrambi entrati in servizio alla Guardia metropolitana.
Siamo indicativamente a fine aprile 1788.
(Nota: Il nome del cavallo di André è diverso perché non poteva avere il suo, ai soldati venivano assegnati quelli dell'esercito)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La tua uniforme sa di polvere da sparo.
Fuliggine sui capelli, terra nera sotto le unghie.
Sporco, sudore.
Adrenalina che tiene in allerta i sensi sino allo sfinimento.
Paura, a volte. Di morire o di vivere, non c’è differenza.
Perché è questo essere un soldato.
E tu? Ti senti veramente chi dici di essere? Un… uomo?  
Ignori la domanda, ti spogli, ti lavi, senza indugiare con lo sguardo sulla tua figura riflessa sul vetro della finestra. Senza guardare le tue mani che detergono velocemente il corpo, anzi, chiudi gli occhi per non vedere cosa sei e come sei fatta, come se così potessi cancellarlo.
Tu sei quello che hai scelto di essere, te lo ripeti ogni giorno, da allora. Lo capiranno anche i tuoi soldati e impareranno a rispettarti, hai già dimostrato di saper impugnare valorosamente una spada e di non aver niente da invidiare alla forza e all’abilità di qualsiasi altro uomo.
Uomo…
Sola nel tuo ufficio, bevi.
Le gambe sulla scrivania, butti giù in un colpo solo il whisky che ti brucia lo stomaco e te lo tiene stretto in una morsa paralizzante.
Ancora.
La mente si scioglie nell’alcol, è come lasciarsi andare in un mare scuro, scivolare in un suono ovattato, perdersi tra i flutti. Non resta più nulla di quella che eri, della Oscar di un tempo… è questo l’unico pensiero che emerge cosciente e che ti fa ridere, ridere fino alle lacrime.
Ti riempiono gli occhi, aspre. Scavano un solco di malinconico dolore.
Perché? Non era quello che desideravi?
Cos’è che ti manca? Hai detto che puoi cavartela da sola, che non hai più bisogno di appoggiarti a qualcuno.
Non hai bisogno di lui.
Lui così vicino - dove sarà adesso? Forse in mensa, seduto in disparte, a guardarsi le spalle perché i compagni non si fidano di uno che è stato il tuo attendente - eppure così lontano.
Non siete più voi.
Il vuoto, la distanza, le parole che non vi dite più, le sue labbra senza sorriso, lo sguardo che non ha più il colore che conoscevi, che non ti cerca mai.
Lo hai voluto tu, è stata una tua scelta.
Una lacrima ti scivola sul collo, la lasci andare.
Non avresti dovuto bere così, ti fa male molto più di quanto ti faccia bene non pensare.
I minuti passano, uno dietro l’altro, ritrovi il respiro e il controllo.
Sei pronta, puoi andare via.
Tornare a casa, da sola… non era mai stato così, e adesso senti la differenza.
Ma anche questo lo hai voluto tu.
 
 
César ti accoglie con un basso nitrito felice nella penombra della scuderia.
Buon vecchio César, pure lui ha dovuto adeguare la sua vita alla tua, subendo i tuoi scatti d’ira e le tue intemperanze. Però gli hai sempre voluto bene.
Allunga il collo per ricevere qualche carezza, prima di correre a casa con te.
Lo prepari, hai visto mille volte come si fa.
All’improvviso uno scricchiolio, poi la porta si apre, facendo entrare uno spicchio di luna.
Ti giri di scatto, con la mano già pronta sull’elsa della spada.
“Chi c’è?”
Quasi gridi.
Un secondo di silenzio.
“Sono io”.
Non ha bisogno di dire il suo nome. La sua voce, inconfondibile, ti raggiunge e ti scuote.
Avanza di un passo e adesso puoi vederlo. Regge tra le mani un candelabro e una scatola di latta.
A parte quel primo giorno nel tuo ufficio, non avete avuto più modo di parlarvi in privato. Del resto, quello che avevi da dirgli, glielo hai detto senza mezzi termini e lui se n’è bellamente fregato.
“André, che cosa ci fai qui?”
Non vorresti in realtà, ma gli parli con un tono tagliente, quello di un comandante che ha sorpreso uno dei suoi soldati dove non dovrebbe essere e che sta per punirlo.
Lui sembra non curarsene.
“Sono venuto a controllare Aragon”.
Dice semplicemente.
Non lo guardi in faccia, ti limiti ad osservare la vecchia scatola scurita dal tempo che tiene stretta tra le sue mani.
“Oggi mentre ero di ronda ho notato che zoppicava. Credo che abbia bisogno di una medicazione”.
“Dovevi rivolgerti a chi di dovere, quando sei rientrato dal servizio. Non è compito tuo occuparti dei cavalli”. “Lo so”.
Lo sai, ma alla fine fai sempre quel che ti pare. Come arruolarti senza nemmeno dirlo a tua nonna.
Ti irrita la sua calma perché è in grado di spiazzarti.
Ti fa sentire in qualche modo vulnerabile. Speri che non si accorga che prima hai pianto.
Intanto lui entra nel box, spazza con il piede la paglia per crearsi una zona libera e appoggia per terra il candelabro.
“Ciao…”
Lo senti mormorare qualcosa di incomprensibile al cavallo. Le tue gambe si muovono in disaccordo con la tua volontà e lo raggiungi.
Cosa vuoi fare? Rispedirlo in camerata, forte della tua posizione di comando?
Arrabbiarti?
Ignorarlo e andartene?
Sì.
No.
Cioè, non lo sai ancora.
Farai quello che ti senti.
La luce delle candele proietta ombre scure sulle spalle e sulle sue braccia, mentre passa una mano lungo il fianco lucente del cavallo, sulla schiena, per scendere infine leggera sulla zampa posteriore, in una delicata carezza. Quante volte glielo hai visto fare…
Prima che afferri il piede per sollevarlo, assecondi l’istinto e ti offri di aiutarlo.
“Aspetta, ti faccio luce”.
 
 
Siete in quello spazio ristretto, vicini.
I vostri capelli si sfiorano mentre vi chinate insieme per controllare la zampa.
“Cosa pensi che abbia?”
“Non lo so, non mi pare ci siano ferite. Prendo la pinza, tu tienigli il piede sollevato, per favore”.
Nel sostituirti a lui, la tua mano inevitabilmente tocca per un istante la sua.
Fastidio? Imbarazzo?
No…
Lo guardi in silenzio mentre esamina la suola con movimenti esperti fino a trovare il problema, un piccolo ascesso che prontamente schiaccia con la pinza.
“Ecco cos’era…” mormora, raccogliendo con una pezzuola il pus.
È sempre stato bravo con i cavalli, lo sai.
Aragon si muove irrequieto, non gradisce il lavaggio con acqua e sale.
Vi ritrovate quasi schiacciati contro la parete del box e lui si frappone tra te e il cavallo così che non possa colpirti. Lo tiene fermo e lo tranquillizza.
“Buono, buono… Abbiamo quasi finito. Ancora un po’ di pazienza”.
Perché senti un groppo in gola nell’udire quel tono così dolce?
Non ce l’avevi con lui perché ti ha seguita in quella caserma, incurante del tuo volere?
“Tienigli forte il piede, Oscar. Solo un attimo”.
È di nuovo accovacciato tra le zampe di Aragon. E di nuovo le vostre mani si toccano, una, due, più volte.
“Vuoi farlo camminare per vedere se zoppica ancora?”
gli chiedi quando ha finito.
“No, non occorre. Tornerò domattina a controllarlo. Ma ti chiedo il permesso di tenerlo a riposo per qualche giorno”.
Già, sei tu il comandante. Devi dare il permesso per ogni cosa.
“Sì, certo… Ti farò assegnare un altro cavallo dal palafreniere”.
Non sei così senza cuore da mandare in servizio un cavallo che non sta bene.
“Grazie”.
André è ancora piegato sulle ginocchia, ripone con estrema lentezza la pinza e tutto il resto nella scatola. I capelli ti celano il suo viso, in quella posizione.
Meglio andare, ti sei trattenuta anche troppo. La nonna si lamenterà per la cena ormai fredda.
Apri la porta del box, ma vieni fermata dalla sua voce che ti chiama piano.
No, ti prego… non dirmi nulla.
Salutami e basta.
Qualsiasi cosa tu voglia dirmi, tienitela per te.
Che fai, Oscar? Di cosa hai paura?
Temi che ti dica di nuovo che ti ama?
Non vuoi affrontare il suo amore non ricambiato perché sarebbe come ricordare il tuo?
E tu sai che fa male.
E sai anche che non c’è soluzione.
Ma non si tratta di quello. Ti fa una domanda che non ti aspetti.
“Riuscirai mai a perdonarmi, Oscar?”
Non si è alzato, non ti guarda, continua ad armeggiare con quella benedetta scatola.
Senti un brivido freddo giù per la schiena perché hai capito a cosa si riferisce.
Non vuoi pensare a quella sera, tantomeno ne vuoi parlare.
Schiudi le labbra come a voler dire qualcosa, ma resti in silenzio.
Allora lui si tira su, lentamente.
Ti affronta con uno sguardo pieno di rimorso, incerto. Eppure, dimostra una dignitosa compostezza nello stare di fronte a te.
“Tu sei l’unica persona alla quale non avrei mai voluto fare del male. Non posso vivere se tu non mi perdoni, Oscar”.
 
Stavolta le sue parole non bruciano, come il discorso sulle rose e i lillà.
O come la sua bocca e le sue mani che hanno ferito così profondamente la tua anima.
Tranquilla, non cercherà giustificazioni o assoluzioni.
Non ti dirà che per vent’anni ha vissuto in bilico, tormentato per un amore impossibile che mai ti avrebbe confessato, esausto per averlo dovuto nascondere agli occhi del mondo, trafitto di gelosia sapendoti innamorata di un altro.
Non ti confesserà che proprio quel giorno aveva saputo che sta diventando cieco, raccontandoti la paura e il dolore all’idea di non poterti più vedere.
Non si giustificherà dicendoti che quando lo hai licenziato dal suo servizio si è sentito crollare il mondo addosso. E che quella tua idea di voler essere un uomo gli ha dato il colpo di grazia finale.
Non ti dirà che per una volta, una volta sola, le sue azioni sono andate oltre le intenzioni e che non ha più risposto di sé.
Non cercherà di convincerti che non sarebbe mai andato oltre e che non si sarebbe preso con la violenza ciò che ama più della sua stessa vita.
Non vuole essere compreso, sa di aver sbagliato.
Ti chiede solo se avrai mai modo di perdonarlo.
 
E tu, Oscar, sei libera da ogni peccato?
Non hai forse anche tu qualcosa da farti perdonare?
O pensi che fosse un tuo diritto calpestarlo come persona e come amico – non mi servi più, addio –
E colpirlo, anche se avevi capito benissimo cosa intendesse dire, paragonandoti a una rosa?
Potevi incazzarti e mandarlo al diavolo.
Potevi evitare di schiaffeggiarlo proprio dove uno sfregio e un occhio vitreo palesano la sua dedizione verso di te. Anzi, il suo amore, perché adesso lo sai che non si è tolto quella benda per senso del dovere, come parte dei servigi che ti doveva, ma perché ti ama.
Ti ama da sempre.
C’era infatti l’eternità di un sentimento frustrato e nascosto, in quella stretta terribile che ti ha forzato i polsi. Rabbia e disperazione.
La voglia incontrollabile del tuo corpo che ha denudato come a volerti punire per la tua intenzione di rinnegarlo.
Gli avevi chiesto cosa volesse dimostrare.
Ma tu, ti sei fatta la stessa domanda?
 
Entrambi avete scagliato la pietra e lui non nasconde la mano.
Non farlo nemmeno tu.
Il destino vi ha fatti incontrare qui, a riaprire una ferita che ancora sanguina, ma che ha bisogno di guarire.
 
Scruti il suo volto.
Il tuo cuore si svuota e ti arrendi.
Sì che puoi perdonarlo.
Forse lo hai già fatto.
Se una volta lo avevi salvato dalla forca, quella sera avresti potuto stringergli il cappio al collo tu stessa, ti sarebbe bastato denunciarlo.
O lo avresti congedato con una scusa qualsiasi, trasferito chissà dove, lontano da te.
Hai il potere di fare di lui ciò che vuoi, ma non lo fai.
Perché, nonostante tutto, non riesci a dimenticare il bambino che giocava con te e l’uomo che ti ha sempre servita lealmente.
Perché, nonostante tutto, ti manca.
 
L’odore del fieno e della cera calda ti è famigliare tanto quanto lo è André.
Sa di buono, di casa, di sicurezza.
“Ti ho già perdonato, André”
La tua voce è gentile, sincera, ti nasce dal cuore.
È come un soffio di vento che allontana le nuvole in un cielo plumbeo, carico di pioggia.
Gli riempie lo sguardo di sollievo, umido di lacrime trattenute.
Gli fa tremare le mani.
Prima di andartene glielo devi dire.
È giusto che sia così.
Ti avvicini ancora di più a lui, a un soffio dal suo petto immobile.
“Perdonami anche tu”.

Adesso sei tu a spiazzarlo.
Il verde di quell’iride si colora di stupore e di una calda emozione.
“Oscar, io…”
Ti rendi conto che nessun altro ti ha mai guardata in quel modo e nessun altro ha mai pronunciato il tuo nome con quella dolcezza.
Solleva una mano che ancora trema, verso la tua, quasi la sfiora…
Ma poi si ferma e resta così, a mezz’aria, come a non trovare la meta.
Non ne ha il coraggio.
Ci sono dei momenti che sembrano infiniti, anche se durano pochi secondi.
E parole che a un certo punto non serve più pronunciare.
 
Prendi César e prima di uscire gli dici:
“La nonna ha chiesto di te, ha desiderio di vederti. Domani torneremo a casa insieme… se vuoi”.
Domani… domani sarete di nuovo a casa insieme.
 
   
 
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