Questa one-shot è stata scritta per il contest “Cos’è, una specie di magia?” indetto da Iamamorgenstern sul Forum di EFP, al quale ho partecipato col prompt “Take what you want”.
Urban blues
Arrivo ai Murazzi assieme al crepuscolo e mi siedo sulla Nostra panchina.
Passo minuti, forse ore, a fissare la ringhiera davanti a me, senza la forza di alzare lo sguardo, senza la voglia di alzare lo sguardo, mentre il Po infuria poco distante.
Un brivido mi attraversa la spina dorsale quando avvicino la sigaretta alle labbra: sono uscito in maniche corte, di nuovo.
L’odore acre del fumo si fonde a quello pungente di sudore che mi porto dietro da giorni, creando un nuovo aroma che sa di morte e non fa altro che ricordarmi di te. Te che mi raggiungevi, spettinato, nel mio appartamento a San Salvario e che mi chiedevi di poter essere accolto: nella mia casa, tra le mie braccia, nel mio letto, dentro di me. Te che guardavi fuori dalla finestra e incolpavi la luna, quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti1, prima di baciarmi con foga.
In quei giorni ci spogliavamo e chiudevamo fuori dalla porta le strade, i cani, i giardini, le statue, la morte2.
Quei giorni ansimando mormoravi frasi che credevo insensate.
Mi supplicavi: – Dammi tutto, tutto quello che hai. –
Lo ripetevi, come una cantilena.
– Dammi tutto. –
– Prendi tutto quello che vuoi – rispondevo per abitudine, senza capire a cosa ti riferissi davvero.
Mi graffiavi la schiena mentre ti muovevi brusco dentro di me, più veloce del necessario, e assaporavi ogni mio gemito, di piacere o di dolore. Te ne riempivi le orecchie.
Ti abbandonavi completamente a quelle sensazioni e quando finalmente venivi mi guardavi, reclamando con gli occhi ancora lucidi un bacio.
Ti accontentavo, ti accontentavo sempre.
– Prendi tutto quello che vuoi. –
Quando veniva l’ora di tornare a casa cominciavi a temporeggiare, e io non riuscivo ad afferrarne il perché.
Solo ora capisco: quando uscivi dal mio appartamento tutto quello che ci eravamo lasciati alle spalle tornava a farti compagnia. La morte, vecchia compagna di viaggio, ti aspettava sul pianerottolo, pronta a riprenderti per mano.
Io non riuscivo a vederla, quella belva nera3 che si nutriva di emozioni. Viveva accanto a te, assieme a te, dentro di te… ma si nascondeva bene.
Si era innestata, inizialmente, da qualche parte nel bassoventre, e fin da subito si era dimostrata rapace, famelica, ingorda. Ti aveva corroso, lasciandoti vuoto, in pochissimo tempo.
E allora mi pregavi, mi supplicavi di darti tutto. Avevi bisogno di emozioni, avevi bisogno di provare qualcosa per sopravvivere.
Per un po’ ti sono bastati i baci e le carezze. Per un po’ ti sono bastati i brividi, le docce gelate… Per un po’…
A volte chiedevi che ci incontrassimo su questa panchina di pietra. Quando finivano le lezioni all’università ti raggiungevo e ci smezzavamo uno spinello.
Mi rilassavo, cullato dal suono della tua voce, stranamente espressiva durante i tuoi deliri.
Ti ascoltavo passivamente, non realmente interessato a dare un senso alle parole che fuggivano dalla tua gola e che talvolta riuscivano a mettermi addosso uno strano senso d’angoscia.
Farneticavi, dopotutto. Perché mai avrei dovuto darti retta?
Serro le labbra e faccio uscire il fumo della sigaretta dal naso.
Già, perché mai?
Socchiudo le palpebre stanche sugli occhi irritati che reclamano ore di sonno. Basta un movimento leggero, appena accennato, e le ciglia si scontrano.
– Ieri notte non riuscivo a dormire, quindi sono sceso al fiume e ho inseguito un sentimento4. –
Mi fissi con quei tuoi occhi sbiaditi, mentre un sorriso timido e quasi ironico si fa strada sul tuo volto tremante.
Strizzata tra l’indice e il medio, una sigaretta continua la sua combustione. Scrolli la cenere accumulatasi con un gesto deciso del polso, poi con urgenza avvicini nuovamente l’oggetto ai denti ed inspiri.
– Come diavolo ho fatto a diventare così stanco? La storia della mia vita sembra così sbiadita...5 –
Mediti, reclinando appena il capo all’indietro, e schiudi le labbra appassite… viola cornice di un quadro ingiallito e ricoperto di placca.
– Sembra che nessuno possa aiutarmi adesso. Ho toccato il fondo, non c’è via d’uscita6. –
Il tuo volto si contrae, e una smorfia cresce sul tuo viso.
– Cosa intendi? –
Fai cadere il mozzicone a terra e lo spegni col tacco delle tue Oxford usate. Sghignazzi, freddo, poi porti due dita sulla tempia sinistra.
– Questo posto è sempre un tal casino, a volte penso che mi piacerebbe vederlo bruciare7. –
Ti alzi, barcollando leggermente, e con estrema lentezza ti avvicini alla ringhiera che dà sul Po. Hai tutta l’aria di trasportare il peso dell’intera volta celeste, oltre al tuo.
Resti completamente immobile per qualche istante, e io non riesco a staccare lo sguardo dalla tua schiena: da quando è così curva?
– Si sta facendo tardi… Devo andare. –
Interrompi il silenzio e torni verso di me, una strana, flebile luce ad illuminarti lo sguardo. Speranza? Serri con urgenza le palpebre mentre annulli la distanza tra i nostri visi freddi, e finalmente poggi le tue labbra secche sulle mie.
Ci scambiamo un bacio arido, senza sentimento, una sentenza di morte...
Sbatto le palpebre e lascio che i miei occhi asciutti si abituino nuovamente alla luce dei lampioni.
Simone, Simone, Simone.
Sono intrappolato in un loop di ricordi, e tutti mi parlan di te.
Il nostro ultimo incontro, lo rivivo ogni volta che abbasso le palpebre. Il tuo viso secco e rugoso, i tuoi capelli arruffati, la tua barba ispida e incolta, le tue parole, le tue ultime parole… Non riesco a pensare a nient’altro.
Ebbene, ci siamo scambiati un bacio arido, Simone, un bacio disperato, e quando ci siamo allontanati non c’era più alcuna luce ad illuminare quello sguardo nel quale ero solito specchiarmi.
Tu hai fatto un passo indietro, mordendoti il labbro, prima di incurvare gli angoli della bocca verso l’alto in un sorriso appena accennato, un sorriso sereno e rassegnato.
– Prendi tutto quello che vuoi. – Te l’avevo detto mille volte, ma di cosa può appropriarsi un ladro che entra in una casa vuota?
Mi hai guardato, il vuoto si è riflesso nel vuoto, e tutto è parso fermarsi per un istante.
La belva che silenziosamente era cresciuta dentro di te si è leccata le labbra, cominciando a salivare al pensiero del pasto ormai prossimo.
Il tuo fantasma8 invece ha continuato a fissarmi, immobile.
– Grazie –, un’ultima parola prima di voltarmi le spalle per sempre.
– Grazie –, un addio che allora non ero riuscito a comprendere.
Un rintocco metallico e grezzo da lontano si eleva e si espande nell’aria. Le campane si apprestano ad annunciare la mezzanotte.
Lascio cadere la sigaretta consunta sull’asfalto nero e con uno sforzo mi alzo dalla panchina, ignorando le gambe intorpidite, pesanti.
La luce dei lampioni gioca con la mia ombra, la allarga, la allunga, le dona una forma innaturale, inumana. Sorrido ironicamente, una smorfia mi deturpa il viso già altrimenti segnato: sembra l’ombra di una fiera affamata.
Arranco, infetto, e comincio a scalare la gradinata che porta in Piazza Vittorio, ancora affollata e festosa.
Ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino9.
Mi volto un’ultima volta verso il fiume, inconsciamente attratto dal richiamo della corrente. Appoggiato alla ringhiera, un fantasma10 pallido mi sorride quieto.
Apri la bocca: – Don, don, don… – è la tua suadente chiamata.
Don, don, don… che aleggia nel vento.
Don, don, don… che mi circonda tutto.
Per chi suonano, stasera, le campane?11
Don…
Non per te, Simone. Per te hanno già smesso.