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Autore: suni    02/08/2009    8 recensioni
Giuseppina, per gli amici Giù, Pi per gli affezionati. Diciotto anni di goffaggine, sfortuna e individualismo. Quando suo malgrado cambia città e arriva nella nuova scuola non si aspetta altro che una nuova scarica di sfighe, e invece la ruota sembra girare. Perché Eva è una vicina di banco strepitosa, Francesco l’amico ideale, Greg, Lalla, Patty e Jack la compagnia perfetta. Ma Giù è Giù e la vocina nella sua testa le ricorda che non può essere su.
E difatti c’è un un ma. Un ma alto e biondo, con tanto di occhi azzurri, adorabili fossette e giacca arancione.
Tra serate alcoliche adolescenziali, improbabili sessioni cinematografiche, confidenze tra i banchi e risate miste alle lacrime, Giù scoprirà che anche affrontare i cambiamenti non è un’impresa impossibile. E che ad essere se stessi, alla fine, c’è soltanto da guadagnare. Anche quando si è, appunto, insostenibilmente Giù e tassativamente…sfortunati?
Genere: Generale, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sì, lo so, è passato qualche eone e mi vergogno come una ladra, anche perché il capitolo era lì pronto da tre mesi. Abbiate la bontà di perdonarmi.

 

 

 

 

VIII: DAFTPUNK

 

 

Giù dovette tormentosamente aspettare che i due piccioncini si salutassero come di dovere, ma fortunatamente Greg e Lalla si trattennero a chiacchierare con lei durante la sessione di pomiciata che ne seguì. Poi, finalmente, Stef sembrò decidere che le sue riserve eviche gli avrebbero permesso di sopravvivere per le ore successive e arpionò graziosamente lo zaino di Giù.

“Buon pomeriggio,” salutò, tirandosela appresso.

Cia-a-ao,” mugolò lei, mentre Eva le sorrideva solare sventolando la mano.

Giù si sedette di schianto in macchina sentendo l’immediata agitazione che l’invadeva puntualmente quando si trovavano soli. Stef scelse quel preciso istante per far partire la musica ad un volume spropositato, mettendo allegramente in moto.

Daftpunk,” annunciò, sovrastando la musica assordante. “Mi mettono energia,” sbraitò ancora, sognante.

Giù annui completamente ebete, vuoi per lo shock auditivo, vuoi per la realizzazione folgorante che il giaccone blu, a Stef, stava da dio. Richiamava perfettamente quelle microscopiche screziature appena un po’ più scure nell’azzurro dei suoi occhi, e…

“Mi apri una lattina?” berciò Stef, svoltando col semaforo giallo.

Giù sbatté più volte le palpebre e lo guardò confusa, riemergendo dalle fantasie cromatiche.

“Dietro il tuo stronzo sedile c’è un pacco di birre,” puntualizzò Stef serafico, rendendosi evidentemente conto di non averle fornito informazioni sufficienti. Riusciva a sembrare angelico anche strillando come un condor. “Me ne apri una?”

Giù eseguì meccanicamente la richiesta, si torse indietro con l’elasticità di un armadio a tre ante e annaspò artigliando il vuoto fino a riuscire nel delicato compito di afferrare il pacco ed estrarne una lattina. Stremata, fece saltare la linguetta e gliela porse, senza commenti.

Erano usciti da scuola da ben dieci minuti, dopo tutto. Non c’era niente di male nel fatto che Stef si facesse una birra. E poi doveva guidare per un tragitto molto breve.

“Hai…ehm…sete, eh?” borbottò, nella convinzione che lui tanto non l’avrebbe sentita.

“Cazzo, sì,” rispose Stef prendendo una sorsata. “Serviti pure, eh. Mi cañas tu cañas.”

Quell’ultima parte della sua affermazione le risultò pesantemente oscura, ma fece finta di nulla ed annuì compresa.

“Sì, grazie,” confermò, sentendosi improvvisamente prendere da una straordinaria leggerezza. Avrebbe bevuto una birra con Stef tornando a casa da scuola, sì, perché no? Sarebbe stato un momento unico da conservare nella memoria per farsi forza nei tempi bui, o qualcosa del genere.

Il Calvino le faceva male, ne concluse sardonica, mentre compiva una seconda volta le mirabolanti acrobazie necessarie a procurarsi una birra.

“Sei di fretta, Pi?”

Stefano aveva abbassato un po’ il volume, registrò di soprassalto. Continuava a fissare noncurante la strada, ma aveva voltato leggermente la testa verso di lei. Giù ci pensò su. A casa c’erano:

-          un probabile bigliettino lasciato al mattino da suo padre che riferiva qualche aneddoto sicuramente idiota con cui augurarle il bentornata a casa,

-          un probabile biglietto lasciato al mattino da sua madre in cui si faceva un ‘in bocca al lupo’ da sola per il primo giorno del nuovo lavoro,

-          un pranzo da preparare.

“No, affatto,” rispose di slancio.

Stef sorrise, provocandole il solito attacco tachicardico.

“Ti va una focaccia?” propose svagato.

“Certo,” rispose Giù prima ancora di capire che le sue labbra si stavano muovendo.

Mentre Stef la conduceva nella miglior focacceria del fottuto mondo, a sentir lui, Giù si rese conto con una massiccia dose di inquietudine che le sue sinapsi erano teatro di strani fenomeni in presenza di Stef. Non che di solo brillassero di innata magnificenza, ma le pareva di sfiorare la totale inanità in quei particolari frangenti.

E poi era accoccolata su una panchina del Belvedere cittadino, più lontana da casa di quand’era uscita dal Calvino e con una focaccia fumante stretta tra le mani infreddolite. Davanti a lei Stef stava appollaiato sul muretto, mangiando avidamente. I raggi bianchi di sole invernale creavano sfuggenti riflessi nel biondo dei suoi capelli e Giù rimase per un po’ senza parlare, limitandosi a mangiare e lanciargli qualche occhiata discreta, o così sperava.

Stef si succhiava l’olio dalle dita, osservando assorto il panorama. Aveva incrociato le gambe sul muretto e la fedele lattina di birra riluceva accanto al suo piede.

Infine Giù si schiarì la voce, più preoccupata di sembrare muta che infastidita da quel prolungato silenzio: non la stava disturbando – stranamente, considerata la sua costanza nel sentirsi imbarazzata.

“Bello, qui. Non c’ero ancora venuta,” esordì, voltando la testa intorno con un mezzo sorriso. C’erano passeggiatori variegati, cani piscianti e bambini mugolanti, ma c’erano anche piante spoglie battute dal sole, cespugli sempreverde e una fontanella che scrosciava cristallina.

Stef imitò la sua panoramica esplorativa e poi annuì vago, puntando l’azzurro delle iridi in quello più tenue del cielo. Giù preparò un sospiro adorante, ma lui in quel momento spostò la gamba ed urtò la lattina e la birra si versò in terra in un tripudio di schiuma.

“Porco cazzo,” sbottò, contrariato.

E il sospiro di Giù diventò una risata spontanea, vagamente asinina.

Splendido, riuscì a pensare tra sé, sembrava Lucignolo nel Paese dei Balocchi.

Stef si alzò per raccogliere la lattina e Giù seppe per qualche ragione che era ora di andare. Ritornarono verso la macchina di nuovo senza parlare, ma ora a Giù sembrava ci fosse uno strano genere di urgenza nell’aria, qualcosa che Stef emanava attraverso i movimenti, che pure erano sempre morbidi e rilassati. Ma lui rimase distratto e svaporato per tutto il tragitto, fece ripartire la musica e canticchiò persino qualche nota sottovoce.

Lei aveva già i piedi a terra e la mano sulla maniglia, pronta a lanciarsi verso il portone di casa prima che qualcuno tamponasse il proiettile di fuoco, quando Stef sporse leggermente la testa verso di lei.

“Pi, senti,” iniziò, con tono leggero, “ci pensavo, e, cioè cazzo, per quello che dicevo prima della macchina che è importante, e di Michele…”

“Michele?” intervenne Giù, individuando con la coda dell’occhio un’automobile che si avvicinava rallentando per via della Clio che ostruiva il traffico.

“Michele, sì, mio fratello,” spiegò Stef con un sorriso paziente.

“Oh, quello che te l’ha passata di mano,” confermò Giù, soddisfatta di essere riuscita a cogliere il nocciolo del discorso. Si rammentò della spiegazione sul veicolo, dell’accenno al fratello maggiore e del brusco cambio d’argomento dovuto alle brioches. “Ah, sì. Cos’è che Eva non mi ha detto?” chiese, prendendo coraggio. Una seconda macchina si fermò in coda.

Stef annuì leggiadro. I suoi occhi azzurri continuarono ad essere tersi e sereni quando riprese a parlare.

“Che mio fratello è morto, quando ero in terza liceo. La prima volta che ero in terza fottuta liceo, intendo.”

Giù spalancò la bocca e sgranò gli occhi, smettendo per un paio di secondi di respirare. Le parole le affollarono la gola e minacciarono di straripare in uno dei soliti flussi demenziali e incoerenti cui era sovente soggetta, ma in quel momento il terzo automobilista si produsse in una fantasiosa performance musicale pigiando il clacson come i tasti di un saxofono.

“Ci vediamo domani mattina, eh.”

Stef allungò il braccio e chiuse la portiera che Giù stringeva ancora convulsamente. Le lanciò un cenno e un ultimo sorriso, prima di mollare il freno e ripartire fluido.

L’automobilista del concerto per fiato solo le passò accanto con uno sguardo fiammeggiante odio, abbassando rapido il finestrino.

“Ragazzini del cazzo!” inveì, prima di sgommare via con furia.

Che pessimo inizio di pomeriggio.

Entrando in casa Giù si trovò a pensare che avrebbe potuto solo peggiorare. L’appartamento era deserto, immerso nella penombra, le tapparelle abbassate e come se non fosse stato sufficiente le arrivò un messaggio nell’istante stesso in cui si chiudeva la porta alle spalle, ancora incapace di assorbire del tutto la confessione finale di Stef.

In realtà ti vorrei parlare di una cosa precisa oggi pomeriggio. Penso di aver capito chi è il tizio dell’Angelus, sai.

Era Fra’.

Giù si abbandonò contro la porta, spossata. La focaccia le rimbalzava nello stomaco con insistenza, le ginocchia le tremavano e la prospettiva di vedere Fra’ improvvisamente la terrorizzava oltre ogni dire.

“Gesù,” mugugnò, lasciandosi scivolare a terra.

Non si stupì di non ricevere risposta: ci provava da anni, ma nessuno lassù se la filava mai.

Scrutò lo schermo del cellulare con profonda avversione, rimuginando sulle possibili risposte.

- opzione uno: Fra’, mi dispiace, un commando di afgani mi ha rapita per tenermi in ostaggio a Kabul, sono insaccata in un burka e non vedo i tasti. Ti richiamo tra qualche mese, se mi lasciano tenere la testa.

- opzione due: Ho avuto un attacco di appendicite fulminante, mi hanno portata in ospedale in elicottero e sto lottando tra la vita e la morte. Messaggio autogenerato da Vodaphone.

- opzione tre: Non è vero, stai mentendo, non potrai mai dimostrarlo.

Ne parliamo dopo, digitò, sospirando lugubre.

Era in gravissimo pericolo. Non osava nemmeno pensare a cosa sarebbe accaduto se Fra’ avesse detto ad Eva delle sue brillanti conclusioni, sempre che fossero esatte. Probabilmente Eva l’avrebbe minacciata di morte oppure l’avrebbe sfidata a duello e ovviamente lei avrebbe perso, perché sarebbe rimasta incastrata nelle briglie del cavallo cadendo rovinosamente e tutti l’avrebbero schifata. Di nuovo, sarebbe rimasta sola con i suoi otto cani, sempre lì si tornava.

Accidenti. Non riusciva proprio a capire come Fra’ ci fosse riuscito. Certo non poteva averla tradita il fatto di assumere tutte le sfumature di viola e rosso acceso riconosciute dal sistema RGB quand’era con Stef, né il fatto che tendesse a balbettare come un’ultracentenaria in fase acuta del Parkinson…

Giù si portò una mano alla fronte, sconsolata.

E Stef, per giunta. Come gli era saltato in mente di dirle una cosa del genere in mezzo alla strada, prima di sgommare via, Giù non lo capiva. Divenne bordeaux in ritardo al pensiero dell’orrenda figura mattutina, quando gli aveva chiesto se suo fratello avesse cambiato macchina. Certo che no, non gli serviva più: ora correva senza provare stanchezza nelle verdi praterie celesti, o qualcosa del genere.

Ci pensò su, mentre si preparava una tisana alla camomilla atta a scongiurare il sempre presente pericolo dell’apoplessia ereditaria. Lei non aveva mai perso nessuno: i suoi nonni erano tutti vivi, come zii, cugini e parenti tutti, e di fratelli non ne aveva mai avuti.

Ma soprattutto si chiedeva perché mai Stef non ne avesse parlato prima, dandole il tempo di avere una reazione più intelligente che guardarlo ad occhi sgranati. Sapeva di assumere un aspetto orrendamente affine a quello di un piccolo di allocco quando aveva quell’espressione.

E poi si ricordò dei Daftpunk a tutto volume per darsi energia, della birra e del lungo silenzio al Belvedere. Le balzò chiaro agli occhi che probabilmente Stef aveva avuto intenzione di parlarle di suo fratello prima. Probabilmente le aveva proposto la focaccia apposta in quella prospettiva, ma poi non c’era riuscito.

Ecco, mentre lei si beava del sole e dei cespugli verdi, lui pensava a come dirle che suo fratello era morto.

Quella sì che era sintonia.

Il citofono suonò esattamente mentre Giù ingollava l’ultimo sorso di tisana, facendola sussultare. Le tornò in mente Fra’ e il panico la invase, repentino. Si guardò rapidamente intorno, ma niente: quel bonaccione di suo padre non aveva nemmeno pensato a installare in casa un’uscita secondaria per sfuggire ad eventuali creditori né una scala antincendio che la depositasse direttamente accanto ad una moto nuova fiammante per fuggire lontana. Era incastrata.

A Buffy non sarebbe successo.

Nemmeno a Paperino, e questo suonava molto più umiliante.

“Sì?” squittì rassegnata afferrando l’interfono.

“Sono Fra’!” tuonò un vocione inconfondibile.

Giù gli aprì, massaggiandosi l’orecchio perforato dai decibel in eccesso. Tempo qualche secondo e udì una serie di potenti tonfi in avvicinamento, che andando per esclusione intuì essere i passi dell’amico su per le scale. Aprì la porta con un sorriso che voleva essere cordiale e che sapeva essere molto più simile a una smorfia di paura degna di Shining.

“Ehilà, Pi,” attaccò Fra’, impalato sul pianerottolo.

“Ciao, quanto tempo,” replicò lei scherzosa, cercando di darsi un tono. Le riuscì bene e ne fu soddisfatta, sicché raddrizzò le spalle finora incassate con una certa baldanza mentre lui entrava in casa incuriosito.

“Stefano Landolfi,” scandì Fra’ di soprassalto, voltandosi a fissarla sicuro.

Le spalle di Giù si rattrappirono come tutta la sua persona, mentre tratteneva a viva forza una contrazione terrorizzata del viso, sentendo le guance ustionare in modo significativo. Inspirò a vuoto, rantolando. Doveva fare ben pena, decise contrita.

Negare, intimò un voce impersonale che sgorgava dal suo profondo inconscio, da istinti radicatisi col passare dei secoli nella coscienza collettiva del suo popolo. Negare sempre, negare tutto.

“Stefano Landolfi cosa?” squittì ad ultrasuoni.

“Eh?” fece Fra’, abbandonando per un attimo l’espressione saputa in favore di uno sguardo perplesso.

“Ho detto, Stef che?” gracchiò Giù, rassegnata: la sua abile mossa disorientante non aveva funzionato, stranamente.

Francesco si fece serio, aggrottò la fronte.

“Il tuo colpo di fulmine. È lui,” affermò grave.

N-no!” cinguettò Giù stridula, la pelle color brace ardente. “Ma come ti salta in mente?”

“Come a parte il colore della tua faccia, intendi?” ribatté lui, condiscendente.

L-la mia faccia non è affatto…” iniziò lei piccata, portandosi la mano al viso. “Gesù, devo avere quaranta di febbre,” commentò, stupida dalla temperatura emanata dalla sua pelle.

“E’ veramente lui?” insistette Fra’, sovrastandola con la sua mole elefantiaca.

“No! No, certo che no!” esclamò Giù con foga, gesticolando per farsi aria. “Non è assolutamente…cazzo, sì,” bofonchiò, inchiodata dallo sguardo scettico di Fra’.

“Oh, porca troia,” mugghiò lui, incupendosi.

Giù si afflosciò sulla sedia più vicina, avvilita. Curiosamente le venne in mente che avrebbe avuto proprio bisogno dei Daftpunk, in quel momento.

O di una calibro venti puntata alla tempia.

“Ma non è grave!” esalò, cercando di sembrare rilassata e risultando più simile a un condannato nel corridoio verde. “Mi sta già passando,” mentì, spudorata.

“Come no,” sfiatò Fra’ lugubre, abbandonando il casco a terra. “L’altra sera quando ti ha presa per portarti a casa sembrava ti avesse proposto un viaggio ai Tropici tutto pagato,” osservò sedendosi a sua volta. Sospirò pesantemente, scrollando la testa. “E ora che faccio?” borbottò esitante.

Giù sgranò gli occhi, agghiacciata.

“In che senso?” rantolò, sporgendosi in avanti tanto da rischiare di cadere.

Fra’ spalancò le immense braccia, stizzito, evitando d’un soffio di tirarle una manata.

“Dovrei dirlo a Eva!” tuonò irritato, e a Giù si ghiacciò il sangue nelle vene. “Sono il suo migliore amico, non posso fingere di non sapere una cosa del genere! Però così tu…”

“Non è necessario!” squittì Giù afferrando la sua mano, con sguardo da invasata. “Io…mi sta già passando, Fra’, e comunque non farei mai nulla, te lo giuro! Stef non lo sa e mai lo saprà e io adoro Eva! Non sai quanto…non sai quanto sono contenta di essere la sua vicina di banco,” terminò in uno schietto, contrito pigolio.

Fra’ sbuffò rumorosamente, con l’impetuosa forza di una locomotiva, e si grattò la testa con aria sconcertata.

“Che cazzo, però. Quasi quasi era meglio se fosse stato Galleani per davvero,” brontolò cupo.

Giù annuì compresa, senza particolare slancio. Dopo diciotto anni di convivenza con se stessa non riusciva più a stupirsi particolarmente della propria spiccata attitudine a tuffarsi in piscine di sterco fumante e cacciare spontaneamente la testa sotto.

“Allora non lo dirai ad Eva?” cinguettò con voce fremente.

Fra’ si accigliò ancora, distolse lo sguardo, inspirò a fondo e scrollò le spalle.

“No. Credo di no, per il momento.”

Giù avvertì il proprio peso svanire e pensò che avrebbe levitato verso il soffitto come un palloncino gonfiato ad elio. Commossa, fece per rispondere profondendosi in marcati inchini e ringraziamenti celebrativi, quando il suo cellulare squillò segnalando la ricezione di un messaggio.

“Scusa,” bofonchiò perplessa. Qualcun altro voleva farle sapere che conosceva un suo segreto, il KGB era sulle sue tracce?

Mi dispiace per prima, cazzo. Non so mai bene come parlarne alle persone. Era Stef.

“Giù, perché sei diventata fucsia?” chiese Fra’, sospettoso.

Lei prese fiato ripetutamente, si mordicchiò le labbra ed emise un rantolo rassegnato.

“Va bene, è lui…ma non pensare male!”esclamò con veemenza, vedendolo farsi arcigno. “Lui…lui vuole essere mio amico e…e anche io. Cioè, è molto meglio di niente. Se riesco a farmi passare questa cosa e vederlo innocentemente come…io credo sarebbe una bella amicizia e…capisci, Fra’?” farfugliò tremula.

“Ti stai facendo delle illusioni, Giù. Se lui ti piace, come…?”

“Beh, tanto non c’è alternativa!” ragliò lei, vagamente isterica, tanto che Fra’, ancorché grosso il doppio di lei e massiccio come un armadio a tre ante, si ritrasse leggermente. “Quindi ci devo riuscire!”

Lui scosse la testa sconsolato, con l’ennesimo sospirone.

“Okay. Vedrò di darti una mano, va bene?”

E Giù, in qualche inspiegabile modo, si sentì molto meglio. La sfiga la perseguitava invariata, ma almeno non era più sola a fronteggiarla.

Prese un lungo respiro incerto, lo guardò dritto negli occhi – Fra’ le restituì un’occhiata cauta in risposta – e facendosi coraggio gli fece cenno di sedersi.

“Metto su l’acqua per il tè,” bofonchiò nervosamente. “Intanto…senti, Fra’, cos’è successo esattamente a Michele Landolfi?”

Lui sgranò lievemente gli occhi preso in contropiede, storse il naso ed affondò sulla sedia.

 

 

 

   
 
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