Quando
Sindy aprì gli occhi, tutto ciò che vide fu
grigio.
Lo
sguardo mise a fuoco il soffitto cinereo dello stambugio in cui si
trovava, con
una fioca lampadina pendente al centro; realizzò di trovarsi
seduta a terra, con
la schiena contro una parete umida e senza ornamenti, i polsi
incatenati a una
rondella impiantata nel cemento.
Accanto
a lei, il capo reclinato all’indietro e le labbra socchiuse,
si trovava
Rickard.
Il
movimento ritmico del suo petto le fece tirare un leggero sospiro di
sollievo,
allontanando i pensieri peggiori.
Nonostante
si sentisse ancora intontita, Sindy tentò di tirarsi in
piedi, seguendo il
primordiale istinto di salvezza.
Le
catene, però, la fecero scivolare violentemente al suolo,
riportandola alla
posizione originaria.
I
casi di rapimento di cui si era occupata in passato le suggerivano che
il
rapitore potesse essere con molte probabilità un uomo di
mezza età, in quanto
forte abbastanza da poterli trascinare fino in quella stanza.
Inoltre,
il delinquente e i suoi eventuali complici non si erano premurati di
coprire
loro la bocca: dovevano dunque trovarsi in una zona isolata, lontano da
sguardi
indiscreti.
Il
muro freddo alle sue spalle sfregò ancora una volta il
vestito elegante che
indossava, rimasto intonso.
Una
forte emicrania le invase le tempie, propagandosi per tutto il capo,
come se il
cervello fosse stato improvvisamente stretto in una morsa interminabile.
Arrendendosi
ai pesanti anelli che le brandivano i polsi, poggiò la testa
contro la parete
bagnata, riportando alla memoria qualche bel ricordo della sera
precedente – o
di quella stessa sera; la stanza priva di fenditure rendeva
difficoltoso
calcolare con esattezza lo scorrere del tempo.
Lei
e Rickard stavano tornando a casa quando qualcuno li aveva colpiti.
Camminavano
per una strada buia, evidentemente perduti tra qualche via anonima
della città;
quando videro un color porpora inondare gli alti palazzi, si misero a
ridere
sguaiatamente, realizzando di aver inavvertitamente raggiunto il
quartiere a
luci rosse.
«Non
era più facile organizzare la mia festa in un luogo
più conosciuto?» chiese
Rickard sorridendo.
Tornarono
sui propri passi, riavviando il navigatore, che suggerì di
imboccare un vicolo poco
lontano.
«Non
è colpa mia se abitiamo in una zona lontana dal
mondo» borbottò la ragazza di
rimando.
Tuttavia,
Sindy non era in grado di determinare che cosa fosse successo dopo:
ricordava
solamente di aver percepito un improvviso dolore alla nuca ed essere
precipitata al suolo.
Poco
le importava; non aveva idea di chi volesse fare loro del male, ma
Rickard doveva
salvarsi.
Se
gli fosse accaduto qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato; era
consapevole
che il ragazzo avesse una salute cagionevole e non lo avrebbe mai
esposto
volontariamente al pericolo.
Sindy,
dal canto suo, non poteva ritenersi impaurita: la vita
l’aveva abituata all’incertezza.
Tuttavia,
era furiosa con se stessa per non essere riuscita a prevederlo e, in
particolare, per non aver potuto fare nulla per proteggere il ragazzo
accovacciato
al suo fianco.
Era
una poliziotta ed era stata addestrata a mantenere la mente lucida;
tuttavia, Sindy
era anche un essere umano, e la sicurezza che naturalmente sfoggiava
stava
lentamente lasciando posto alla disperazione.
«Rickard…»
sussurrò, ingoiando le lacrime saline, gustando il forte
sapore sulla lingua.
Non
lo avrebbe mai ammesso apertamente, ma aveva paura di rimanere sola.
Temeva
che le persone che amava avessero spirato dinanzi ai suoi occhi, senza
che lei
potesse impedirlo.
Non
posso vederti così. Non voglio che tu abbia paura. Ti voglio
tanto bene,
avrebbe voluto
sussurrargli, ma rimase in silenzio, lasciando le ultime gocce di
pianto scenderle
sul viso, senza sfregarle via.
˷
Doveva
essere ormai giorno quando un fragoroso frastuono la
svegliò, simile al rumore
di una porta che viene improvvisamente sprangata.
Spalancò
le palpebre, incontrando l’espressione preoccupata di
Rickard, che la fissava.
Aveva
le labbra socchiuse, come sul punto di dire qualcosa.
Gli
rivolse un sorriso amorevole, genuinamente felice che si fosse
risvegliato e si
trovasse in buone condizioni, o perlomeno così le pareva.
Tuttavia,
i suoi occhi erano spalancati e spaventati, intervallando uno sguardo
verso di
lei a uno rivolto in direzione della porta.
Quando
anche Sindy si volse, notò una figura imponente ergersi
minacciosa.
Si
trattava chiaramente di un uomo; tuttavia, non poteva scorgerne il
viso,
coperto da un tessuto spesso e scuro, dal quale si intravedevano
soltanto gli
occhi.
Poi
lasciò scorrere lo sguardo sul suo corpo robusto, agitandosi
alla vista
dell’accetta affilata che l’uomo teneva in mano.
Si
volse veloce verso il ragazzo di fianco a sé, sul punto di
rivolgergli qualche
parola di rassicurazione: semmai fossero periti, perlomeno avrebbero
spirato
insieme, nello stesso luogo, nel medesimo istante.
Ma
Sindy non aveva tempo di rifletterci: la sua mente era sovraffollata di
pensieri accumulati, disordinati ed estremamente sgradevoli.
Quando
si volse nuovamente, quasi gridò alla vista
dell’uomo accovacciato ai suoi
piedi, l’accetta tenuta ben salda tra le mani.
Si
accorse che Rickard tremava, forse anche per il freddo presente nella
stanza.
L’uomo
continuava a fissarla con sguardo curioso: puntando le proprie iridi
nelle sue,
Sindy si accorse che le palpebre erano immobili.
Pareva
voler cogliere ogni caratteristica del suo viso, scrutandolo a fondo;
si
sentiva quasi violata, percependo il suo sguardo fin nelle viscere.
I
suoi occhi sembravano di vetro: secchi, vuoti, grigi come le pareti di
quella
maledetta stanza.
Poi
lo vide tirarsi in piedi all’improvviso, raggiungendo di
fretta la porta,
chiudendosela alle spalle.
Rimasero
entrambi interdetti per qualche secondo, fino a quando non notarono due
bottiglie d’acqua e un paio di rosette di pane poste dinanzi
a loro.
Sindy
sentì il ragazzo di fianco a sé sospirare
rumorosamente, per poi rivolgerle
tutta la sua attenzione.
«Lo
conosci?».
Non
era facilmente percepibile, ma la giovane non poté fare a
meno di notare che la
voce gli tremasse un poco.
«Perché
dovrei conoscerlo?» gli rispose in tono stanco.
Il
volto era quasi totalmente coperto; se anche lo avesse incontrato prima
d’allora, sicuramente non avrebbe avuto occasione di
riconoscerlo.
«Non
so, qualcosa nei suoi occhi… sembra un mostro
bianco».
Rickard
decise di non continuare, sporgendosi piuttosto per raggiungere la
pagnotta.
Le
catene erano lunghe abbastanza per permettere loro di nutrirsi senza
alcuno
sforzo: forse l’aguzzino meditava di tenerli rinchiusi per
parecchio tempo.
Sindy
scosse lievemente la testa, tentando di scacciare i cattivi pensieri;
era
stanca di riflettere e analizzare qualsiasi dettaglio, come se si
trattasse di
uno dei casi ai quali lavorava insieme alla propria squadra.
«Questo
pane è duro» sentì mormorare al ragazzo
accanto a sé, tra un boccone e l’altro.
Poi
poggiò il capo su una sua spalla, tentando di riportare alla
mente qualche bel
ricordo che custodiva gelosamente nella memoria.
˷
Sindy
aveva concluso l’Accademia di Polizia da qualche mese ormai:
quella sera, come
capitava spesso negli ultimi tempi, si era trattenuta per quasi
un’ora oltre al
proprio orario lavorativo.
Le
denunce e i moduli da compilare parevano non terminare mai: la carta
doveva
essere decisamente troppo sottile per dare una tale illusione.
Un
giovane dalla carnagione color caramello le si avvicinò di
soppiatto, poggiando
il busto sulla scrivania, osservando la stanza ormai vuota.
«Non
riesco a capire se non te ne vai perché non hai una dimora o
perché hai qualche
problema psichico» borbottò in tono volutamente
burlesco, ponendo le braccia
conserte.
Sindy
gli rivolse uno sguardo contrariato, abbozzando un sorriso:
«Forse perché ho
più lavoro di te, fannullone».
Scoppiarono
entrambi in un sarcastico sogghigno.
Lo
aveva conosciuto in accademia e, pur essendo più grande di
lei di qualche anno,
avevano subito stretto un forte legame, caratterizzato principalmente
da un
tagliente umorismo.
Derek
era riuscito, in qualche strano modo, a far erompere la parte
più spontanea di Sindy.
«Bene,
allora… dato che vedo che non hai niente da fare,
perché non vieni con me?» le
propose il collega, ricevendo in risposta soltanto uno sguardo confuso.
«Volevo
fare un piccolo controllo prima di tornare a casa» disse il
collega, afferrando
la propria giacca estiva dall’appendiabiti.
«Pensavo
di mostrarti come lavora un vero sbirro» le sorrise
inverecondo, «le carte sono
per i principianti».
Sindy,
punta nel vivo, afferrò d’istinto la propria arma,
riponendola nella fondina.
«Vedi?
Non portate neanche la pistola» la provocò ancora
il giovane, raggiungendola alla
porta.
Trattandosi
di una mera ispezione, decisero di non utilizzare l’auto di
servizio.
«Sono
piccoli dettagli importantissimi» le disse il ragazzo una
volta saliti in auto,
«se vedono la pantera¹
fanno in tempo a
scappare; se notano la pistola fai in tempo a sparare»
ripeté con un ghigno.
Sindy
si volse nella sua direzione: era consapevole della
pressoché costante ironia
del collega, ma non poteva impedirsi di riflettere ogni volta che lo
sentiva ripetere
la frase come un mantra.
La
giovane agente aveva una buona mira e non aveva avuto
difficoltà a imparare a
utilizzare l’arma che le era stata fornita.
Tuttavia,
non aveva mai colpito alcun essere vivente, e il solo pensiero di
poterlo fare,
un qualsiasi giorno da quel momento in avanti, le metteva i brividi.
«Obiettivamente
siamo macchine da guerra» esordì, interrompendo
l’inquietante ritornello
dell’amico.
«Non
ti sembra tutto così sbagliato?»
continuò pensosa, fissando la strada vuota
davanti a sé.
Possedere
un’arma da fuoco, in fondo, la tormentava.
Decidere
per la vita e la morte di un altro non avrebbe dovuto essere un diritto
di
nessuno.
Il
ragazzo smise all’improvviso di canterellare: «Ci
sono crimini che possono
essere puniti soltanto con altri crimini.
È
brutto da dire, ma è così che funziona.
Se
provi pietà nell’uccidere un rifiuto umano, allora
questo lavoro non fa per te,
ragazzina» sibilò in tono severo.
Sindy
non aveva mai preso in considerazione di abbandonare il proprio lavoro:
in
fondo, non poteva dire di non essere abituata alla violenza, lei che,
nella
barbarie, ci era cresciuta.
Forse,
l’unica ragione che l’aveva spinta a scegliere il
centro di addestramento della
polizia era semplicemente che la sua vita stava cadendo in pezzi.
In
un mondo in cui la possibilità di divenire una pattinatrice
professionista si
era sgretolata sotto le lame, quella di poter sfruttare la propria
esistenza
per salvare vite umane non le pareva un’alternativa
così malvagia.
Tuttavia,
la realtà era estremamente diversa da come inizialmente la
giovane immaginasse.
Il
mestiere del poliziotto stava forse nel mezzo, sospeso tra la vita e il
suo
contrario, arrogando ai novellini un potere che mai avrebbero posseduto
altrimenti, e che l’accademia certamente non poteva
conferire: un ruolo dispotico
che la natura aveva attribuito all’individuo, e a cui
soltanto l’uomo stesso
poteva porre una fine.
Nessuno
fiatò fino a quando non raggiunsero il bosco.
Derek
collocò la macchina sulla strada poco distante dalla foresta.
Anche
se era piena estate, il sole stava ormai lasciando la scena alla nivea
sfera
notturna.
«Io
vado in quella direzione, tu proseguirai per questo sentiero»
annunciò l’uomo
in tono esperto.
«Se
ci dovesse essere qualsiasi problema, torna indietro
immediatamente».
Le
porse una torcia ricaricabile, che Sindy non si accorse il ragazzo
avesse portato
con sé.
Lo
ringraziò, convincendosi che la sua preoccupazione fosse
reale: nel profondo,
però, l’istinto le suggeriva lo avesse fatto
principalmente per proteggere se
stesso da eventuali responsabilità.
La
ragazza non avrebbe dovuto trovarsi in quel luogo, a
quell’ora.
Se
le fosse successo qualcosa…
«Se
trovi un uomo, chiunque sia costui, tienilo sotto tiro e
chiamami» le ordinò.
Poi
lo vide incamminarsi nella direzione stabilita.
Sindy
tirò in forte sospiro, cominciando a percorrere il sentiero.
Il
sole pareva avere fretta di nascondersi, quasi come per annunciare un
cattivo
presagio.
Decise
di non voltarsi indietro; poggiò una mano sul calcio
dell’arma, pur sapendo di
non averne bisogno.
La
foresta era parte di lei: conosceva bene il suo linguaggio; aveva avuto
modo di
impararlo, molti anni addietro.
La luce filtrava dalle fronde
quasi accecandola.
Tentava
di non fare rumore, dimenticando che la voce della foresta non si
poteva
silenziare.
Quando
la natura prendeva il sopravvento, nemmeno il tuono di uno sparo poteva
metterla a tacere.
Addentrandosi
nel bosco, gli alberi si erano fatti più fitti, la luce
penetrava ormai a
fatica dai rami.
Tuttavia,
Sindy non aveva affatto bisogno di lumi per riuscire a intravedere la
scena che
le si presentava davanti.
Doveva
aver ormai raggiunto il cuore della foresta: dinanzi a lei si stagliava
una
piccola radura; nel mezzo, un uomo armeggiava con un badile, creando un
ampio
cumulo al proprio fianco.
Poi
gettò la pala a terra: solo allora la giovane agente si
accorse del cibo che
aveva di fianco.
Una
ciotola con una pagnotta e una bottiglia d’acqua
campeggiavano a pochi passi
dallo sconosciuto.
Poi
lo sguardo di Sindy captò un rapido movimento proveniente
dalla buca appena
scavata, fino a quando le pupille non misero a fuoco una mano.
Aguzzò
la vista: non era affatto sicura di ciò che aveva visto e
temeva che un passo
falso potesse rovinare il piano originale.
Magari
l’uomo che Derek stava cercando si stava godendo la scena,
consapevole di
essere al sicuro.
Magari
si trovava proprio dietro di lei ed era sul punto di pugnalarla.
Poi
a una mano se ne aggiunse un’altra, fino a quando Sindy non
vide chiaramente le
dita afferrare la pagnotta.
Non
si era sbagliata: c’era qualcuno sotto quel cumulo di terra.
Il
cuore cominciò a tamburellarle forte nel petto, tanto che
temette potesse
saltare fuori dal torace da un momento all’altro.
Portò
la mano alla fondina, scoprendo di non averla mai spostata
dall’impugnatura
della rivoltella.
Poi
tirò un forte sospiro, dimenticando di non dover fare rumore.
Si
addentrò in un balzo nella radura, intimando
all’uomo di inginocchiarsi e porre
le mani sulla nuca, passando veloce lo sguardo sull’intero
corpo, in cerca di qualche
arma.
Si
accorse di star tremando. Era la prima volta che puntava la pistola
contro
qualcuno.
Si
avvicinò cauta; con sua enorme sorpresa, l’uomo
non azzardò il minimo tentativo
di fuga.
Fece
quello che gli era stato ordinato, fino a quando la ragazza non lo
sovrastò
totalmente.
«Dannazione!»
gridò Sindy, quando realizzò di aver dimenticato
le manette.
Le
condizioni in cui era cresciuta, la perseveranza, la
necessità di doversela
cavare da sola e forse anche il proprio istinto femminile, le
suggerirono,
tuttavia, in un istante, un rimedio alla sua mancanza.
Si
sfilò veloce la cintura dai pantaloni, trattenendo i polsi
dell’uomo in una
morsa con una mano.
Poi
gliela avvolse intorno, stringendo forte.
Sfilò
il cellulare dalla tasca, scorrendo la rubrica fino a quando il nome
del collega
non le comparve davanti.
Gli
ci volle qualche minuto per trovarla, i più infiniti che
Sindy avesse mai
vissuto.
Un
tempo brevissimo, che però bastò a farle rendere
conto che l’uomo avrebbe
potuto fuggire quando lo desiderava.
Sarebbe
bastato qualche spintone, forse un paio di pugni, ma era chiaramente
più forte
e imponente dell’agente dal fisico piccolo ed esile che il
pattinaggio
artistico aveva modellato nel corso degli anni.
Quando
Derek la raggiunse, Sindy si sentì improvvisamente come
liberata da un immenso
e opprimente peso.
Solo
allora si accorse della donna che giaceva sotto la terra: era stata
rinchiusa
in quella che pareva in tutto e per tutto una bara, posta molto
più in
profondità rispetto a quanto era stato scavato.
L’odore
era tremendo; l’agente si tirò immediatamente
indietro alla vista di feci e
vomito sparsi nella cassa.
I
paramedici ci misero più di un’ora a tirarla
fuori: per sua fortuna, Sindy si
risparmiò la scena, data l’insistenza di Derek nel
tornare in centrale.
In
qualche giorno, la notizia si sparse in tutti gli uffici e Sindy
divenne
popolare: pochi perdevano occasione di indicarla o complimentarsi con
lei.
Dopo
qualche ulteriore settimana di lavoro ordinario da agente in prova, le
venne
offerta una promozione; avrebbe potuto prendere parte alla squadra di
Derek,
lavorare sul campo, guadagnare uno stipendio più alto.
Sapeva
che il tempo libero ne avrebbe risentito, ma decise di tentare, alla
sola
condizione di non abbandonare il pattinaggio di figura.
Se
il lavoro le avesse richiesto di accantonare ciò che un
tempo avrebbe potuto
divenire la propria professione, Sindy si promise di rinunciarvi, per
non
annullarsi, per non rassegnarsi alla violenza e al crimine che imparava
a conoscere
meglio ogni giorno di più.
«Ti
ringrazio per non esserti preso tutti i meriti» si rivolse a
Derek, quando,
quella mattina, lo trovò nel cucinino intento a infilare una
bustina di tè in
una tazza.
Anche
il moro era stato elevato di grado, divenendo agente supervisore
dell’intera
squadra.
«Sei
in gamba, ragazzina» disse lui di rimando,
«però almeno le manette potevi
procurartele» la provocò con un sorriso.
Ma
Sindy non pareva avere alcuna voglia di scherzare.
«Colui
che ha sbagliato tra i due sei tu.
Avremmo
dovuto addentrarci nel bosco insieme» sibilò la
giovane.
«Hai
passato mesi a insegnarmi il lavoro dello sbirro e tu hai violato la
regola
principale».
Non
c’era alcuna ironia nella sua voce, e Derek se ne accorse.
«Se
non sei disposto a rispettare le regole, forse lavorare in squadra non
fa per
te, Theodoric²».
˷
«Devo
andare in bagno» continuava a lamentarsi il ragazzo dai
capelli scuri accanto a
lei.
Dovevano
essere passati ormai quasi due giorni da quando si erano risvegliati in
quella
stanza senza finestre.
L’aria
cominciava a diventare irrespirabile, erano sudici, affamati e i
muscoli si
stavano lentamente atrofizzando.
«Non
ce la faccio più» gemette il giovane,
abbandonandosi al muro umido dietro di sé.
Sapevano
che l’aguzzino sarebbe dovuto tornare da lì a
poco: compariva sempre a
intervalli regolari, portava loro cibo e acqua, li osservava nutrirsi e
poi fuggiva
via, serrando la pesante porta con delle chiavi che Sindy non aveva mai
notato.
«Jan
mi starà cercando» mormorò la ragazza,
consapevole di aver mancato
l’allenamento della sera prima.
L’uomo
doveva averla attesa per molto, probabilmente aveva anche tentato di
contattarla,
non ottenendo, però, alcuna risposta.
La
porta si spalancò all’improvviso, lasciando
intravedere un’imponente figura
mascherata nella penombra.
«Smettila
di frignare!» sbraitò il mostro bianco,
rivolto al ragazzo accovacciato
a terra.
Nonostante
indossasse sempre abiti scuri, gli occhi chiari del rapitore parevano
quasi
lattescenti; l’iride sembrava quasi fondersi con la sclera³.
Era
la prima volta che udivano la sua voce: si ammutolirono repentinamente,
ma
appena l’uomo porse loro la solita pagnotta, Rickard ne
approfittò per cogliere
al volo l’occasione.
«Ti
prego, devo solo fare la pipì» piagnucolava,
«ti supplico, puoi portarmi tu».
Sindy,
al suo fianco, se ne stava immobile.
A
differenza del ragazzo, aveva notato il calcio della pistola che
l’uomo teneva
nascosta in una tasca sul retro dei pantaloni.
Dell’accetta,
invece, non c’era alcuna traccia.
I
lamenti si facevano sempre più gravi, le lacrime scendevano
veloci sul viso del
giovane agonizzante e indifeso.
Sindy
non poteva più restare a guardare il suo amico soffrire.
Era
un supplizio troppo doloroso, doveva agire e in fretta, aveva il dovere
di
tener fede alla promessa fatta a se stessa anni prima: non voleva
più restare
indifferente dinanzi ad alcuna ingiustizia.
Poi
vide l’imponente figura tirarsi in piedi, sul punto di
lasciare la stanza.
L’istinto
la guidò: «Aspetta, ti prego!».
Per
un istante, il tempo smise di scorrere.
L’uomo
si arrestò di colpo, lasciando la porta spalancata alle sue
spalle.
Al
di là di essa si poteva scorgere un corridoio, come se la
stanza in cui erano
rinchiusi non fosse altro che il misero sgabuzzino di una grande casa.
Lo
vide muovere qualche passo in avanti: gli occhi di vetro risplendevano
di nuovo
dinanzi a Sindy, in tutta la loro vuotezza e inespressività.
La
ragazza ricordava bene un uomo con lo stesso squallore negli occhi.
Non
poteva confondere quello sguardo. Era lo stesso che il maestro
teneva
puntato su di lei, quella notte nella foresta.
«Anch’io
devo fare la pipì…»mormorò
timorosa.
Per
un attimo, le parve di essere tornata bambina, dinanzi a
quell’uomo tanto
malvagio, rinchiusa nella stanza delle punizioni.
«Ti
prego, fai andare anche il mio amico» lo supplicò.
Le
lacrime cominciarono a scenderle copiose sulle guance; non era
più in grado di
controllarsi.
«Lui
no!» enunciò feroce l’aguzzino,
rivolgendo una rapida occhiata in direzione del
ragazzo.
Forse
a causa della stanchezza, la frustrazione, la consapevolezza di non
poter fare
nulla per aiutare colui che considerava un fratello, le lacrime le
inondarono
il viso, la gola non poteva più trattenere i singhiozzi.
Nella
sua mente, milioni di pensieri si ammassavano l’uno
sull’altro: l’uomo con gli
occhi di vetro l’aveva trovata, ancora.
Sindy
aveva impiegato anni per perdonare la sua vita passata; nonostante i
costanti tentativi
di perseguire un’esistenza normale, la memoria tornava senza
sosta nel
presente, burlandosi di qualsiasi sforzo lei compisse per silenziarla.
Avrebbe
voluto rendere la festa di compleanno di Rickard un evento speciale.
Ci
aveva riflettuto a lungo, aveva impiegato mesi a organizzarla nei
dettagli ed
era stata una serata magnifica, a eccezione del suo epilogo.
Il
ragazzo meritava di tornare a casa al sicuro senza pesi nel cuore.
Lei,
forse, quella prigionia l’aveva procacciata; la sua stessa
natura le impediva
di tenersi lontana dal pericolo.
Ma
Sindy aveva dovuto imparare a calibrare il bene e il male senza che
alcuna
regola le venisse impartita: sarebbe stata in grado di affrontare la
peggiore
situazione, e se fosse perita, sarebbe stato per una giusta causa.
Ma
Rickard non era addestrato a contrastare la brutalità della
sorte; era
cresciuto in una famiglia amorevole, aveva riposato ogni notte in un
letto
caldo e un buon pasto lo attendeva ad ogni suo rientro a casa.
La
vita lo aveva fortunatamente preservato dalle proprie agonie.
Sindy
gli rivolse un rapido sguardo, annebbiato dalle lacrime: i suoi occhi
erano
lucidi e arrossati, la bocca gli tremava e in viso campeggiava
un’espressione
che mai la giovane aveva avuto occasione di notare prima
d’allora.
L’agente
fece in tempo a captare il repentino movimento dell’uomo
nello sfilarsi il passamontagna,
per poi caricare la pistola infilata nella tasca, colpendo la figura
indifesa
da cui provenivano i continui lamenti.
Sparò
un solo colpo, ma tanto bastò perché anche Sindy
venisse colpita nel cuore.
Le
catene presero a bruciarle ai polsi; gli abiti le divennero
d’improvviso
stretti.
Il
sangue vivo sgorgava dalla ferita, imbrattando anche
l’elegante abito della
ragazza, l’unico ricordo rimastole della festa
dell’amico svoltasi la sera del
rapimento.
Improvvisamente,
una potente rabbia le montò nel petto: non avrebbe potuto
sopportare nulla di
più.
Se
avesse dovuto soccombere, lo avrebbe fatto accanto a lui.
Ma
non fece in tempo a dire nulla: gli occhi pallidi dell’uomo
la fissavano
inquieti, chiarendo ogni dubbio riguardo la propria identità.
Qualcosa,
però, era mutato: l’angoscia che Sindy provava in
presenza del maestro,
lasciava ora spazio soltanto a un’ira indicibile, un
sentimento che la stessa
giovane aveva raramente provato nel corso della propria esistenza.
Il
tempo e le esperienze avevano trasformato la sua innocenza di bambina
nel
coraggio di una donna.
L’uomo
le strinse il viso tra le mani, osservando le lacrime scendere copiose
da
quegli occhi arrossati e lividi di rabbia: «Ti voglio bene
più di ogni altra
cosa al mondo, non potrei mai farti del male, mai!»
sbraitò tutto d’un fiato.
«Tu
lo sai questo, vero?».
Un
timido sorriso pareva dipingersi sul suo volto, decisamente in
contrasto con
quegli occhi spaventati, cattivi, malati.
Il
pedofilo ora tramutato in rapitore, non aveva colto affatto la
sensazione,
totalmente opposta allo sgomento, che il proprio gesto aveva scatenato
nell’animo della giovane: se avesse avuto quella sua accetta
tra le mani, gli
avrebbe certamente squarciato il cranio in due semisfere esattamente
identiche,
insudiciando le pareti di brandelli di massa cerebrale, imbrattando i
muri del
suo stesso sangue, tentando di affibbiargli una fine infinitamente
più atroce
di quella a cui l’uomo aveva condannato il suo grande amico.
Accecata
dall’ira e forse inconsapevole dei propri gesti, Sindy gli si
gettò contro, scalfendogli
il viso, tirandogli i capelli, fino a quando le catene non le si
spezzarono
intorno ai polsi.
L’amore,
la disperazione, la collera profonda avevano ridotto il pesante metallo
in frantumi.
Ancora
una volta, la forza aveva contribuito a liberarla dalle catene in cui
la
propria anima era imprigionata.
«Tu!»
gli puntò un dito contro, totalmente indifferente
dell’arma che ancora giaceva
a terra, probabilmente carica.
«Prima
seppellisci una persona viva e poi tenti di uccidere il mio migliore
amico!».
Sindy
gridava.
Tremava.
Ma
la paura non faceva parte di lei.
«Quella
ragazza meritava di soffrire» disse lui in tono calmo, con
noncuranza.
Lo
vide volgere uno sguardo fugace al corpo incosciente di Rickard ai suoi
piedi.
«Non
ti rendi conto che l’ho fatto per te, Sin?
Dovresti
ringraziarmi» continuò, mentre un malefico sorriso
si dipinse sulle sue labbra.
Uno
strano scintillio era comparso all’ombra del suo sguardo.
«Quella
puttanella ti ha fregato.
Tu
meritavi di vincere!».
In
un lampo di lucidità, Sindy si accorse
d’improvviso quanto il suo corpo stesse
soffrendo.
I
polsi le sanguinavano, la muscolatura le doleva terribilmente.
Il
cambio repentino di posizione le aveva procurato qualche capogiro, ma
ciò che
la inquietava maggiormente era il sangue che continuava a fuoriuscire
copioso dalla
ferita del ragazzo steso a terra.
La
pozza aveva ormai raggiunto le sue scarpe e sicuramente non sarebbe
sopravvissuto se non avesse subito cercato aiuto.
Le
parole dell’uomo, così significative, le parvero
irrisorie dinanzi alla
dipartita di Rickard.
Sindy
agì in fretta: in un istante, balzò fuori dalla
pesante porta, correndo giù per
le scale, esaminando l’ambiente con lo sguardo in cerca di
una via di fuga.
Non
sarebbe stata in grado di descriverlo, nonostante fosse stata
addestrata a
tenere bene a mente tutto ciò che il suo sguardo coglieva.
L’unico
aspetto di reale importanza era trovare un modo per fuggire, per poter
chiedere
aiuto.
Corse
a perdifiato fino all’ampia cucina, frantumando il vetro
dell’unica finestra con
un gomito.
Non
si era accorta che l’uomo l’aveva raggiunta senza
difficoltà: la afferrò per un
braccio, ma il vetro infranto gli impedì di mantenere la
presa.
Sindy
scoprì così che solo pochi centimetri la
separavano dal terreno umidiccio di
una notte d’inverno.
Non
era più in grado di affermare da quanto tempo si trovasse
nella casa; forse era
già dicembre4.
L’abitazione
pareva trovarsi nel mezzo di una foresta; forse la stessa in cui
l’uomo
seppelliva le sue vittime.
Sentiva
le gambe sempre più molli, il cuore pareva voler fuoriuscire
dal petto.
Sindy
era allo stremo delle sue forze, ma era riuscita a lasciarsi
quell’uomo
orribile alle spalle.
Tuttavia,
il bosco non la risparmiò neppure quella volta: i piedi
incespicavano tra i
rami, la pelle si graffiava nelle tenebre; ma, nonostante
ciò, col cuore ormai
in gola, la giovane continuava a correre.
Doveva
ormai trovarsi all’interno del bosco, fino a quando non cadde
nuovamente.
Si
tirò in piedi, stremata, ma le gambe non ressero il peso del
corpo.
Nel
silenzio notturno, si raggomitolò dietro a un tronco e
pianse.
Il
gelo dell’inverno le penetrava nelle ossa, ormai esauste e
troppo fragili per
poter trovare riparo nel naturale calore corporeo.
Pianse
come, da bambina, lo stesso uomo la spinse a terra e abusò
delle sue viscere,
con tutta la veemenza che possedeva.
Singhiozzò
come quando, dopo essersi rivestito, le disse con un ghigno che le
voleva bene.
La
foresta era stata testimone dei suoi infantili lamenti, sussurrati con
quella
voce di bambina colpevole soltanto di essere orfana, abbandonata, sola
nell’universo.
Il
bosco poteva nuovamente udire il suo pianto di donna adulta, ma
ugualmente ripudiata.
Tuttavia,
Sindy stavolta non aveva responsabilità solo di se stessa:
«Verrò a prenderti»
sussurrò in un soffio, «Ti salverò,
è una promessa».
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Durante
l’intera durata della corsa sfrenata verso la casa, Sindy
pregò perché Rickard
non fosse trapassato.
Era
la prima volta che riponeva la propria fiducia in qualcuno che non
fosse se
stessa per poter modificare il fato.
Le
fu intimato duramente di restare fuori dall’abitazione e non
essere in alcun
modo coinvolta, nonostante la disperazione.
Per
un istante, il terribile pensiero che quell’uomo potesse
essersi accanito
sull’amico in sua assenza, le sfiorò le meningi.
Il
corpo di Rickard le scorse davanti agli occhi, prima di essere caricato
sull’autoambulanza: Sindy avrebbe voluto avvicinarsi,
stringerlo, gridargli che
nessuno avrebbe mai spezzato quel legame fraterno.
Tuttavia,
gli arti, piantati al suolo, si rifiutavano di muoversi, come se la
ragazza ne
avesse perso ogni controllo.
Poteva
essere una scena del crimine degna della più intrigante
serie televisiva; invece,
si trattava dell’amara realtà, quella in cui il
suo migliore amico, il fratello
acquisito che tanto amava, lottava tra la vita e la morte.
Sindy
non poteva vedere la pena nei volti dei colleghi, così come
il suo sguardo non
captava i movimenti di Derek, che si avvicinava a passo felpato verso
di lei.
Il
ragazzo temeva che la giovane pattinatrice mancata potesse ferirsi con
le
proprie stesse mani; tuttavia, conosceva bene quella donna dalla
corporatura
così esile, eppure così potente.
«L’arteria
omerale è stata recisa» mormorò il
collega, accovacciandosi accanto a lei.
«Il
battito è debole, ma i paramedici dicono che ce la
farà» mentì.
Le
probabilità che Rickard aveva di sopravvivere erano meno
della metà: aveva
perso più di due litri di sangue prima che Sindy
raggiungesse la strada oltre
il bosco e riuscisse a mettersi in contatto con la polizia.
Derek
si volse a osservare la giovane in viso: pareva essere caduta in un
sonno a
occhi aperti, se non fosse stato per le lacrime che le imbrattavano
silenziose
il volto, unendosi al sangue e alla polvere che aveva portato con
sé nella
fuga.
«Ho
avvisato anche Jan» continuò Derek, «il
rapitore è scappato».
Sindy
avrebbe dovuto immaginarlo: avrebbe fatto meglio a tenerlo sotto tiro e
colpirlo a una gamba, perlomeno per impedirgli di fuggire.
Ma
non ci aveva pensato.
Non
aveva considerato molti gesti che, forse, avrebbero potuto fare la
differenza.
Era
stata egoista. Aveva pensato soltanto a fuggire, a salvarsi la pelle,
come
aveva fatto anni prima scappando da quel maledetto orfanotrofio,
lasciandosi
indietro gli altri bambini.
Gli
occhi le bruciavano, le guance parevano infuocate, nonostante il gelo.
Il
resto del corpo pareva non esistere più.
Per
la prima volta in quella sera, Sindy puntò le iridi in
quelle del collega.
C’era
qualcosa di arbitrario in lui, qualcosa che avrebbe dovuto comprendere
in
tempo.
«Questo
è lo stesso bosco in cui fu trovata Anja».
L’udito
percepì chiaramente le sue parole, ma la mente si trovava
ormai altrove.
Forse
accanto a Rickard, accompagnandolo nella sua dolorosa dipartita.
O
forse, in un luogo senza tempo e dimensione.
«Andiamo,
fa freddo qui fuori» la esortò Derek, prendendo
posto nella volante collocata
poco più in là.
Ma
Sindy il vento gelido non lo percepiva nemmeno, così come i
sottili fiocchi di
neve che cominciavano a cadere nell’alba di quel giorno che
soltanto quattro settimane
separavano da un altro anno.
Sindy
l’inverno ce l’aveva nel cuore.
¹
Termine gergale per indicare l’autovettura utilizzata dalla
Polizia di Stato,
dovuto al tradizionale distintivo sulle fiancate.
²
Derek è il diminutivo del nome di origine germanica
Theodoric.
³
Il cosiddetto “bianco dell’occhio”, ossia
la parte anteriore della sclera, visibile
fra le palpebre.
4
Nel testo non è specificato, ma il compleanno di Rickard,
ossia la sera del
rapimento, è il 26 novembre.
Disclaimer:
essendo questa storia parte di una serie, al fine della completa
comprensione
del testo, ritengo necessaria la lettura di Snowflake e Il Bambino dai Capelli Color delle Stelle per coloro
che non
conoscono la trama generale.
Chiaramente,
spero sia comprensibile anche separatamente; tuttavia, considero quelle
storie
dei “prequel” in cui alcune questioni potrebbero
essere chiarite meglio.