L'amore risiede nel cuore
Era un giovedì
pomeriggio come tanti.
Be', di certo normale rispetto a due mesi prima. La fine di agosto era
ormai
vicina, con una tremenda cappa di calore a bruciare le strade polverose
di New
York, ma malgrado le temperature torride la giornata preludeva
già all'autunno.
Sara Howard era
uscita in tutta fretta
dal Dipartimento di Polizia. Roosevelt l'aveva congedata dicendole che
per quel
giorno poteva bastare, che si era anche meritata un breve periodo di
ferie, se
solo lo avesse desiderato. Per tutta risposta Sara aveva scosso la
testa e,
ringraziando il Commissario, lo aveva salutato assicurandogli che si
sarebbero
visti la mattina successiva, come di consueto.
Aveva sceso le
scale interne di marmo
del Dipartimento e si era ritrovata in Mulberry Street. Le era bastata
un'occhiata al cielo per capire che di lì a poco si sarebbe
scatenata una
pioggia torrenziale. Si sbrigò a chiamare una carrozza e
fornì poche
indicazioni al cocchiere: non era ancora giunto il momento di tornare a
casa.
Spiò la
strada dal finestrino,
osservando la folla scansarsi al passaggio della vettura. Pian piano
lasciò i
quartieri poveri per raggiungere, infine, una zona residenziale che nel
corso
dei mesi precedenti le era diventata estremamente familiare; quando
avvistò il
portone che le interessava, batté il pugno contro la cabina
e il cocchiere fece
fermare il cavallo. Sara scese dalla carrozza, pagò la corsa
e attraversò la
strada, mentre le prime gocce di pioggia iniziavano a cadere a terra.
Salì i
quattro scalini che rialzavano
l'ingresso della casa e suonò il campanello: era rotto o
forse solo
disattivato. Bussò con forza un paio di volte
finché finalmente qualcuno non
venne ad aprirle.
«Signorina
Howard», la salutò con un
sorriso cordiale il possente Cyrus Montrose, «prego,
entrate».
L'uomo si fece da
parte e Sara varcò
la soglia. Si guardò rapida attorno: tutto era come l'ultima
volta che era
stata in quella casa. Fece scorrere lo sguardo lungo il corrimano della
bella
scala in legno e i suoi occhi si fermarono su un punto ben preciso,
notando che
i segni del mortale incidente che vi si era consumato erano ormai
spariti.
«Il
Dottor Kreizler è qui? O forse è
uscito?» domandò, voltandosi verso Cyrus.
«È
nel suo studio. Sta ricevendo un
paziente».
Sara
annuì. «Mi dispiace essere
passata senza alcun preavviso. Forse mi converrà tornare
un'altra volta».
«No,
signorina Howard, restate pure.
Sono certo che il Dottore sarà felice di rivedervi. Venite
in salotto e
accomodatevi; appena avrà terminato la sua visita,
sarà da voi. Posso portarvi
qualcosa? Del tè o...?»
«Non
preoccuparti, Cyrus, non mi
occorre nulla».
«Volete
che riponga la vostra borsa nello
stanzino degli indumenti?»
Sara strinse
d'istinto la borsa che
portava al braccio e scosse la testa. «Non mi
tratterrò a lungo, Cyrus.
Preferisco tenerla».
«Come
volete, signorina Howard.
Venite, vi accompagno nell'altra stanza».
Il servitore la
scortò nel salotto e
la invitò di nuovo a sedere. Si congedò con un
cenno del capo e sparì,
rassicurandola ancora che presto il Dottore l'avrebbe ricevuta. Rimasta
sola,
Sara camminò avanti e indietro per il salotto, tentando di
ingannare l'attesa.
Si avvicinò al grammofono, studiandone l'ampiezza, e al
pianoforte, sfiorandone
appena i tasti senza osare premerli: temeva quasi che il suono potesse
violare
la quiete che regnava nella casa. Non resistette però alla
tentazione di
sedersi di fronte allo strumento e la sua attenzione fu presto
catturata dallo
spartito aperto a metà sul leggio. Lo chiuse, tenendo il
segno della pagina con
il dito indice, e lesse ciò che vi era scritto a caratteri
dorati sulla
copertina: Chopin,
melodie per l'anima.
Doveva essere sicuramente una raccolta di brani; Sara non era mai stata
un'esperta musicista, ma sapeva che nemmeno quei pezzi potevano essere
suonati
da una sola mano. Si domandò se non fosse Cyrus a suonare.
«Signorina
Howard», fu costretta a
voltarsi di scatto, sentendosi chiamare, «lieto di
rivedervi».
Laszlo Kreizler le
venne incontro,
mentre lei riponeva in fretta lo spartito e si alzava per salutarlo a
sua
volta. Il Dottore le tese la mano e lei la strinse: «Sono
felice anch'io. Mi
scuso per non avervi avvertito della mia visita...»
«Non ce
n'è bisogno, ve lo assicuro.
Vedo che continuate a dilettarvi con la musica».
Aveva lanciato
un'occhiata oltre la
spalla di Sara e la ragazza interpretò quella frase come una
frecciatina vera e
propria. Cercò di lasciar cadere il discorso, ma Laszlo
continuò: «Tra i più
grandi artisti europei, Chopin è probabilmente quello che
sento più affine in
questo periodo. Credo che Stevie sia stufo di ascoltare tutte le sere
Cyrus che
suona, ma sto cercando di far sì che impari».
Sara lo
ascoltò in silenzio, prestando
particolare attenzione al suo tono di voce. Se a una prima impressione
Kreizler
sembrava il solito orgoglioso, scrutandolo più
approfonditamente era possibile
notare come fosse di colpo invecchiato. Le occhiaia violacee non
miglioravano
il suo aspetto, così come la barba decisamente incolta e
l'espressione
abbattuta. Era evidente che fosse ancora provato da quanto accaduto in
casa sua
solo due mesi prima.
«Ma
veniamo a noi» si riscosse, dopo
aver passato qualche secondo a fissare il pianoforte. «A cosa
devo l'onore
della vostra visita?»
«Sono
passata per restituirvi questo».
Sara
sbirciò nella propria borsa e ne
estrasse un libro. Glielo porse e Laszlo lo soppesò tra le
mani: «Vi avevo
consigliato di leggere questo? Un trattato sulle differenze
psicologiche tra
uomini e donne?»
Lei
annuì. «Affinché potessi
persuadermi che l'agire del nostro assassino non fosse in alcun modo
causato
dall'influenza negativa di sua madre, immagino».
Kreizler sorrise
ironicamente,
incassando la frecciatina che Sara gli aveva a sua volta rivolto.
«Magari vi
potrà essere utile per risolvere un caso futuro».
Si
allontanò da lei e poggiò il volume
sul tavolo su cui teneva anche il liquore. Se ne versò un
bicchiere e ne offrì
a Sara, che però non accettò.
«Se non
avete fretta di andare via,
sedete pure. Posso farvi preparare del tè, se il vino non
è di vostro gradimento.
Cyrus!»
Il servitore
caracollò nella stanza un
minuto più tardi e prima che Sara potesse opporsi era
già sparito in direzione
della cucina. Ormai costretta a non respingere l'ospitalità,
prese posto sul
divano e Laszlo le sedette di fronte, accomodandosi sulla poltrona.
«Ditemi,
Sara: come vanno le cose al
Dipartimento? La vostra situazione è migliorata in seguito
alla risoluzione del
caso Beecham?»
«Mi
piacerebbe poter dire di sì, ma in
realtà non è cambiato nulla. Non per me,
almeno».
«Cosa
intendete?»
«Che le
squadre di pattuglia adesso
sono coordinate da un uomo più onorevole e capace del
Capitano Connor. Se non
altro, il Dipartimento potrà riacquistare un po' di
credibilità».
«E
Roosevelt? Non mi sembra che i
giornali chiedano la sua testa, ultimamente».
«Per il
momento; sono sicura che
basterà una piccola miccia a far esplodere una nuova
rivolta, soprattutto se ad
alimentarla ci saranno due nostre vecchie conoscenze».
«Paul
Kelly e Biff Ellison» Laszlo
completò per lei.
«Sì.
Beecham sarà stato pure fermato,
ma l'insofferenza nei bassifondi cresce ogni giorno di più.
Temo molto per la
vita di quei ragazzi, a prescindere dal fatto che circoli o meno un
omicida».
Mentre finiva di
parlare Cyrus tornò
da loro, sorreggendo un bel vassoio d'argento. Prestò
attenzione a non
rovesciare nulla e poggiò il tutto sul tavolino basso che
separava
ulteriormente Sara da Laszlo.
«Signorina
Howard, il vostro tè» le
mostrò l'uomo. «Quanto zucchero
desiderate?»
«Una sola
zolletta sarà più che
sufficiente. Grazie, Cyrus», gli disse, prendendo la tazza
che lui le porgeva.
«Dottore...»
«Lasciala
pure lì» lo fermò Laszlo.
«Puoi
andare».
L'uomo li
lasciò di nuovo soli.
L'unico suono percepibile era il tintinnio del cucchiaino che di tanto
in tanto
batteva contro la ceramica della tazza che Sara stringeva tra le mani.
«Dunque
cosa si propone di fare il
Dipartimento per risolvere questa situazione?» la
incalzò Kreizler.
Lei
saggiò il tè bagnandosi appena le
labbra dopo aver soffiato sulla nuvola di vapore che si levava dal
liquido
scuro: «Purtroppo non si sta attuando nessuna strategia
né sembra essercene una
all'orizzonte».
Laszlo
ammutolì, pensieroso. Sara lo
studiò da oltre il bordo della propria tazza, indecisa su
cos'altro dire. Poi
si lanciò: «I vostri studi procedono bene, invece?
State facendo progressi?»
«Non ho
niente di nuovo con cui
stuzzicare il vostro interesse, signorina Howard. Sono finito in un
vicolo
cieco» ammise, decidendosi a prendere il tè.
Sara
immaginò che una simile
affermazione dovesse costargli non poca fatica: Kreizler non era il
tipo d'uomo
che ammette tanto facilmente di aver sbagliato o, peggio ancora, di
aver
fallito. Perciò le sembrò strano che si fosse
sbilanciato così tanto; forse
tutto derivava dai postumi del trauma emotivo recentemente subito, dato
che
aveva pronunciato quella frase trattenendo a stento un moto d'ira.
«Cyrus se
la cava molto bene in casa»,
provò a cambiare ancora argomento, pur sapendo che la
risposta seguente,
seppure ci fosse stata, sarebbe risultata secca e seccata.
Come da previsione,
Laszlo si limitò
ad alzare le spalle: «Non mi sono mai potuto lamentare dei
suoi servigi, men
che meno adesso».
Era inutile provare
a fare
conversazione. Il Dottore la metteva solo a disagio, come se avesse
voluto
crogiolarsi nel proprio dolore. Sara trattenne un sospiro e si disse di
portare
pazienza, perché d'altra parte quell'irritante modo di fare
era l'unica
risposta che Kreizler aveva trovato per placare la propria sofferenza.
Avrebbe
dato qualsiasi cosa per poter andare via e porre fine a quel calvario;
e dire
che era passata solo per restituirgli quel libro!
Fu lui a sospirare,
contrariamente a
quanto Sara si sarebbe aspettato. Notò i suoi occhi
abbassarsi, guardando
distratto la trama del tappeto, e l'espressione del suo viso contrarsi
dolorosamente: «È dura, molto dura. Mary... La sua
assenza grava su tutti noi».
Alla fine lo aveva
detto, aveva
pronunciato il nome che lo faceva stare male. Una tristezza infinita si
sprigionava dai suoi occhi stanchi e Sara, sentendosi impotente, rimase
a
fissarlo, pur odiando il fatto di non essere in grado di aiutarlo. Non
sapeva
cosa dirgli, come consolarlo; pensò che sarebbe stato male
ancora a lungo,
proprio com'era accaduto anche a lei quando suo padre aveva deciso di
togliersi
la vita. Capiva perfettamente come ci si sentiva a perdere una persona
cara,
eppure rifletté che doveva esserci qualcosa di diverso nel
sentimento che
corrodeva Laszlo: d'altra parte, per quanto entrambi profondi, l'amore
che si
prova nei confronti di un genitore doveva essere di certo differente da
quello
rivolto al proprio partner. O forse no?
Quell'ultima
riflessione la coinvolse
tanto da non accorgersi che Laszlo la stava chiamando.
«...Signorina
Howard? Mi state
ascoltando?»
Batté le
palpebre. Aveva gli occhi
secchi – probabilmente era rimasta a fissare il vuoto senza
neanche rendersene
conto – e il torpore uditivo svanì poco alla
volta. Spostò l'attenzione su
Laszlo e incontrò il suo sguardo, ora di nuovo risoluto.
«Come
avete detto, Dottore?» gli
rispose, domandandosi quante volte Kreizler avesse fatto il suo nome.
«I
fratelli Isaacson. Vi ho chiesto
come stanno».
Sara
restò per un secondo perplessa,
non riuscendo a capire il perché del quesito. L'istante
successivo ricollegò la
domanda a quanto si erano detti non molto prima e dedusse che nei
momenti di
riflessione Laszlo avesse richiesto di cambiare argomento.
«Oh,
sì... I sergenti stanno bene, si
stanno facendo finalmente strada tra i colleghi, nonostante permanga
qualche diffidenza
nei loro confronti. È ancora presto per dire se le cose sono
effettivamente
migliorate per loro, ma il Commissario Roosevelt sta facendo di tutto
affinché
la loro integrazione nel Dipartimento possa completarsi».
«Capisco.
Mi auguro che i vostri
colleghi siano tanto lungimiranti da rendersi conto che i loro metodi
non sono
solo all'avanguardia, ma estremamente efficaci»
commentò Laszlo. Poi proseguì: «E
cosa mi dite del nostro caro amico in comune? Sono già due
volte che lo invito
all'opera, ma pare essere molto impegnato. Potrebbe essere una semplice
scusa,
dato che odia la lirica. Ne sapete niente?»
Sara scosse appena
la testa. «Ad
essere sincera, è passata quasi una settimana dall'ultima
volta che l'ho visto.
Ci siamo incontrati a un ricevimento». Si interruppe: a onor
di cronaca avrebbe
dovuto aggiungere che si era trattato di una festa a cui era stata
stranamente
invitata, vista la sua abituale lontananza dalla scena pubblica della
nobiltà
locale, ma si trattava di un dettaglio che poco aveva a che vedere con
la
domanda di Laszlo. Proseguì: «Mi è
parso tutto nella norma, il solito John che
conoscete meglio di me. Che non manca di canzonarmi, qualche volta, e
soprattutto che si preoccupa troppo per me». Si
fermò di nuovo e il ricordo
della giornata la travolse. Un lieve sorriso le illuminò il
volto e per
nasconderlo assaggiò d'istinto un altro sorso di
tè.
«Qualcosa
vi diverte, Sara?»
Mantenne la tazza
salda tra le mani e
si prese qualche secondo prima di parlare, cercando di organizzare un
discorso
che fosse il più sintetico possibile: non aveva molta voglia
di raccontare a
Laszlo ciò che era successo. Non che fosse accaduto niente
di eclatante, al
contrario, ma qualcosa dentro di lei la invitava a essere reticente,
temendo
che Kreizler potesse tentare una delle sue interpretazioni una volta
che il
resoconto sarebbe finito.
«Stavo
solo ripensando», cominciò a
dire sommariamente, «a un intervento di John. Si è
intromesso nella discussione
che stavo avendo con il signor Albert Paine, figlio del padrone di
casa».
«Ah, la
famiglia Paine», calcò Laszlo.
«La loro ascesa sembra inarrestabile, ora che hanno aperto la
principale via di
commercio tra New York e il Messico. Ma prego, continuate. Cosa
è accaduto di
preciso?»
Era fin troppo
interessato, Sara lo
vedeva bene. Lo si capiva dai suoi occhi, dal fatto che avesse riposto
la sua
tazza sul vassoio d'argento e che avesse assunto una posizione
più comoda sulla
poltrona, accavallando la gamba sinistra sulla destra e incrociando le
dita
davanti alla bocca. I meccanismi del suo cervello erano entrati in
azione e
Sara poteva quasi sentirli scricchiolare, ferrosi.
«Il
signor Paine è mio coetaneo. Suo
padre conosceva molto bene il mio e credo che sia questo il motivo per
cui
anch'io sono stata invitata al ricevimento». Fece una piccola
pausa e proseguì:
«Non lo avevo mai visto e di certo non avrei potuto
riconoscerlo tra la folla.
Mi si è avvicinato nella confusione e mi ha offerto da
bere». Si fermò di
nuovo, osservando l'espressione di Laszlo restare imperscrutabile.
Chissà cosa
stava pensando?
«Eravate
sola, signorina Howard?» le
chiese, senza tradire alcuna emozione in particolare.
«Non
stavo parlando con nessuno, in
quel momento. Effettivamente ero un po' defilata», dovette
ammettere.
«Mh.
Continuate».
Sara riprese:
«Abbiamo iniziato a
chiacchierare, a fare qualche generico commento sul ricevimento. Solo
allora si
è presentato ufficialmente».
«Vi siete
sbilanciata nel dare un
parere sulla festa?»
«Assolutamente
no. Ho solo detto di
non nutrire un giudizio che fosse davvero positivo o negativo. Era un
normale
ricevimento in casa di ricchi».
«Credete
che il vostro interlocutore
ne sia rimasto offeso?» indagò ancora Laszlo.
«Tutt'altro.
Il signor Paine ha
affermato di non essere un grande estimatore di eventi di questo tipo.
E non ho
dubbi che fosse sincero», aggiunse sicura.
Vide Kreizler
corrugare appena la
fronte. «E John?»
«È
arrivato più tardi. Ha interrotto
un discorso davvero interessante; il signor Paine mi stava infatti
dicendo di
essere simpatizzante del movimento femminista». Un'altra,
piccola pausa: aver
trovato – o almeno pensare di aver trovato –
finalmente un uomo che supportasse
i diritti delle donne l'aveva davvero entusiasmata. Probabilmente
sarebbe stata
in grado di chiacchierare con lui ancora per ore.
Un'occhiata
particolarmente profonda
di Kreizler la invitò a riprendere il racconto:
«John si è avvicinato
all'improvviso, cogliendomi totalmente di sorpresa. Si è
messo tra noi, ha
salutato il signor Paine e si è complimentato per la bella
festa organizzata.
Poi mi ha chiesto se non volessi un passaggio fino a casa, dato che lui
e sua
nonna stavano per andare via».
Stavolta non ebbe
dubbi: la mandibola
di Kreizler si era contratta. Le era parso che, dietro le dita ancora
incrociate, le sue labbra si fossero appena distese in un sorriso, ma
non
poteva esserne sicura.
«Siete
rimasta dai Paine?» le domandò,
il tono della voce non decifrabile.
«Confesso
che mi sarebbe piaciuto
restare ancora, perché la conversazione che stavo avendo
era, appunto, molto
interessante. Ma alla fine ho accettato l'offerta di John; d'altronde
ero
arrivata al ricevimento chiamando una carrozza in strada, quindi non
c'era
motivo per rifiutare».
Laszlo non fece
commenti. Si limitò a
guardarla per un paio di secondi, ma Sara si sentì comunque
a disagio.
«Siete
andati via subito?»
Annuì.
«Sì. Ci siamo congedati dal
signor Paine e siamo usciti».
«Il
signor Paine non ha detto nulla?
Non ha cercato di trattenervi?»
Scosse la testa:
«Al contrario. Ci ha
salutati e lasciati andare. Si è augurato di rivederci
presto».
«Anche
John, quindi».
Sara ci
pensò su. «No», si corresse,
«si
riferiva piuttosto a me. Ve l'ho detto, stavamo avendo una
conversazione
molto...»
«Non si
è forse comportato
galantemente con voi?» la bloccò il Dottore.
«Come
farebbe un qualsiasi gentiluomo
del suo calibro, immagino. Mi ha detto che sperava di rivedermi presto,
appunto, e ho risposto che per me era stato un vero piacere conoscerlo.
Era la
verità». Zittì. Non gli
raccontò che Albert Paine, con fare ammiccante, avesse
replicato un "Il
piacere è tutto
mio, ve lo assicuro"
che su due piedi l'aveva lasciata frastornata.
Così come si astenne bene dal fare alcun riferimento al
baciamano che c'era
stato al momento dei saluti, sotto lo sguardo bieco di John. Le era
parso che
in seguito avesse alzato gli occhi al cielo, ma non ne era
completamente certa.
Sorseggiò
altro tè. Vedeva Kreizler
riflettere, preso da chissà quali teorie che, non ne
dubitava, presto le
sarebbero state esposte in tutta la loro crudezza. Mentre si chiedeva
su
cos'altro l'avrebbe interrogata, Laszlo le domandò:
«Come è andato il viaggio
in carrozza?»
«Non
molto diverso da un qualsiasi
altro tragitto, Dottore. La signora Moore non ha mancato di profondere
complimenti, soffermandosi molto a illustrare i meriti della famiglia
Paine e a
commentare lo stato delle loro finanze che, come voi stesso avete
già notato,
sono chiaramente in ascesa».
«Un
genere di discorso che non vi ha mai
entusiasmata, se non sbaglio».
Sara
poggiò la tazza di tè sul vassoio
proprio come aveva fatto Laszlo poco prima. «È la
tipica conversazione di
circostanza. Avete ragione, non la apprezzo molto, ma come ospite della
signora
Moore non avrei mai osato contraddirla o chiederle di cambiare
argomento».
«Quindi
è stato questo l'unico tema di
cui si è parlato».
Annuì di
nuovo. «Della famiglia Paine e
poi di Albert nello specifico».
«E cosa
si è detto di lui?»
Sara
tentò di non sbilanciarsi e con
tono fermo disse: «La signora Moore non ha lesinato
apprezzamenti su di lui e
me ne ha chiesto conferma perché mi aveva visto
parlargli».
«La
vostra risposta?»
Quell'incalzare
stava diventando
snervante. Perché gli interessava così tanto?
«Mi sono
limitata a ribadire le mie
convinzioni e cioè che il signor Paine fosse molto
interessante», replicò vaga.
Nel finire di parlare, ebbe l'impressione che le palpebre di Laszlo si
fossero
increspate.
«John non
ha detto nulla al riguardo?»
«Se ne
è guardato bene. Non ha proferito
parola, ha fissato imperterrito fuori dal finestrino per tutta la
durata del
tragitto. Non ha abbandonato il suo mutismo nemmeno quando sono scesa
dalla
carrozza».
Kreizler la
spiazzò con un sorriso
sardonico, che non tentò in alcun modo di nascondere.
«Tipico di John»
commentò. «Probabilmente si sarebbe lanciato dalla
carrozza in corsa, se avesse
potuto».
Sara si
irrigidì sul divano, la
schiena ben dritta: «Non può continuare a
comportarsi come un bambino. Io per
prima non sono entusiasta di certi discorsi, ma addirittura non
rivolgere
parola a nessuno...! Non riesco a capire perché debba
reagire così».
Calò
ancora il silenzio. Laszlo la
guardò stupito, come se avesse detto qualcosa di insensato o
di inopportuno. «Signorina
Howard» spezzò la quiete, «state
mentendo. Credo che voi sappiate bene o che
almeno immaginiate senza troppo sforzo dove risiede la causa di un
simile
atteggiamento. Perciò non tentate di prendere in giro me o,
peggio, voi stessa.
Siete una donna e ai vostri occhi tutto sarà
evidente».
Al sentirlo parlare
in quel modo, il
suo orgoglio fu ferito. Scosse la testa e corrugò la fronte:
«Niente affatto,
Dottor Kreizler. Se non credete alla mia sincerità, possiamo
anche interrompere
qui il nostro discorso».
«Sara, mi
state davvero dicendo che
non sospettate nulla quando le cose non potrebbero essere
più evidenti?»
Sospirò,
esasperata. «Cosa c'è di così
evidente?»
sbottò.
Laszlo
cambiò posizione. Sciolse le
gambe, che aveva tenuto accavallate per tutta la discussione, e si
chinò in
avanti, fissandola con un sorrisetto che non le piacque affatto.
Impiegò
qualche secondo prima di riprendere a parlare e quando lo fece
usò una voce insolitamente
calma, quasi scandendo bene ogni singola parola.
«John
è innamorato di voi, Sara.
Glielo si legge sulla faccia, nelle attenzioni che vi riserva, nel modo
in cui
vi guarda. Non ne siete consapevole?»
Se non fosse stata
già così rigida,
probabilmente sarebbe rimasta pietrificata. Non riusciva a credere che
il
famoso alienista Laszlo Kreizler, che per mesi lei stessa aveva tentato
invano
di decifrare, ora stesse parlando con lei dei presunti sentimenti del
loro
unico amico in comune. Era una situazione folle, paradossale: nessuno
di loro
era il tipo di persona che indulge ad analizzare quel genere di
sentimenti, né
tantomeno a rifletterne insieme. Dirle che John era innamorato di lei,
poi! Ma
come gli era saltato in mente? Non era affar suo, erano faccende
private... E
poi come lo sapeva? John si era confidato con lui? Sara ne dubitava
fortemente,
sia perché John era molto riservato in proposito –
o almeno lei lo riteneva
tale. Chissà, magari aveva sbagliato – sia
perché Kreizler non era di certo interessato
ad ascoltare i turbamenti sentimentali, a prescindere da chi li
covasse.
Insomma, era tutto troppo strano. Eppure, nonostante il suo cuore
avesse perso
un battito quando il Dottore le aveva ripetuto ciò che lei
sapeva già da due
mesi, non poté non rifletterci su. Ragionò a
mente fredda, per quanto le fosse
possibile in quel momento, e fu certa di una cosa: Laszlo non sapeva
che John
le si era dichiarato. Non ne era a conoscenza, altrimenti non l'avrebbe
messa
tanto alle strette fin dall'inizio del suo racconto. No, c'era
dell'altro. E
stava a lei scoprire cosa. Perciò, dopo essersi presa del
tempo – in realtà non
più di pochi secondi – disse risoluta:
«Non dubito che mi abbia a cuore, ma non
credo che quello che provi sia amore. John... È sempre stato
così, si lascia
andare a facili passioni di cui ben presto scompare perfino il ricordo.
Non
sarò mai un passatempo, né per lui né
per nessun altro».
Laszlo
continuò a osservarla, stavolta
senza replicare. Si alzò dalla poltrona e scomparve alla sua
vista; Sara
dedusse che si fosse avvicinato al pianoforte, a cui lei stava dando le
spalle.
Evitò quindi di girarsi, sicura che in questo modo avrebbe
dato l'impressione
di non essere affatto incuriosita o in attesa di commenti da parte sua.
La voce del Dottore
stuzzicò le sue
orecchie poco dopo: «Ricordate dell'imboscata che ci hanno
teso agli inizi di
giugno?» le domandò.
«Certamente»,
assentì Sara. «Quando
stavate tornando dalla visita alla fattoria di Adam Dury».
«La
nostra carrozza...»
«Volò
giù da un ponte, sì. E siete
stati costretti a farvi strada nei boschi, fino a raggiungere la
stazione».
«Precisamente.
Ma non accadde solo
questo». Laszlo si fermò, tornò accanto
alla poltrona su cui si era accomodato
e si versò due dita di vino. Mentre lo faceva, riprese:
«Una grossa scheggia di
vetro mi si conficcò nella gamba e temetti di non farcela.
Sembrava che stessi
perdendo molto sangue e John mi fasciò in fretta la ferita.
Nella paura di
poter restare ucciso, gli dissi che avevo bisogno che portasse un
messaggio a
una certa persona: mi rispose che non sarebbe stato necessario,
perché nessuno
di noi sarebbe morto quel giorno. Così mi aggrappai a lui e
continuammo a camminare
nel fitto della boscaglia».
Sara lo
fissò bere, in attesa di
sapere cos'altro le avrebbe raccontato. Kreizler non la
lasciò aspettare molto:
«Quando fummo finalmente certi che non ci avrebbero seguiti
oltre, John mi
domandò cosa avrei voluto dirgli. Tentai di cambiare
argomento, naturalmente,
ma lui aveva capito tutto e mi obbligò a parlare.
Così, dopo essermi seduto su
un tronco che ci sbarrava la strada, gli confidai che c'era una persona
molto
importante nella mia vita. Una persona verso cui a lungo avevo creduto
di
provare solo un potente sentimento di protezione, ma che con il tempo
avevo
chiarito essere amore».
Quell'ultima
affermazione la lasciò
stupefatta. Chi avrebbe mai immaginato che Laszlo Kreizler,
così impassibile e
addirittura insensibile, in realtà nascondesse – e
molto bene, c'era da dire –
un cuore morbido e suscettibile di passione? Sara fu sorpresa dal fatto
che,
diversamente da quanto avrebbe inizialmente potuto intuire, fosse stato
lui a
confidarsi con John e non il contrario.
Il Dottore riprese:
«John mi
continuava a fissare con un'espressione difficile da decifrare; mi
chiese se
ero ricambiato e annuii. Mi disse che lo sospettava da tempo e che la
donna di
cui parlavo era splendida; mi pregò di avere cura di lei.
Poi, con un sospiro,
mi tese la mano per aiutarmi a riprendere il cammino, dicendo di aver
avuto il
merito di farmela conoscere». Dopo una breve pausa, aggiunse:
«Capite cosa vi
sto dicendo, Sara?»
Non rispose, ma la
tensione che stava
montando in lei si palesò con l'aumentare la stretta sulla
tazza di tè, che
aveva riafferrato solo per tenere le mani impegnate.
Laszlo
proseguì: «Io parlavo di Mary,
naturalmente, ma lui...»
«Si
riferiva a me» completò lei in un
soffio. Aveva gli occhi sgranati e fissi sul vassoio d'argento che le
stava di
fronte. «Per tutto quel tempo...»
«Ha
creduto che io e voi provassimo
qualcosa l'uno per l'altra. La gelosia deve averlo divorato, proprio
come
accaduto nei confronti del signor Paine».
Sara
alzò a stento lo sguardo su
Kreizler, incredula. Ciò che le aveva appena raccontato
cambiava tutto.
Cambiava il senso della dichiarazione di John, cambiava il significato
della
risposta che lei gli aveva dato quando gli aveva detto che desiderava
solo ciò
che non aveva. Che sciocca era stata!
Laszlo
poggiò il bicchiere sul tavolo
e la osservò dall'alto. «Signorina
Howard», la chiamò con tono insolitamente
addolcito e lei sostenne a fatica la profondità dei suoi
occhi, «John è il mio
più caro amico, il solo che possa definire davvero tale.
L'ho già visto
innamorarsi e ha amato in modo profondo. Ora, però,
è diverso. C'è qualcuno che
lo spinge ad essere migliore, qualcuno che lo ha liberato dai demoni
del
passato. E quel qualcuno, Sara, siete voi».
Aveva preso a
tremare e si odiava per
questo. Detestava sentirsi e mostrarsi vulnerabile, soprattutto di
fronte a un
uomo come lui. Si disse mentalmente di stare calma, di placare il
battito che
le stava sconquassando il petto, di silenziare la voce di John che ora
le
rimbombava nelle orecchie, così come l'eco di ciò
che Kreizler le aveva appena
detto. Avrebbe voluto interromperlo e congedarsi da quella casa, ma
qualcosa la
tratteneva, incitandola a restare per finire di ascoltare quello che il
Dottore
aveva da dirle. Inspirò piano, mentre Laszlo tornava a
sedere di fronte a lei,
di nuovo curvo come lo era stato prima di alzarsi.
«Non
dubitate dei suoi sentimenti, non
commettete il mio stesso errore» parlò come se
avesse voluto farle una
raccomandazione. «Ho capito troppo tardi cosa significava
davvero Mary per me e
quando finalmente me ne sono reso conto l'ho persa proprio per colpa
mia.
Riflettete su voi stessa e rispondete a questa domanda: chi e
cos'è per voi
John? Trovate nel vostro animo la risposta che cercate: vedrete, la
troverete
già lì, in attesa di essere scoperta.
Perché, almeno per questa volta, posso
dare ragione a John: l'amore risiede nel cuore. Basta solo lasciarlo
emergere».
Sara era senza
parole. I suoi pensieri
si erano imbizzarriti davanti alla pura e semplice realtà
dei fatti. Avere
inaspettatamente conferma che le intenzioni di John fossero sincere la
fece
sentire come mai prima di allora: con il morale al settimo cielo e
soprattutto
con la testa di colpo priva di dubbi, come se questi fossero evaporati
via
senza avere nemmeno il tempo di rendersene pienamente conto. Che dire
di
Laszlo, poi? Non riusciva a credere che Kreizler, così come
lo aveva
conosciuto, potesse rivelarsi non solo tanto prodigo per il suo amico,
ma
addirittura così spontaneo nell'aprire il proprio cuore a
ciò che aveva provato
in passato e che in parte sentiva ancora adesso.
«Andate a
parlargli», le consigliò
ancora. Sara non era abituata a vederlo sorridere – o a
provarci proprio come
stava tentando di fare, incoraggiante – ma la sua espressione
le fece comunque
tenerezza. «Siate felici. Ve lo meritate entrambi, dopo aver
sofferto così
tanto nella vita», aggiunse.
Annuì
con un debole cenno della testa,
ancora troppo frastornata. Laszlo aveva ragione: sia lei sia John
avevano il
diritto di vivere sereni. Che lo facessero da soli o insieme non aveva
importanza, almeno per il momento; era semplicemente necessario che le
cose
cambiassero. E mentre rifletteva su tutto questo, si alzò,
sentendosi leggera
come uno spirito incorporeo, e Kreizler la accompagnò fin
nell'atrio della
casa.
«Arrivederci,
Dottore» lo salutò lei,
tendendogli la mano.
«A
presto, signorina Howard. Vi prego,
non dimenticate ciò che vi ho detto».
Ah, come avrebbe
potuto? Non sarebbe
riuscita a scordare quella conversazione nemmeno se avesse picchiato la
testa
contro qualcosa. Assentì ancora con un singolo battito di
ciglia e varcò la
soglia, scoprendo che il temporale era passato lasciando dietro di
sé solo
rivoli d'acqua sporca che scorrevano placidi ai limiti del marciapiede.
Si
voltò e incontrò un'ultima volta gli occhi di
Laszlo, fermo dietro di lei e
incorniciato dalla porta: «Grazie» trovò
appena la forza di dire, domandandosi
se il fuoco che percepiva sulle guance non si fosse tradotto in
effettivo
rossore.
«A
presto, Sara» ripeté lui, quasi le
stesse impartendo una benedizione.
Gli sorrise di
rimando e scese i
quattro gradini che le si paravano davanti. Si gettò in
strada e imboccò il
marciapiede, certa che il Dottore l'avrebbe osservata allontanarsi
ancora per
qualche secondo. Non sbagliava: nonostante il ticchettio umido delle
scarpe
contro il manto bagnato della strada, poté sentire il
portone scattare con un
lieve ritardo. Sorrise all'aria ora fresca e inspirò a pieni
polmoni.
Forse doveva
seguire il consiglio di
Laszlo. Doveva parlare con John e sistemare tutto.
Forse, invece,
doveva fare finta di
nulla e aspettare, proprio come John le aveva promesso.
Forse doveva
soltanto essere felice e
abbracciare la vita così come le si presentava. E
chissà, presto magari il loro
caro amico comune avrebbe deciso di farsi di nuovo avanti.
Perché se Laszlo,
citando John, aveva ragione e quindi l'amore risiedeva nel cuore, non
restava
altro che farlo emergere, proprio come lei era riuscita a fare in quel
piovoso
pomeriggio di fine agosto.