«Foggy se ne è andato giorni addietro, stanco delle menzogne, di quella vita spaccata a metà. 
Ha paura Matt. Paura per il suo amico: perso nell'inferno che è quella città.»

“Sangue”.

Matt non riesce a pensare a nient'altro.

Sangue. Sangue sulle mani, fra i capelli; sangue che si intrufola nei vestiti, sotto pelle, come un tatuaggio che non va più via. 

E la città; la città che brucia ed evapora. Sa di ruggine; ruggine e carne. Come quando si cuoce un hamburger ed il grasso cola mentre il sangue si mescola col fumo grigio.

Matt percepisce ogni cosa. Sente le grida disumane della gente, il calore che gli graffia la faccia, i battiti che accelerano e poi, d'un tratto, finiscono, come un orologio che cessa all'improvviso di battere. E il dolore; quell'insopportabile dolore. Sente anche quello. Lo sente in ogni molecola umana che adesso vibra nell'aria e che lui respira, straziato. 

C'è Foggy in quella marea di dolore. Foggy che respira piano e non urla. Foggy che se ne resta in un angolo e non fa baccano. Non agita le mani al vento e non scalcia per scappare. È lì fermo e buono. Buono come lo è sempre stato. 

C'è sangue sul suo viso, sulle sue mani. Sangue che non si lava, che continua a tornare e si riversa: fiume che non trova fine.

Matt sa di chi è quel sangue. Sa eppure non dice. Ha troppa paura di sapere.

Vorrebbe urlare, eppure non lo fa. Anche lui ha paura di cedere.

Anche lui ha paura di soffrire.

Piange. Piange Matthew. Piange e muore in ogni parte di se. Piange finché il sogno finisce e si sveglia. E poi piange ancora perché non c'è nessuno lì con lui nel letto. Né sul letto che nella stanza. 

Non c'è rumore intorno a sè, né odore al di fuori del proprio. 

Adesso é solo; solo come non lo è mai stato.