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Autore: mirkovilla7    03/01/2020    0 recensioni
Dal PROLOGO: "La Sala del Consiglio cadde in un silenzio cupo creato dalle ultime parole del Governatore Barber.
La stanza era grande e per la maggior parte vuota. Sulle pareti grigie l’unica decorazione consisteva nei quadri raffiguranti i Governatori successi prima di quello attuale. Su un lato una porta di vetro scorrevole con di guardia due uomini lasciava intravedere un lungo corridoio che terminava con una porta identica. Tre sedie completavano l’arredamento con un tavolo ovale posto al centro della Sala. Sulle sedie, con aria stanca di chi discuteva da ore, c’erano due uomini ed una donna."
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ero veramente stanco di quel posto. Mi aveva sempre affascinato pensare a come potesse essere bello vivere nel Mondo di Sotto, da solo, in mezzo alla vegetazione fitta, boschi inesplorati, montagne da scalare e mari da solcare.
Durante la mia prigionia, molte volte mi ero immaginato di andare a vivere dove i miei antenati vivevano e molte volte avevo fantasticato su quei momenti.
Tuttavia, dopo pochi giorni nel Mondo di Sotto, ne avevo già abbastanza.
Maledissi me stesso per non aver esitato nello scegliere di partecipare a quella campagna suicida di missili, tribù e dolore. Maledissi me stesso per non aver scelto di rimanere nella mia umile cella da criminale dello stato. Potevo maledire tutti e tutto ciò che c’era al mondo, sia Sopra che Sotto, ma un pensiero era lì che mi assillava in quel momento: dovevo salvare Johanna.
Ma non fui io a farlo. Ci riuscì benissimo da sola.
Prima, però, per un lungo momento pensai che fosse spacciata: la donna che l’avvolgeva non sembrava intenzionata a lasciarla andare e quando la mia amica deglutì, un rivolo di sangue partì dalla giugulare e scese fino al petto.
Poi, Johanna morse.
La mano della nostra ospite (o forse eravamo noi suoi ospiti) mollò la presa sul coltello e Johanna spinse con tutte le sue forze dietro di sé, facendo sbattere la propria aguzzina contro la parete della grotta.
E fu allora che la ragazza prese una pistola e ce la puntò addosso.
«Fermi o sparo a ciascuno di voi» ci minacciò.
La distanza che ci separava era troppa per permettere a chiunque di noi di placcarla senza che facesse in tempo a far partire almeno un colpo e, inoltre, sembrava molto più addestrata di noi.
«Parliamo» proposi.
La sua richiesta fu diretta: «Cosa ci fate nel nostro territorio?»
Il sangue freddo scoprii che era una delle caratteristiche principali del nostro Joseph che riuscì ad ottenere di sedersi e discuterne con calma.
Per questa volta, almeno, fu lui a spiegare a grandi linee quello che avevamo passato e come mai ci trovavamo in quella grotta. Io, condii la storia quando mi sembrava scarna di dettagli e confermai le versioni dei fatti quando la ragazza sembrava intenzionata a chiedere conferme.
Johanna, invece, rimase in disparte ed in silenzio e attese il termine della storia.
Quando il nostro amico terminò, la ragazza si presentò come Jennifer Austin, figlia del capo-tribù di Eradash. Lo stupore fu generale e crebbe quando rivelò che, sulla base del nostro racconto, aveva intenzione di fermare lo scontro tra le due tribù.
Noi ci mostrammo d’accordo e ben intenzionati a dare una mano e, grazie a questa nostra disposizione, si propose di portarci cibo ed acqua per il tempo della nostra permanenza nella grotta.
Inoltre, Jennifer promise che avrebbe cercato di ottenere un incontro con suo padre.
 
«La tribù è cambiata, però» ci disse, «non comanda più lui. Adesso comanda il circolo».
Ci spiegò che al comando vi erano sette tra i capi-famiglia delle più importanti famiglie della tribù e che, da qualche mese, prendevano ordini da un uomo misterioso che, un giorno, era arrivato alla tribù annunciato dai sette capi-famiglia come nuovo capo-tribù.
Di più non sapeva.
 
Dopo le spiegazioni, Jennifer ci strinse le mani e tornò alla tribù.
Il sole era ormai in fase calante e noi decidemmo di concederci un po’ di riposo, in attesa del ritorno della ragazza.
Scegliemmo la porzione di terreno ad occhio meno scomoda e ci sdraiammo.
Cercai di dormire, ma i continui singhiozzi di Johanna fecero compagnia alla mia insonnia.
Non pensavo ci si potesse affezionare a delle persone in così poco tempo, ma mi sentivo in colpa per aver permesso a Laurine di rapire Sam e, per quel fatto, che Johanna stesse così male.
Joseph, invece, dormì come un sasso, con la testa appoggiata ad una mano e il corpo rannicchiato su sé stesso, come per auto proteggersi.
 
Sembrava passata un’eternità quando, finalmente, Jennifer fece ritorno alla grotta.
Con sé la ragazza aveva pezzi di pane, qualche animale cotto, qualche frutto di bosco di un rosso acceso e un cesto pieno d’acqua.
Ci abbuffammo come non mai.
Mentre mangiavamo, Jennifer prese parola: «Papà ha un piano, ma dobbiamo essere cauti» ci disse.
La spiegazione del piano richiese il resto della sera.
L’obiettivo del signor Austin era quello di usare la diplomazia e mostrare ai cittadini delle tribù che si poteva cooperare. Per farlo, voleva mostrare che anche i figli dei capi-tribù andavano d’accordo.
Il problema più grande sorse nel momento in cui Jennifer ci disse che suo padre era in cella.
«Non si può fare allora» disse Johanna, prendendo in disparte me e Joseph.
«Oppure, potremmo trovare il modo di farlo scappare» ribattei, irritato per la scarsa collaborazione dimostrata dalla ragazza.
Joseph, dal canto suo, ci osservava e annuiva a qualsiasi affermazione provenisse dalla nostra bocca, che fossero in accordo o disaccordo.
Johanna scosse vigorosamente il capo: «Non mi fido di quella» mi disse e io mi sentii due enormi pesi dentro il petto.
Da un lato, volevo dare ragione a Johanna, perché avevo imparato a fidarmi di lei e avevamo instaurato un rapporto di rispetto reciproco, ma dall’altro lato pensavo che avesse torto e che, nonostante il coltello alla gola delle ore precedenti, Jennifer sapeva il fatto suo e non mentiva.
«Mi dispiace Johanna, è la nostra unica occasione» le risposi.
«Mettiamola ai voti» propose Joseph, con la sua solita diplomazia, probabilmente perché aveva visto che entrambi iniziavamo a scaldarci.
Decidemmo di fare per alzata di mano e, con mia sorpresa, Joseph si schierò dalla mia parte.
Era deciso, avremmo salvato il padre di Jennifer e messo fine alle lotte tra le due tribù.
 
---
 
Per i giorni seguenti, ci accampammo nella grotta stabilmente.
Jennifer portò carte e penne e studiammo un piano ben elaborato. Sempre grazie alla ragazza, a turno, spiammo la tribù di Eradash, carpimmo informazioni sui turni di guardia, sui movimenti degli abitanti e su tutto ciò che potesse essere utile al nostro piano.
Johanna rimase un po’ in disparte i primi due giorni, poi si fece prendere dall’entusiasmo che mostravamo io e Joseph, anche se continuò con i suoi soliti atteggiamenti sarcastici e strafottenti, rispondendo molte volte malamente a Jennifer.
Alla mattina presto io e la ragazza di Eradash ci nascondevamo ai pressi dell’entrata di una montagna che fungeva da prigione. Sulla via del ritorno, nel primo pomeriggio, lei faceva scorribande a rubare cibo e viveri e io, nel frattempo, cercavo di cacciare qualcosa. Riuscimmo anche a procurarci delle armi: un arco per me, un coltello per Johanna e una fionda per Joseph.
A pomeriggio inoltrato, toccava a Johanna perlustrare il territorio con la ragazza, mentre alla sera Joseph andava da solo, mentre Jennifer dormiva.
Ci spiegò che capitava spesso che lei dormisse fuori dalla tribù e che, quindi, non si stupiva nessuno della sua assenza.
Dopo circa una settimana di perlustrazioni e preparazioni, decretammo che tutto era pronto e che, l’indomani, avremmo agito.
 
---
 
Quella sera, la tensione era palpabile.
Jennifer insegnava a Johanna alcune tecniche con il coltello e come difendersi da eventuali offensive dei guerrieri della tribù, che lei conosceva bene. Joseph dormiva beatamente, mente io feci del mio meglio per testare l’arco che mi era stato procurato, ma il nervosismo mi fece vergognare della mia mira.
Decidemmo che Jennifer avrebbe montato la guardia, essendo la più abituata a restare sveglia.
Il mattino seguente, smantellammo il nostro accampamento e, con i viveri e altri oggetti in spalla, ci spostammo nel bosco fino al delimitare del confine di Eradash, da dove con Jennifer avevamo trovato una porzione di rete arrugginita e ben nascosta che era una via d’accesso perfetta per il villaggio. Joseph e Johanna si spostarono poco più a nord, dove dietro una roccia avevamo stabilito di depositare i vari oggetti non necessari per la nostra missione.
Intanto, armati di un paio di cesoie rubate dal fabbro del villaggio e di un coltello, io e Jennifer creammo uno squarcio nella rete abbastanza largo da far passare più elementi insieme, in caso il padre di Jennifer fosse ferito e necessitasse di un aiuto nel camminare.
Quando tornarono i nostri amici, mancavano solamente quattro serie di fili di ferro.
Completata l’opera, demmo il via alla missione.
Jennifer conduceva il gruppetto, in quanto se si fosse imbattuta in qualcuno di sua conoscenza, avrebbe cercato di abbindolarlo. Johanna la seguiva a ruota, mente io e Joseph ci appostavamo in maniera da coprire eventuali comparse laterali. Tuttavia, nessuno ci intralciò la strada.
Avevamo dato quasi per scontato che qualcuno ci potesse vedere nonostante il piano orchestrato, per cui ci parve molto strano.
Jennifer aprì l’accesso alle celle ed entrò con Johanna. Dietro, Joseph mi precedette e, dopo un’ultima veloce perlustrazione dell’esterno, li seguii.
L’odore di urina mi colpì come un pugno sul naso, costringendomi a trattenere il respiro il più a lungo possibile.
Il lungo corridoio era coronato da entrambi i lati da celle, tutte aperte.
In fondo, una lugubre parete grigia chiudeva la stanza.
«Papà» chiamò con un filo di voce Jennifer.
Un flebile ma distinguibile mugolio rispose da una cella sulla destra, a circa metà sala. Ci precipitammo alla cella e trovammo un uomo calvo sulla cinquantina, con indosso vestiti grigi stracciati e lo sguardo spento.
Gli occhi, incavati nella faccia divenuta scarna, ebbero un lieve sussulto alla vista della figlia, poi crebbero di terrore quando si spostarono sul resto del gruppo.
«Papà, ciao» fece la ragazza, ed andò di corsa ad abbracciare il padre.
«N-non dovevi venire!» le disse con lieve voce l’uomo «Non mi r-resta molto t-tempo, loro s-sono qui. Vi p-prenderanno. Andate!» ci intimò.
Io e Joseph ci guardammo intorno, non scorgendo alcun apparente motivo di allarme.
«Papà non lasciarmi» pregò Jennifer, con il volto che iniziava a rigarsi di lacrime «ti prego»
«Addio p-piccolina mia. V-vado a s-salutare tua m-madre» tossì «M-mi dispiace t-tanto. N-non date l-loro nulla!» ci ammonì e, con la stessa rapidità con la quale gli occhi gli si erano illuminati alla vista della figlia, si spensero per l’ultima volta.
 
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Lasciammo a Jennifer qualche minuto per metabolizzare la morte del padre e, nel frattempo, noi tre perlustrammo le celle sorpassate in precedenza.
Tutte sembravano abitate, come se gli inquilini stessero usufruendo dell’ora di aria giornaliera. Alcuni letti erano sfatti, mentre su altri poggiavano libri girati ancora aperti. Una mi colpì per le linee sul muro, classiche per contare i giorni, suddivise in gruppi da quattro verticali più una diagonale. Mi misi a contarle. Mi fermai a trecentoventisette, quando Johanna mi chiamò dalla cella del padre di Jennifer, con voce preoccupata: «Patrick, vieni qui!»
Mi precipitai di corsa verso la cella e, al mio arrivo, mi si gelò il sangue.
«L’ho appoggiato a terra per metterlo comodo e quell’interruttore stava scattando, allora l’ho premuto nuovamente con la mano e.. e…» Jennifer interruppe il suo racconto perché non aveva più niente da dire. Il continuo della frase era chiaro a tutti: ci avevano teso una trappola e noi eravamo abboccati appieno.
«Jen, preparati.» presi in mano la situazione, nonostante l’ansia crescente, «Appena lasci l’interruttore corriamo ed usciamo da qui» conclusi.
Lei guardò con rammarico il corpo senza vita del padre e annuì, poi prese il coltello in una mano e si mise in posizione di scatto.
«tre… due… uno…» contò Joseph «VIA!» urlò e ci precipitammo verso l’uscita della prigione.
Il nostro scatto durò una decina di metri prima che energumeni con mitra spianati piombassero da sopra, dall’ingresso della prigione e pure dalle celle dopo quella dove giaceva il padre di Jennifer, che non eravamo ancora riusciti a perlustrare.
C’era un divario di sei uomini a uno, quindi non ci restò altro da fare che deporre le armi e alzare le mani in segno di resa.
«Capo, ce li abbiamo sotto tiro» dichiarò ad un walkie talkie un tizio di fronte a noi.
Dall’ingresso della prigione, un uomo dall’aria tirata che dimostrava una sessantina d’anni entrò con aria trionfante e battendo le mani in segno di scherno.
«Complimenti, complimenti» esordì, «pensavate davvero di passare inosservati mentre rubavate scorte di cibo e armi dal nostro villaggio e, soprattutto, mentre entravate a liberare un nostro detenuto?» si avvicinò a Jennifer, che lo guardò ferita «Puttanella ho capito subito che avresti cercato un modo per salvare il tuo paparino e ne ho approfittato» fece una carezza a Jennifer «Ah, mi dispiace per la sua prematura dipartita» aggiunse, ridendo.
Johanna, accanto a Jennifer, non si trattenne e sputò in faccia all’uomo colpendolo in un occhio.
Questo, esplose un violento manrovescio che mise in ginocchio la mia amica. Feci per andare contro l’uomo, ma enormi mani, guidate da enormi braccia e coperte da enormi e potenti muscoli mi trattennero.
«Bene, bene, bene, chi abbiamo qui?» prosegui l’uomo. Scrutò una ferita Johanna, mentre gli energumeni obbligarono anche gli altri del gruppo a mettersi in ginocchio. «Una mai vista, che sia di qualche altra tribù da stanare?» chiese tra se e se. «Anche il ragazzo lì in fondo sembra nuovo» e indicò me, che digrignai i denti in segno di sfida.
Rise ancora di scherno e mi disse «A cuccia! Poi ti diamo l’osso», creando ilari risate da tutti gli energumeni.
Di seguito, rivolse le sue attenzioni su Joseph: «Ah, ecco la star del momento, il ragazzo che ha acquisito da poco un enorme potere» aggiunse con un altro ghigno, «peccato solamente che la mia amica Laurine ti abbia preso il posto e, comunque, mi ha molto infastidito il fatto che tu sia scappato».
Mentre pronunciava queste ultime parole, estrasse una pistola e sparò in testa al ragazzo.
 
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Tutti e tre rimanemmo scioccati dalla freddezza con cui quell’uomo aveva sparato al nostro amico.
Il suo corpo si accasciò in terra in una posizione del tutto innaturale. Non riuscivo a staccare gli occhi dal suo cadavere.
L’uomo si fece improvvisamente serio e si rivolse all’energumeno che lo aveva chiamato via radio precedentemente: «Togliete questa feccia» e diede un calcio al corpo di Joseph, «rinchiudeteli nella cella del paparino e riportate i prigionieri nelle loro celle» si rivolse nuovamente a me e ai miei amici: «Ah, Benjamin Norris, piacere di aver fatto la vostra conoscenza». Rise nuovamente e se ne andò.
Mentre ci scortarono in cella, ripensai che quel nome suonava familiare.
  
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