La
Casa di
Matilde
Doveva
essere ormai notte fonda quando le sue palpebre si spalancarono nelle
tenebre.
Potevano
parere occhi stanchi a prima vista ma, a un’occhiata
più attenta, si sarebbero
potute facilmente notare le macchie di sangue presenti nella sclera¹.
Era
lo sguardo di chi aveva un grande peso sul cuore, di cui necessitava
riscattarsi al più presto.
L.
si trascinò macchinosamente fuori dalle lenzuola,
oltrepassando il grande
specchio presente nella propria stanza.
Non
gli importava come apparisse; era sicuro che, in ogni caso, nessuno si
sarebbe
curato del proprio aspetto.
Era
solito strisciare come un fantasma in mezzo alla gente: chi lo
conosceva
fingeva di non notarlo, soltanto i più incoscienti tendevano
ad additarlo con
un ghigno.
L.
era consapevole di avere una strana reputazione, come gli piaceva
pensare; persino
suo fratello non perdeva occasione di osservare quanto alcuni suoi
comportamenti fossero strambi.
Ma
non ci posso fare niente,
pensava, in tutta risposta, questi siamo noi.
Con
un sorriso maligno stampato in volto, prese la porta e
abbandonò la casa,
addentrandosi prepotentemente nell’oscurità della
notte.
Sul
terreno la neve era ormai quasi del tutto sciolta: la brezza gli
solleticava il
viso, rammentandogli di provenire da una zona marittima, ma fallendo
nel distoglierlo
dal proprio obiettivo.
Sto
arrivando, mia cara,
sogghignò rivolto al cielo stellato, finalmente ti
restituirò ciò che mi hai
regalato.
Il
vento gli gettava la chioma dorata sugli occhi, arrossava le sue
guance, ma non
poteva frenare il passo deciso diretto verso la casa di Matilde.
Non
si accorse nemmeno di aver dimenticato di indossare una sopravveste;
sapeva
che, in quel momento, non era lui a necessitare di protezione.
Dopo
svariati minuti di cammino, finalmente scorse la sua meta, al di
là della siepe:
ancora pochi passi e avrebbe raggiunto la soglia.
I
barlumi scintillanti nel cielo illuminavano la strada, insieme alla
luce
sbiadita proveniente dai lampioni; nella casa, il sonno pareva aver
intrappolato nella propria morsa tutti i suoi abitanti.
L.
non avrebbe mai voluto essere al loro posto, attanagliato dalla
mostruosità dei
propri incubi; incosciente, indifeso, trasportato in una dimensione
senza
spazio e senza tempo, in cui esercitare il proprio controllo sugli
eventi era
pressoché impossibile.
La
porta esterna della villetta in cui abitava Matilde era adornata da una
ghirlanda scarlatta, illuminata dalla luce della luna, reduce del
Natale appena
passato.
«Oh,
maledetta!» gridò L. al vento e alle stelle.
«Matilde!
Aprimi!» continuò, in preda a un’ira che
la ragazza non doveva avergli mai
visto indosso.
In
verità, quella personalità era una delle sue
preferite e, di conseguenza, una
di quelle che riusciva a celare meglio.
Nessuno
pareva realizzare quanto feroce potesse essere quello strambo ragazzino
di un’anonima
cittadina di Bloemendaal².
Ma
la casa era impregnata di bei sogni e di silenzio.
Una
quiete che lui non conosceva e che la sua fobia gli impediva di
sperimentare.
Per
fortuna la puttana abita in una zona isolata,
pensò il ragazzo, in un lampo
di lucidità.
La
luna pareva essere l’unica testimone di ciò che
era sul punto di accadere.
Con
la forza di un bovino determinato a uccidere il torero, L. si
scagliò contro la
porta adornata, verificandone la fragilità sfondandola con
la propria stazza.
Il
legno si era quasi totalmente schiodato dalle cerniere e
l’angolo superiore
pendeva pericolosamente verso il basso.
Il
colpo non poteva non aver risvegliato la famiglia: un ghigno malvagio
si
dipinse sulle labbra del giovane quando, all’improvviso, una
donna irruppe
nell’ingresso.
Nei
suoi occhi si poteva scorgere l’esatto opposto di
ciò che illuminava quelli del
malandrino: terrore quasi allo stato puro, che la fece scivolare con la
schiena
sul pavimento quando L. estrasse un coltello da cucina da una tasca.
Non
aveva idea di quando lo avesse posto lì, ma comunque fosse,
pensò di aver fatto
la scelta giusta.
«Salutami
Lucifero, bambola» ghignò il biondo, estasiato nel
vedere una smorfia di morte
sul volto della donna.
Le
urla gli penetrarono l’udito come tante piccole lame aguzze;
gli pareva quasi di
sentire la sua anima maledetta abbandonare il corpo.
È
inutile gridare,
avrebbe voluto sbraitare, nessuno può salvarti
dalla fine.
«Non
fare del male a mia figlia» aveva mormorato la donna con
difficoltà, prima che
la vita spirasse completamente da lei.
L.
estrasse la lama dalle budella, osservando il liquido vermiglio
scorrere via a
fiotti dal corpo femminile, dal pugnale, dalla vita.
Lo
lambì con passione in tutta la sua interezza: il momento
dell’estasi non poteva
terminare così presto.
Col
volto imbrattato di sangue, come i suoi occhi, non si accorse subito
della
figura tremante presente sulla soglia del luogo del delitto.
Singhiozzava
sommessamente, succhiandosi le dita: l’aguzzino poteva
percepire chiaramente il
desiderio di soccorrere la madre, stringerla tra le braccia, nel
disperato tentativo
di riportare la vita nel suo corpo.
Piangeva
lacrime amare la sua Matilde, forse consapevole di avere ancora pochi
minuti da
vivere.
Eppure,
la personalità malvagia di L. non era affatto in grado di
provare pena innanzi
a quella scena: doveva annientarla come meritava, voleva eliminare la
sua
stirpe come era giusto che accadesse.
L’ira
scatenata dai ricordi di quella visione lo accecò: in un
balzo gli fu addosso,
afferrandola per le spalle, mantenendole la testa reclinata
all’indietro.
I
gemiti della ragazza si facevano più intensi, il pianto si
faceva più
disperato.
«Perché
mi stai facendo questo, Leo-»
Un
grido feroce gli uscì improvvisamente dalla gola.
Non
le avrebbe permesso di pronunciare quel nome con la sua bocca sporca,
che aveva
saggiato tante altre labbra oltre alle sue.
«Matilde
merita di morire» decretò la voce apatica del
giovane biondo, «Matilde non
esiste».
Con
un gesto fulmineo, la lama affilata la penetrò nello
stomaco, quasi nello
stesso punto in cui aveva colpito la madre.
«Voglio
prendere anch’io il tuo cuore» sussurrò
L. al corpo ormai inanimato della
giovane.
Avrebbe
voluto ottenere una vendetta più gloriosa: in fondo, se lo
meritava.
Avrebbe
voluto avere centomila spettatori, pronti ad applaudire il suo gesto di
estremo
coraggio.
Soprattutto,
quel dolore terribile era finalmente stato ripagato.
«Mi
avevi promesso che saremmo stati sempre insieme»
sbraitò falciando l’aria
intorno a sé, «invece hai preferito fare la
puttana!» gridò iracondo, la mente
offuscata dal sapore amaro di una vendetta senza significato.
Una
pozza color granata andò formandosi sotto la veste leggera
della giovane donna,
macchiando la lunga chioma corvina, aggrovigliata sotto la sua massa
corporea.
La
quiete aveva avvolto velocemente l’abitazione, rammentando
all’unico superstite
il luogo isolato in cui si trovava.
Dopotutto,
era stato in quella casa tante volte: conosceva bene la pineta
circostante, la
vista del mare dalle sue finestre.
Persino
l’odore delle lenzuola appena lavate gli era rimasto impresso
nella memoria.
La
personalità di L. stava lentamente cambiando forma,
assumendo una piega
diversa.
Dopo
svariati minuti passati in una condizione simile al trance, una
sensazione di
angoscia prese a stringergli la carne del petto, impallidendo il suo
volto.
Le
ginocchia cedettero nella pozza vermiglia; gli occhi, prima iniettati
di
sangue, cominciarono a stillare enormi lacrime.
Sotto
le palpebre, era sicuro che avessero perso ogni sfumatura che li
caratterizzava.
«Mia
piccola Matilde» strepitò in un grido atroce,
privo di qualsiasi sfumatura
malvagia.
«Amore
mio, che cosa ti è successo?»
Le
gocce saline bagnavano ora il volto della donna, a cui il ragazzo si
aggrappava, in cerca di consolazione.
«Chi
ti ha ferito, Matilde mia?! Ti voglio bene più di ogni altra
cosa al mondo!»
singhiozzò feroce in faccia alla morte, impossessatasi ormai
da un po’
dell’anima dell’amata.
˷
Leonard
si risvegliò all’improvviso con un peso sul petto:
il respiro era accelerato,
la gola terribilmente secca e il cuore batteva forte, come ogni volta
che realizzava
di aver ceduto al sonno.
Si
sedette sul letto, tastando le coperte con le mani, realizzando di
avere
abbandonato per davvero l’universo onirico per tornare alla
realtà.
Ci
mise molto a calmarsi, rischiando di subire un violento attacco
d’ansia da un
momento all’altro; ogni cellula del proprio corpo era
terribilmente scossa da
profondi tremiti.
Quando
finalmente riuscì a rilassarsi un poco, decise di
ingurgitare un tranquillante.
Poteva
sopportare quelle grosse pillole scendergli giù per la gola,
se questo lo
avrebbe aiutato a rimanere sveglio e calmo per più tempo
possibile.
Tuttavia,
non avrebbe mai sopportato di ingurgitare quei tremendi sonniferi,
permettendo
volontariamente alle pastiglie di imporgli un sonno costante.
Forse,
in questo modo, sarebbe riuscito a scrivere tutta la notte.
L’acqua
nel bicchiere, però, quella sera aveva uno strano sapore.
Leonard
non se ne accorse, ma le sue mani erano macchiate di sangue.
¹
Con questo termine si indica la cosiddetta “parte bianca
dell’occhio”.