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Autore: Doralice    10/02/2020    2 recensioni
Apparire anonimi di sicuro era molto comodo quando si voleva pedinare e spiare qualcuno. Quando si entrava in modalità stalking. Cosa che lui assolutamente non aveva mai fatto, non intenzionalmente insomma. Non era intenzionale neppure in quel momento, anche se aveva deliberatamente scelto di seguire Wade per l’ennesima volta, con la macchina fotografica in mano e la musica dell’IPod nelle cuffie, sparata a palla per cercare di tenere a bada i sensi di colpa.
Genere: Commedia, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Deadpool, Peter Parker
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note:
Ciao! Questa è la mia prima Spideypool e la dedico alla mia cara amica Nat. <3
Spero di non aver svaccato fuori. Questi due sono adorabili ma tutto quello che so viene dai film (NB il Peter di questa storia è quello dei due Amazing Spider-Man) e dal fandom, per cui per il resto ci ho ricamato sopra per conto mio. Ci saranno un po' di canzoni citate qua e là, a partire da quella del titolo, e mi premurerò di inserire ogni volta un link a YouTube.
Buona lettura!

 

 

 

Teeange Dirtbag

 

* * *

 

Capitolo 1

 

* * *

 

His name is Wade

I have a dream about him

He rings my bell

I got patrol in half an hour

Oh how he rocks

In spandex and leather

But he doesn't know who I am

And he doesn't give a damn about me

'Cause I'm just a teenage dirtbag, baby

Yeah I'm just a teenage dirtbag, baby

Listen to Iron Maiden, baby, with me

Oh

 

Adesso, non è che Peter si fosse svegliato una mattina e avesse deciso, così su due piedi, di diventare uno stalker. E quando finalmente ebbe il coraggio di pensarci, di guardare l’intera faccenda per quello che era, si accorse si essersi ficcato da solo in quella situazione imbarazzante senza nemmeno essersi reso conto. Semplicemente, un giorno aprì il cassetto del suo comodino e tirò fuori quella cartellina e guardò tutte quelle foto, come ormai faceva spesso, e improvvisamente venne folgorato dall’illuminazione: era un cazzo di stalker.

Oh, per parecchio tempo se l’era raccontata, e anche piuttosto bene. Che era una cosa innocente, che tante persone conservavano le foto dei loro amici, che non aveva alcun doppio senso, proprio nessuno. Ma adesso doveva farsi un esame di coscienza: non c’era niente di innocente in tutto questo. Le persone normali espongono le foto dei loro cari incorniciate, non le tengono gelosamente – vergognosamente – nascoste nel cassetto del comodino. Il doppio senso era nato nel momento stesso in cui, invece di cestinare tutte quelle foto, aveva deciso di conservarle. E di aggiungerne altre. E di nasconderle.

È che Peter davvero non se lo spiegava. Comprendeva le sue ragioni, ma non riusciva ad andare oltre, ad accettarle. Ad accettare il fatto che Wade odiasse tanto il proprio aspetto. Forse perché il suo comportamento in merito era bipolare. Niente di nuovo, lo era su qualunque aspetto della vita. Stiamo parlando di Wade Winston Wilson: tutto, in lui, era schizofrenico. E quelle foto ne erano la prova lampante.

La prima non l’aveva scattata Peter. Era uno stupido selfie che Deadopool gli aveva estorto appena si erano conosciuti, uggiolando come una fangirl in preda ai bollori all’idea di poter fare una foto con il suo idolo. Erano sul tetto di un grattacielo, in pieno costume, e Peter ricordava bene il disagio che aveva provato in quel momento, col braccio del mercenario più infame della storia stretto attorno al collo. Lo ricorda bene perché adesso gli sembrava di essere lontano anni luce da quella sensazione: l’istinto appena contenuto di balzare via sibilando. In quel momento mai avrebbe immaginato che i mesi sarebbero trascorsi, e con loro numerose ronde insieme e spuntini a base di junk food, discutendo di film e ascoltando musica insieme, aspettando che l’alba sorgesse sullo skyline di New York.

E in una di quelle albe, certamente in preda alla follia o alla stanchezza cronica che accompagnava la sua doppia vita ormai da tre anni, sarebbe stato Peter stesso a dargli il suo numero – sai com’è, in caso di bisogno. Certamente non perché si sentiva mortalmente solo e infelice e si era reso conto con una punta di depressione che Deadpool – sì, proprio Deadpool – fosse la sola persona nella sua vita a riuscire a farlo sorridere con i suoi sproloqui, e a farlo sentire meno sfigato quando qualche pezzo del suo allucinante passato sfuggiva in mezzo ai suddetti sproloqui. Assolutamente non per questo motivo.

Comunque sia, Peter gli aveva dato il suo numero. E la mattina successiva si era ritrovato WhatsApp intasato: Deadpool gli aveva inviato tutti i selfie imbecilli che si erano scattati insieme in quei mesi. E siccome erano due idioti, erano veramente tanti! Peter aveva saltato lezione, quel giorno. Perché dalla ronda della notte precedente aveva guadagnato un paio di costole incrinate. E perché aveva perso troppo tempo a ridacchiare, sepolto tra le coperte, mentre scorreva e riscorreva le foto.

Ma era trascorso ancora un po’ prima che una di quelle foto venisse stampata e andasse a finire nel cassetto del comodino, in quella cartellina. Innanzitutto perché quella cartellina ancora non esisteva. Perché di base non c’era proprio alcuna foto stampata da conservare e Peter non vedeva alcuna ragione per cambiare quella situazione.

Finché un pigro sabato di primavera, con la sessione degli esami ormai alle spalle, si decise a prendere tutti i rullini che aveva accumulato e a svilupparli. Sia perché davvero non poteva ancora rimandare, sia perché zia May aveva ripreso a fare i doppi turni e avevano un disperato bisogno di soldi, per cui era arrivato il momento di vendere qualche altra foto di Spider-Man al Daily Bugle.

Dunque Peter aveva tirato fuori la vecchia attrezzatura, chiuso gli scuri della finestra e acceso la luce rossa, trasformando la sua stanza in una camera oscura. I rullini non erano pochi e il lavoro gli prese tutta la giornata, a sera aveva gli occhi rossi per le esalazioni chimiche e, nonappena finì di appendere le foto ad asciugare, si buttò a dormire lasciando la camera sottosopra.

La mattina dopo, in pigiama e con un’enorme tazza di latte e cereali, raccolse tutte le foto e si mise a gambe incrociate sul letto. Come al solito, la maggior parte erano da scartare: sarà stato anche un supereroe e un buon fotografo, ma non poteva essere entrambe le cose contemporaneamente. Alcune erano fuori fuoco, altre non lo inquadravano nemmeno interamente, e così via. Peter selezionò le poche uscite decentemente, buttò via quelle inservibili e, senza in realtà badarci più di tanto, si ritrovò a conservarne qualcuna in un cassetto. Nel cassetto del comodino.

Non ci aveva pensato finché non se l’era ritrovate in mano, ma non era stata una sorpresa: condividendo le ronde con Deadopool era ovvio che in alcune foto sarebbe apparso anche lui. Naturalmente, era escluso di venderle al Daily Bugle. La reputazione di Spider-Man viaggiava già su binari insicuri, non poteva permettersi di farsi vedere in azione con Deadpool. Il fatto che il mercenario sembrasse aver messo la testa a posto – almeno per il momento – era noto a pochi e in ogni caso all’opinione pubblica non interessava affatto.

Non le poteva vendere, quindi. Ma perché mai buttarle? Solo perché non gli servivano a fare soldi? Non era quel quel genere di persona, Peter. Dopotutto, loro due erano in qualche modo amici – nel modo contorto e un tantino ossessivo con cui solo Deadpool poteva stabilire un’amicizia – e Peter non vedeva cosa ci fosse di male a conservare delle foto di un suo amico.

E in ogni caso, non sarebbe mai venuto a saperlo, no? A Deadpool non interessava nulla di lui – di Peter. Gli importava di Spider-Man, certo, ma quello era un altro discorso.

Il mercenario ne era un fan accanito, come Peter aveva scoperto quando era stato per la prima volta nel suo appartamento. Non che prima non ne avesse avuto il sospetto: Deadpool era piuttosto ridondante e amava comunicargli continuamente la sua ammirazione e il suo indiscusso amore e altre amenità simili. Ma entrare nel suo ambiente e vederlo letteralmente tappezzato di memorabilia di Spider-Man, come se fosse la cameretta di un bambino della scuola materna, ecco, gli aveva dato una nuova prospettiva su quella faccenda.

Era stata in quella stessa occasione che Peter aveva visto la sua faccia per la prima volta. Lui già conosceva il suo nome: non era mai stato un mistero. Le sue generalità erano alla portata di chiunque, visto che aveva un sito internet in cui pubblicizzava il suo lavoro a suon di gif animate e scritte al glitter e alcune foto in posa professionale con indosso un maglione a collo alto. Peter aveva riso di quel sito assurdo, esattamente come rideva dei suoi monologhi bizzarri.

Poi aveva sentito una tristezza agghiacciante spaccargli il cuore. Proprio come gli accedeva a volte quando ascoltava i suoi monologhi.

Alcuni supereroi nascondevano gelosamente la loro vera identità, per lo più per le stesse ragioni di Peter: avevano molto da perdere. Altri, come Deadpool, avevano già perso tutto.

Quella prima volta al suo appartamento, mentre giocavano alla playstation e dividevano una pizza gigante, Peter si accorse di quanto Wade fosse solo. Lui per lo meno aveva zia May, ma Wade? Lui tornava a casa, si toglieva la maschera e non aveva nessuno con cui parlare, se non le Voci nella sua testa.

Peter valutò che, da quando faceva le ronde assieme a lui, le notti trascorrevano meno pesanti e alla fine tornava a casa anche meno acciaccato solito – erano una squadra niente male. E siccome Deadpool sembrava così preso da Spider-Man, perché non renderlo felice permettendogli di trascorrere anche del tempo libero con il suo beniamino?

Era per questo che Peter aveva iniziato ad accettare i suoi inviti, quando poteva. Se il giorno dopo non aveva lezione e non doveva studiare, poteva anche permettersi di passare la mattinata sul suo divano sfondato, giocando alla play o binge watchando serie tv o facendo il karaoke, per poi collassare dal sonno verso l’ora di pranzo.

Era solo per questo. Certamente non c’entrava nulla il fatto che quando erano insieme il suo umore migliorasse in maniera francamente esagerata. Che smettesse di sentirsi così solo. Che riuscisse a non pensare a Gwen. Almeno per qualche ora.

Non c’entrava niente il fatto che, d’accordo, trascorreva il tempo insieme a lui in quanto Spider-Man, ma in quei momenti poteva permettersi di essere Peter, almeno un pochino. E non si sentiva Peter da molto tempo.

Qualche volta si era persino auto-invitato, arrampicandosi direttamente sul muro del condominio e bussando timidamente alla sua finestra. E ogni volta sentiva, soffocato in fondo al petto, un senso di inadeguatezza. Come se si aspettasse di ricevere un rifiuto da un momento all’altro. Ma quel rifiuto non arrivava mai: Wade apriva la finestra e lo accoglieva con un sorriso a trentadue denti.

– Mi casa es tu casa, Spidey! –

Ma certo – pensava Peter con una strana sensazione addosso, qualcosa a metà strada tra il sollievo e la malinconia – lì sarebbe sempre stato il benvenuto Spider-Man.

 

*

 

Chat:

Wade

 

Peter

Serata piatta.

Mi sto annoiando.

Maratona di Golden Girls?

Posso essere da te in quindici minuti.

Il tempo di passare al tex.

 

Wade

Oh Baby Boy, mi si spezza il cuore, ma non sono in zona!

A dire il vero non sono nemmeno in tempo!

 

Peter

???

 

Wade

Sono nella Tucson del 1875.

 

Peter

Cosa ci fai nel vecchio west?

 

Wade

Ci sono molti posti peggiori del vecchio west.

Avrei potuto finire nel medioevo, dove probabilmente mi avrebbero messo al rogo come eretico.

 

Peter

Ci sei andato solo per poter citare Back to the future III?

 

Wade

Ovviamente no.

Ho convinto Cable ad andarci per trovare la ricetta originale dei chimichanga.

 

Peter

La missione sta avendo successo?

 

Wade

È più difficile di quel che immaginavo.

Temo che non sarò di ritorno ancora per qualche giorno.

 

Peter

Wade.

Tu non pensi quadrimensionalmente.

 

Wade

Vedi, è per questo che ti adoro!

 

Peter

Allora, ti aspetto al tuo appartamento?

 

Wade

Sì, ma i chimichanga li porto io!

 

Seduto a gambe incrociate sul soffitto dell’appartamento di Wade, Peter stava scrivendo la risposta, quando sentì la porta aprirsi.

– Baby boy! –

Peter calò giù e atterrò davanti a lui. Sopra la sua solita tuta, Wade indossava un poncho multicolore, stivali con speroni e cappello da cowboy. Di certo nella sua testa doveva sembrare perfettamente mascherato per il vecchio west.

– Li hai trovati? – commentò guardando la borsa che teneva in mano.

– Beh, più o meno. –

Wade gli passò la borsa e si liberò del travestimento. Peter scostò un lembo e scrutò il contenuto.

– Più o meno? – inquisì estraendo un involto.

– Ho chiesto in giro a tutti i messicani che incontravo, ma sembra che il 1875 fosse troppo presto. – lo sentì raccontare dalla camera da letto – Solo che ormai erano troppo incuriositi e quindi ho dovuto cucinare per loro un chimichanga. Il primo chimichanga della storia! –

Peter scosse la testa: – Wade… –

Il mercenario tornò in soggiorno con indosso un pigiama a tema Hufflepuff e andò in cucina a prendere due birre.

– Cosa c’è? – chiese con aria innocente – Non potevo certo abbandonarli in quel modo! Sai quanto sono pericolosi dei messicani incazzati? –

Si sedettero sul divano e Peter gli allungò un chimichanga.

– Questo è razzista. E hai giocato di nuovo il continuum spazio temporale. Cosa ne pensa Cable? –

A Peter non piaceva come ogni volta gli veniva da pronunciare il nome di Cable, ma non poteva farci niente. Ringraziava di avere la maschera a coprirgli la faccia, perché era certo che la sua espressione lo tradisse.

– Cable me lo intorto io. – Wade addentò il suo chimichanga e accese la tv – Ma ti prego non smettere, sei così carino quando fai il geloso! –

Peter si strozzò con la birra e l’idiota rise. Negare non avrebbe fatto altro che dargli corda, per cui gli diede un cazzotto sul braccio e continuò a mangiare come se niente fosse.

Guardarono tre stagioni consecutive di Golden Girls e si scolarono una cassa di birra. E quando Wade si addormentò russando, con la testa ciondoloni sul bracciolo del divano e un rivolo di saliva all’angolo della bocca, Peter non andò via subito.

Perse un po’ di tempo a riordinare il casino che avevano lasciato, chiedendosi con che coraggio Wade riuscisse a vivere in quella maniera. Va bene che era immune a qualunque malattia, ma Cristo, era certo di aver contratto l’epatite e il colera in un colpo solo mentre dava una pulita alla cucina. Ficcò la sua tuta in lavatrice e la avviò, gli rifece il letto e vuotò la spazzatura.

Era solo una leccata sulla superficie di quel tugurio, ma non è che potesse farci molto. Non era la sua colf e non vivevano insieme, grazie al cielo, o avrebbe dato di matto. Wade aveva avuto una fidanzata, anni prima. Viveva così anche con lei o era meno noncurante?

Peter si massaggiò la faccia da sopra la maschera. Perché si stava facendo certe domande? Perché si era ritrovato ad immaginare Wade in una situazione domestica?

Afferrò il suo zaino e lo mise in spalla, intenzionato ad andarsene da lì molte velocemente. Il suo peso gli ricordò perché si stava facendo quelle domande inopportune.

Aprì lo zaino e ne estrasse la macchina fotografica. Temporeggiò. Si crogiolò nel senso di colpa.

Wade aveva mostrato una grandissima fiducia a farlo entrare nella sua vita, ad aprirgli letteralmente la porta della sua casa, a mostrargli suo volto. Conoscendo la sua scarsissima autostima, probabilmente non si immaginava neppure quanto Peter si sentisse lusingato – e allo stesso tempo terrorizzato – da tutta questa confidenza in cui era riuscito a trascinarlo.

Peter tolse il coperchio dall’obiettivo e lo puntò.

Si chiedeva spesso quante altre persone erano state in grado di vedere Wade in quelle circostanze. Vanessa, certamente, ma lei non c’era più. E Cable? Non l’aveva mai visto assieme a lui senza maschera, ma d’altra parte non era sempre presente nella vita di Wade. Né c’era ragione alcuna per indagare su cosa facessero loro due insieme, giusto?

Peter regolò la ghiera e mise a fuoco.

Non c’era nemmeno alcuna ragione per voler immortalare Wade in quel momento. Ma lo avrebbe fatto comunque. E se ne sarebbe pentito in un altro momento.

Click.

 

*

 

Ogni volta che si fermavano sul tetto di un grattacielo dopo una ronda, esausti ma vivi. Ogni volta che si ritrovavano all’appartamento di Wade, ad ammazzare il tempo tra karaoke e repliche di serie tv. Ogni volta che gli sedeva accanto con la pancia piena di cibo speziato e una birra in mano e, ovunque fossero e qualunque ora segnasse l’orologio, uno dei due passava all’altro un auricolare e ascoltavano musica insieme, in silenzio.

Ogni volta, Peter si sentiva felice. Cioè, davvero felice. E si sentiva anche in colpa.

D’altra parte, era il filo conduttore della sua vita: sentirsi in colpa per le cose belle che aveva.

Il fatto era che Peter poteva percepire nettamente la fiducia incondizionata che Wade nutriva nei suoi confronti, ma lui credeva di non meritarne neppure un millesimo. Ripensava a quella cartellina chiusa nel suo comodino e si sentiva uno schifo. Semplicemente era così: si faceva schifo.

Oh, certo, la persona ritratta in quelle foto aveva fatto cose ben peggiori in passato – e qualche volta continuava a farle anche nel presente. Ma Peter aveva una sua morale e non aveva senso mettersi a fare confronti. Non aveva senso fare come i bimbetti piccoli e correre dalla maestra a dirle che “Ha iniziato prima lui!”, perché non è così che funziona la vita adulta. Purtroppo o per fortuna. Ma sopratutto perché l’immoralità di Deadpool non aveva niente a che fare con questo.

Questa sua assurda fissazione.

Questa cosa – non era ancora pronto per dargli un nome e forse non lo sarebbe stato mai – che quella sera gli aveva fatto rubare quella foto. La stessa cosa che un giorno l’aveva spinto a mettere la macchina fotografica a tracolla e, un passo avanti all’altro, raggiungere il condominio dove viveva Wade. E aspettare.

E vederlo uscire.

E inquadrarlo, metterlo a fuoco.

E premere il pulsante di scatto.

Click.

Di nuovo, si sarebbe pentito dopo.

Peter, ancora una volta, se la raccontava. Che era un soggetto interessante, come poteva esserlo un paesaggio esotico o un edificio storico o un animale raro. Che non era altro che un modo per allenarsi nella fotografia. Che un giorno quelle foto le avrebbe buttate.

Ma quel quel giorno non veniva mai. E le foto nella cartellina aumentavano.

Se si escludeva la sua attività come mercenario, Wade faceva una vita normale. Non c’era niente di intrinsecamente interessante nel modo in cui trascorreva le sue giornate quando smetteva gli abiti di anti-eroe e indossava quelli di civile. Faceva la spesa, pagava le bollette, andava in palestra, qualche volta passava al bar di Weasel. La sua vita era anche meno interessante di quella di Peter, se possibile. E ancora una volta, era una vera doccia fredda notare il contrasto: il lavoro di Deadpool e la vita di Wade, l’attitudine con cui il primo affrontava le cose e l’inerzia con cui il secondo andava avanti. Era come vedere due persone diverse, e faceva fottutamente male.

La sua vera identità sarà anche stata di dominio pubblico, ma Peter sentiva che la maschera di Deadpool era per lui indispensabile per sopravvivere, forse anche più di quanto non lo fosse per sé stesso la maschera di Spider-Man.

Chiuso nella sua stanza, Peter apriva il cassetto del comodino, tirava fuori la cartellina e osservava quelle foto. Si chiedeva quanto di Wade riuscisse a vedere davvero quando entrava nel suo appartamento e passavano il tempo insieme. Aveva la sensazione che, nonostante si togliesse il cappuccio appena varcata la soglia di casa, la maschera di Deadpool gli restasse comunque in faccia, in qualche modo.

Poi si ricordava che lui, il cappuccio, non se lo toglieva mai. Neppure ci aveva mai pensato, di toglierlo davanti a lui. Non era contemplabile, e non solo perché la sua identità doveva restare segreta. Peter aveva imparato a fidarsi di Wade – no, sarebbe più onesto dire che in tutti quei mesi era stato Wade che si era pazientemente guadagnato la sua fiducia, rendendosi un prezioso alleato ogni volta che nelle ronde avevano dovuto scontrarsi con qualche villain, nonché un amico senza pari in grado colmare vuoti affettivi innominabili. Se un giorno, per qualunque motivo, Wade fosse venuto a conoscenza della vera identità di Spider-Man, Peter poteva giurare che avrebbe mantenuto il segreto.

No, non era quello – non più.

Era la paura di perdere tutto questo. Ancora una volta. E sempre per colpa di Peter.

Per quanto con Wade riuscisse ad essere sé stesso, Peter aveva sempre addosso quella maschera. Così l’aveva conosciuto e così si aspettava di vederlo. Il suo idolo, il suo Spidey. Spider-Man poteva bussare alla sua finestra a qualunque ora e sarebbe stato accolto sempre con un sorriso e una ciotola di noodles già nel microonde. Ma Peter? Come sarebbe stato accolto un anonimo teenager del Queens?

Spider-Man era… beh, era Spider-Man. L’eroe, la celebrità del momento, il Golden Boy di New York. Era figo e inarrivabile, e Wade non faceva mistero del fatto che si ritenesse onorato di essere riuscito a diventare suo amico.

Peter era… nessuno.

E nessuno sarebbe rimasto, fintanto che poteva. Era comodo, sotto certi punti di vista. Tutte quelle foto che era riuscito a scattagli – a rubargli – le aveva ottenute proprio perché riusciva a passare inosservato. Nessuno lo notava mai e di norma ne soffriva, oh, Dio solo sa quanto ne aveva sofferto al liceo. Ma ad essere onesti, da quando era Spider-Man e si vedeva sbattuto su tutti i media più o meno quotidianamente, era più che felice che la faccia – la sua vera faccia – non la notasse nessuno.

Apparire anonimi di sicuro era molto comodo quando si voleva pedinare e spiare qualcuno. Quando si entrava in modalità stalking. Cosa che lui assolutamente non aveva mai fatto, non intenzionalmente insomma. Non era intenzionale neppure in quel momento, anche se aveva deliberatamente scelto di seguire Wade per l’ennesima volta, con la macchina fotografica in mano e la musica dell’IPod nelle cuffie, sparata a palla per cercare di tenere a bada i sensi di colpa.

Peter non seppe spiegarsi esattamente il motivo, ma forse fu proprio per quello – per la musica a palla – che non lo sentì arrivare. Non è che avesse avuto modo di farsi domande in quel momento, altrimenti si sarebbero chiesto dove fosse finito il suo senso di ragno, visto che un attimo prima se ne stava tranquillo a camminare sul marciapiede, seguendo a debita distanza Wade, mentre un attimo dopo lui era sparito dalla sua visuale. Per poi vederselo piombare addosso.

E insomma, se il suo senso di ragno non lo avvertiva dell’imminente aggressione di novanta chili di puri muscoli canadesi piuttosto incazzati, c’era qualcosa che non andava. Ma come abbiamo detto: Peter non ebbe il modo di farsi domande. Gliele stava già facendo Wade, tenendolo premuto schiena al muro con un avambraccio largo quanto il suo torace e uno sguardo che dire furioso era poco.

– Facciamo così: tu mi dici chi sei e che cazzo vuoi da me, e forse io non ti mando all’obitorio. –

Chiariamoci: ovviamente Peter non aveva paura di per sé. Il mercenario era molto forte, come aveva avuto modo di notare durante le loro ronde, ma non era certo forte quanto lui. Se avesse voluto, a Peter sarebbe bastato un banale movimento del polso per scaraventarlo dalla parte opposta della strada. Ma non era quello il problema. E nemmeno lo era il fatto che, naturalmente, per amore di copertura Peter doveva fingersi il teenager imbranato che era sempre stato prima fare la conoscenza con i ragni geneticamente modificati della Oscorp.

Il problema era che Peter non aveva mai assistito a niente del genere. Oh, certo, qualche volta, durante i più brutali tra gli scontri con i loro nemici, aveva visto in cosa poteva trasformarsi Deadpool, e fortunatamente lui era stato presente per scongiurare il peggio. Ma quello era, appunto, Deadpool. Non aveva mai visto Wade in modalità ti-spacco-il-culo. E sopratutto non l’aveva mai visto in quella modalità nei suoi confronti. Doveva ammettere che era un tantino agghiacciante.

– Non sono nessuno. –

L’aveva detto balbettando, e non aveva dovuto sforzarsi di fingere.

– Ah-ah. Allora se questa – Wade gli sfilò la macchina fotografica – è di nessuno, posso anche usarla come fionda. –

Peter si era sentito gelare. Usare i suoi poteri era escluso, quindi la sua unica e preziosissima macchina fotografica era spacciata.

– Ti prego no! –

Saltellava goffamente sul posto per cercare di riprenderla, ma Wade era più alto di lui e la teneva lontana dalla sua portata, passandola da una mano all’altra. Per Peter tutto questo era una patetica rivisitazione di tutti gli intervalli dei suoi anni scolastici.

– Ma è un pezzo di antiquariato! – ribatté Wade, un sogghigno ironico che gli deformava il volto e lo sguardo impietoso che lo scandagliava – Che cosa sei, un hipster? Almeno sai come funziona o fai finta per darti le arie? Ah, no… – gli tirò un lembo della maglietta – gli hipster non ascoltano gli Iron Maiden. –

Ad ogni parola cattiva di Wade, la frustrazione di Peter cresceva esponenzialmente. Stava succedendo esattamente quello che aveva sempre temuto: l’aveva visto per quello che era davvero, aveva visto Peter, e lo riteneva una nullità.

– Non sono nessuno. – ripeté – Sono solo un teenager sfigato. –

– Mh… sì, mi sa di sì. – Wade lo occhieggiò con sguardo folle mentre maneggiava la macchina fotografica.

– Per favore… – Peter scosse la testa e la sbatté al muro, disperato – Era di mio padre. –

Wade atteggiò il volto in un broncio di compassione.

– Oh, era del paparino! – tubò aprendo lo sportello ed estraendo il rullino – Adesso cosa farai, mi racconterai il tuo drammatico background nella speranza di farmi pena? –

Peter digrignò i denti, trattenendosi a stento dal piangere.

– Non me ne frega un cazzo. – cantilenò Wade mentre esponeva alla luce il rullino e lo gettava a terra.

Infine gli schiaffò la macchina fotografica in mano e si chinò su di lui.

– Ti piace questa faccia da freak? – si abbassò il cappuccio della felpa e si puntò un dito al volto – Dalle una bella occhiata. Guardala. Perché è l’ultima volta che la vedrai. –

Peter stringeva forte tra le mani la macchina fotografica e lo fissava, pietrificato.

– E adesso sparisci. – gli ringhiò Wade, riscuotendolo – Alla tua età dovresti essere a farti le canne, Cristo, non ci sono più gli adolescenti di una volta… –

Si rialzò il cappuccio e ficcò le mani nelle tasche della felpa. Come se niente fosse, girò sui tacchi e se ne andò per la sua strada.

Peter restò immobile contro quel muro per lunghi minuti, senza riuscire a mettere insieme un pensiero coerente che fosse uno. Perché se si fosse messo a pensare, sarebbe sprofondato in un baratro. Quando iniziò a scurirsi si costrinse a muoversi da lì, un passo avanti all’altro, e arrivare a casa. Rispose di default al saluto di zia May e si chiuse in camera, scalciò via le scarpe e si infilò nel letto ancora vestito. Inforcò le cuffie dell’iPod e si concesse di piangere un po’.

Plin

Peter aprì un occhio e fissò il cellulare sul comodino. C’era solo una persona che poteva scrivergli a quell’ora di notte. Con uno sforzo non indifferente, lo ignorò.

Plin

Plin

Plin-Plin

Peter ficcò la testa sotto il cuscino, continuando ad ignorarlo. Ci provò anche quando partì la suoneria.

You're just too good to be true, I can't take my eyes off you, you'd be like heaven to touch, I wanna hold you so much, at long last love has arrived, and I thank God I'm alive…

Ma come gli ricordava Gloria Gaynor, Wade non era il genere di persona che si rassegna a restare ignorata.

You're just too good to be true, can't take my eyes off y-

Peter afferrò il cellulare e schiacciò il tasto di muto così forte da incrinare lo schermo. Tornò a ficcare la testa sotto il cuscino e si costrinse a dormire.

   
 
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