Is it still a home when you are all alone?
Edwin
aveva già nutrito i
cavalli quando la piccola Edith sgattaiolò nel cortile della
grande casa alle
spalle della madre, precipitandosi verso la stalla.
«Ed, volevo farlo io!» pigolò la
creatura, sbracciandosi per raggiungere il
cibo che il fratello reggeva tra le mani.
«Die eerst komt, eerst maalt1»
ridacchiò Edwin, «chi dorme non piglia pesci,
bambolina» le rispose, porgendo
una carota alla puledra dal manto color miele.
I capelli chiari di Edith si smossero con leggerezza, lasciando la scia
di un
delicato profumo di bambina.
Nonostante sapesse già cavalcare con abilità, la
piccola non poteva ancora
raggiungere l’animale senza un supporto; così,
Edwin la sorresse come una
principessa delle fiabe, innalzandola fino a raggiungerne le fauci.
«Maria Callas è così dolce»
la sentì sussurrare, scorrendo il palmo sul muso
del suo cavallo prediletto, sciogliendo le dita in una tenera carezza.
«Dolce come te» le fece eco il ragazzo,
schioccandole un bacio su una guancia,
riportandola a terra.
Entrambi ebbero l’accortezza di notare l’austera
figura della madre comparire
d’improvviso sulla soglia della stalla: in mano pareva
stringere due secchi di
latte appena munto.
I fratelli se ne stettero in silenzio fino a quando la donna non
scomparve
dalla loro visuale, quindi sgattaiolando via verso il grande tronco
posto poco
lontano dalla scuderia.
Salirono veloci gli stretti scalini, addentrandosi nella casa
sull’albero che il
padre di Edith aveva costruito qualche mese prima in occasione del
compleanno
della figlia.
«Te ne andrai presto, vero?» bisbigliò
improvvisamente la bambina in tono
mesto, spezzando il silenzio e, insieme a questi, la
serenità nel cuore del
fratello.
Si coricarono entrambi sul legno freddo, osservando il soffitto
monocolore.
«Chi te l’ha detto questo, Edith?»
sbraitò lui di rimando, badando bene a non
farsi udire dai genitori.
La bambina si tirò su un gomito, imitandolo: «Me
l’ha detto papà l’altra sera.
Dice che hai intenzione di andartene».
Poi si abbandonarono nuovamente al legno ruvido, ognuno immerso nei
propri
pensieri.
Quelli della piccola, quando non andavano ai suoi amati destrieri, si
spostavano alla figura fraterna più importante, alla quale
veniva alternata,
talvolta, quella della madre, di cui si potevano udire ancora i passi
poco
lontano.
Talvolta le sue riflessioni comprendevano i propri giocattoli ma, in
verità,
ciò di cui più le importava era Maria Callas, la
sua puledra, nata qualche anno
dopo di lei e con cui aveva speso la sua breve esistenza fino ad allora.
I pensieri di Edwin, invece, erano più simili a quelli di un
uomo sul punto di
divenire adulto: gli otto anni di differenza rispetto alla sorella gli
gravavano addosso, ma qualcosa pesava più di quel tempo che
gli constava così
tante incombenze.
Essere il più grande di tre fratelli e l’unico
figlio di padre diverso era
insopportabile: superare l’assenza della figura paterna era
stata dura, e
tollerare la presenza del fratello, ribelle e indisponente, era
estenuante.
Aveva così maturato, dopo tanto meditare, la scelta di
abbandonare quella
fattoria poco lontano dalla spiaggia, che da circa diciotto anni orsono
si
ostinava a considerare la propria casa.
In verità, l’unica persona che lo tratteneva in
quel luogo era lei, la sua
sorella d’anima Edith, il sangue che non gli apparteneva, ma
che, in fondo, lo
comprendeva più di quanto facesse la loro stessa madre.
«Io l’avevo capito» sussurrò
la bambina in un soffio.
Poi Edwin la vide tirarsi su con la coda dell’occhio,
accomodandosi sul bordo
della casetta.
La imitò, poggiandole istintivamente una mano su una spalla:
solo allora il
ragazzo si accorse che stava singhiozzando: il piccolo petto fasciato
da una
morbida blusa estiva si alzava e abbassava aritmicamente.
Tuttavia, dalle sue labbra non fuoriusciva alcun suono.
Edwin pensò che fosse per non farsi udire dalla madre, ma
quando gettò uno
sguardo tra gli arbusti posti sotto l’ampio tronco, la donna
era sparita.
Si strinsero in un forte abbraccio, che accolse le lacrime calde di
Edith e i
suoi singhiozzi, stavolta più rumorosi.
Edwin stava cominciando a comprendere che, forse, la sorella non era
più così
ingenua come la sua età suggeriva.
Era probabile che la rozzezza del fratello gemello, accompagnata a
quella dei
genitori, l’avesse resa più consapevole della
propria condizione.
«Come faccio senza di te, Edwin?» gli aveva chiesto
di punto in bianco,
asciugandosi le lacrime che ancora le bagnavano le guance.
Edith aveva prestato attenzione a scandire bene il nome del fratello:
per
qualche ragione, questo gli procurò dei brividi pungenti per
tutta la schiena.
«Beh, hai Lars e-» tentò di ribattere
questi, prima di venire bruscamente
interrotto da un grido.
«Non dire sciocchezze! Io ho solo te!»
La bambina aveva gridato con tutta l’energia che possedeva in
corpo; dopodiché
era scivolata sulle scale, raggiungendo il terreno in un balzo e
incamminandosi
verso la stalla.
Eppure i fratelli gemelli dovrebbero essere legati,
pensò il ragazzo, è
nella legge della natura.
Run with my hands on my eyes
Blind, but I'm still alive
Free to go back on my own
But is it still a home when you're all alone?
La
domenica di un’insulsa
settimana di luglio era passata in fretta.
Tuttavia, Edwin non doveva preoccuparsi delle incombenze scolastiche
del giorno
successivo: aveva appena terminato l’ultimo anno della scuola
dell’obbligo e
poteva finalmente porre da parte ogni preoccupazione.
Svanite quest’ultime, però, erano sopraggiunti
altri crucci, forse centomila
volte più oscuri e pesanti; le responsabilità
dell’età adulta incombevano su di
lui come un mostro dai mille tentacoli, pronto ad aggrapparlo e
stringerlo
nella sua morsa soffocante.
«Edwin, muoviti! I tuoi fratelli ti stanno
aspettando!»
Il grido femminile proveniente dal piano inferiore lo
risvegliò dal proprio
sonno ad occhi aperti: si era totalmente dimenticato di dover
accompagnare i
gemelli a scuola.
Il cuore prese a battergli forte in petto.
«Cazzo!» bisbigliò tra i denti,
precipitandosi giù dal letto, infilandosi i
soliti vestiti che l’armadio gli presentava.
Prima che la donna potesse rimproverarlo, il giovane si fece trovare
sulla
porta con le mani strette in quelle dei bambini.
Si incamminarono insieme verso il bosco adiacente alla casa, per poi
oltrepassarlo ed entrare nel paese.
Ma, quel giorno, appena la madre chiuse la porta alle proprie spalle,
Lars si
divincolò dalla stretta del fratello.
«Levati!» sbraitò, per poi fuggire in
direzione del bosco.
Conoscendo il temperamento del pargolo, Edwin radunò tutta
la pazienza che
possedeva, per poi seguirlo, nel tentativo di riportarlo sulla strada
verso la
scuola.
«Non ti muovere di qui, Edith» intimò in
tono duro alla sorella, ancora
aggrappata alle sue dita, «torno subito».
Edwin tentò con tutte le proprie forze di rimanere pacato,
tentando di
controllare la collera imminente.
Ciononostante, fallì.
Lars era svanito, come se tutti gli arbusti della foresta lo avessero
inghiottito e trascinato nelle loro viscere più profonde.
Il panico cominciò a impossessarsi del suo corpo tremante:
lo sentiva crescere
dagli arti inferiori fino alle tempie.
Ogni singolo capello era invaso dal timore di aver perso le tracce di
suo
fratello.
Smise di correre, lanciando un ringhio spietato ai tronchi silenziosi.
«Lars! Vieni fuori!»
Edwin era abituato ai dispetti e avrebbe dovuto essere fiducioso nel
ritrovarlo: solitamente, il marmocchio non si faceva mai attendere
troppo, una
volta compresi che i propri scherzi erano riusciti.
Ma, quella volta, tutto pareva più inquietante del solito.
In tutti gli anni in cui Edwin aveva trascinato i fratelli a scuola, il
bambino
non si era mai comportato in quel modo: era sempre stato ribelle,
disobbediente
e irritante nei confronti del fratellastro, ma non era mai sfuggito
volontariamente
alla sua presa.
Non così lontano da non essere trovato.
Non ricevendo alcuna risposta, Edwin considerò
più saggio tornare sui propri
passi; il cuore era ormai giunto fino in gola, le gambe tremolavano
visibilmente e la vista cominciava a non essere più lucida.
Anche la mente pareva totalmente annebbiata, come se qualcuno avesse
appena
rilasciato qualche gas così potente da impedire totalmente
di vedere a un passo
da sé.
Non poteva tornare a casa senza suo fratello. Se gli fosse successo
qualcosa, se
i genitori avessero scoperto che se l’era fatto sfuggire...
La strada si stagliava innanzi a sé in tutta la desolazione
possibile.
Nel luogo in cui l’aveva lasciata, della bambina non
c’era alcuna traccia.
«Ti avevo detto di restare qui!» imprecò
il ragazzo, osservandosi intorno.
Ma tutto ciò che la propria visuale riusciva a scorgere era
solamente un
paesaggio sfocato, come un tramonto che si staglia sullo sfondo della
distesa
salina in tutta la sua caducità.
Il respiro divenne improvvisamente ansante.
Edwin non avrebbe mai voluto farlo: si sentiva debole, inetto, sciocco.
Non c’era azione più inadatta da compiere in quel
momento, ne era consapevole;
doveva affrettarsi a cercare i fratelli, che ormai sarebbero
indubbiamente
arrivati tardi a scuola, ammesso che l’avrebbero
effettivamente raggiunta.
Le gambe gli cedettero, anche se contro la propria volontà:
il suo spirito di
vinto si accasciò al suolo, inondando il terreno delle
proprie lacrime.
Se non riusciva a badare ai propri fratelli, certamente non sarebbe
riuscito a
badare a se stesso, ad abbandonare la casa natia e a sopravvivere del
solo
frutto del proprio lavoro.
A soli diciotto anni, Edwin era un giovane uomo sconfitto dalla
brutalità della
vita.
I singhiozzi scuotevano il suo ventre riversato in avanti; poi, un
fruscio
raggiunse il suo udito.
Fu lieve, ma il ragazzo ebbe la certezza di aver percepito uno
scalpiccio
lontano.
Alzò lo sguardo verso il cielo, ritrovandosi innanzi
l’imponente figura del
fratello, in volto dipinto un ghigno malefico.
Dall’alto, Lars lo fissava in tutta la sua
austerità: aveva otto anni in meno
di lui ma, da quella prospettiva, pareva un gigante
dall’animo spietato.
Dietro di lui, il polso stretto nella presa del bambino, si trovava
Edith: in
viso pareva avere un’espressione amareggiata, come sul punto
di scoppiare in
lacrime.
Stringeva un dito fra i denti come quando, anni addietro, restava
assorta nei
propri pensieri, lo sguardo fisso su un oggetto o un individuo, intenso
come
quello di un felino sul punto di catturare la propria preda.
Satana avrebbe paura di te, pensò Edwin
tirandosi in piedi, stringendo
le mani dei pargoli e incamminandosi verso la scuola ancora prima di
asciugarsi
le lacrime in volto.
Un’espressione indecifrabile doveva campeggiare sul suo viso;
la gente lo
fissava con sguardo assente per la strada, che mai gli era parsa tanto
lunga
come quella mattina.
Le sue mani stringevano i polsi dei bambini così forte da
percepire il battito
dei loro cuori.
Raggiunsero la scuola con quasi mezz’ora di ritardo; Edwin
sapeva che gli
insegnanti avrebbero avvertito i genitori dieci minuti dopo
l’orario di
entrata.
«Posso fare io le veci dei bambini»
reclamò, «sono maggiorenne e non sono un
estraneo» badò a precisare, sentendo il proprio
tono di voce assumere via via
una nota più alta.
Quella sera, Edwin cercò rifugio nella casa
sull’albero.
Non aveva menzionato l’episodio in famiglia e la giornata
alla fattoria era
trascorsa nello stesso modo mediocre in cui passavano tutte le
giornate, da
quando i suoi amici di scuola parevano essersi dileguati dalla
città alla
disperata ricerca di un futuro migliore.
Se fosse rimasto lì, avrebbe probabilmente passato la
propria esistenza a
mungere le mucche di un paesino sperduto tra i boschi e la costa; se se
ne
fosse andato, avrebbe dovuto cavarsela da solo e, soprattutto, avrebbe
dovuto
abbandonare a se stessa la sorella a cui tanto era affezionato.
Perfino quella casetta sull’albero si era fatta stretta per
lui; il futuro lo
chiamava a gran voce, ma Edwin aveva paura della risposta che avrebbe
ricevuto.
L’orario di cena arrivò in fretta, accompagnato da
una brezza troppo rigida per
la stagione.
Il ragazzo prese posto al tavolo accanto alla madre, porgendo i piatti
di zuppa
ai fratelli e servendosi a sua volta.
«Oggi mi hanno telefonato dalla scuola»
asserì la donna, come improvvisamente
memore dell’accaduto.
«Si può sapere perché siete arrivati in
ritardo?» avanzò, apparentemente calma,
volgendo il capo verso il figlio più grande.
Edwin si ostinava a masticare quel liquido aranciato, tentando di
tollerarne
più facilmente il sapore: detestava la minestra di zucca e,
nonostante la madre
lo sapesse bene, continuava a cucinare quella zuppa ripugnante
perché “piace a
tutti, tranne che a te”.
«Ed ha voluto fermarsi per strada»
sbraitò Lars, «era già stanco dopo
appena
due passi».
Un ghigno orgoglioso campeggiava sulle sue labbra; negli occhi pareva
divampare
il fuoco.
Piccolo bastardo, pensò Edwin, ma si
curò bene dal pronunciarlo ad alta
voce, immaginandone le conseguenze.
Sentiva lo sguardo della madre premergli sul volto come un macigno.
«Ah, davvero?» strepitò la donna,
spostandosi i capelli scarlatti dal viso.
Per la prima volta da quando si erano accomodati a tavola, Edwin
spostò lo
sguardo sull’uomo seduto all’altro capo della
tavola.
Si rese conto di essere osservato, forse addirittura
dall’inizio della
conversazione.
Lo fissava con lo stesso sguardo indagatore e diffidente con cui si
esamina una
nuova conoscenza; vivevano sotto lo stesso tetto da anni ormai, ma
né uno né
l’altro pareva ancora essersi abituato alla reciproca
presenza.
Quando nacquero i gemelli smisero definitivamente di intrattenere
rapporti; si
trattava semplicemente di due estranei che alloggiavano nella stessa
abitazione.
E se ciò Edwin poteva sopportarlo con un individuo che non
gli apparteneva, non
riusciva a comprenderlo nella madre, che pareva prediligere il fratello
minore
in ogni sua azione, sostenendo che questi fosse il suo
“bastone della
vecchiaia”, grazie alle capacità intellettive che
aveva dimostrato di possedere
fin dalla più tenera età.
Edwin non poteva affermare il contrario: Lars era un bambino brillante
e
intelligente, totalmente privo di difficoltà
nell’imparare qualsiasi lezione
gli venisse impartita.
Tuttavia, il pargolo aveva dimostrato, nel corso della sua breve vita,
di
essere anche un individuo arrogante, prepotente e dotato di una buona
quantità
di pura malvagità, che puntualmente tendeva a riversare sul
fratellastro,
attraverso scherzi e inganni.
Lars pareva la conferma vivente della celebre frase di
Théophile Gautier, per
cui “di veramente bello c’è soltanto
quel che non può servire a niente; tutto
ciò che è utile è anche orribile2”.
«Allora?» lo incitò la madre, rigida
perfino quand’era accomodata su una sedia,
distogliendo il ragazzo dai propri pensieri.
«Allora c’è che me ne vado!»
gridò Edwin all’improvviso, gettando il cucchiaio
nel piatto vuoto e precipitandosi al piano superiore, per poi
rifugiarsi in
camera sua.
Aveva percepito la sorella sussultare a quel gesto, ma decise di non
curarsene.
Si accoccolò sul letto, riportando alla memoria quei tempi
in cui la madre lo
teneva sulle ginocchia, le sere d’estate prive di nubi, che
il vento tipico
della sua zona spazzava via durante il giorno; passavano minuti interi
ad
osservare la sfera lattea risplendere come il più elegante
degli astri, fino a
quando il bambino non si addormentava tra le braccia materne, pronto ad
essere
accolto dalle fresche lenzuola del proprio letto.
Per qualche strana ragione, dopo il secondo matrimonio e la nascita dei
gemelli,
ogni parvenza di affetto pareva essersi accumulata nella parte di cuore
di
madre in cui soggiornavano i fratelli minori.
Edwin si addormentò con questi pensieri, sprofondando in un
sonno irrequieto,
da cui venne d’improvviso risvegliato quando un cigolio
raggiunse il suo udito.
There is a reason I'm still standing
I never knew if I'd be landing
And I will run fast, outlast
Everyone that said no...
Un
bioccolo peloso si
insinuò sotto le coperte, sprofondando il muso nel cuscino
candido.
Le tenebre impedirono al ragazzo di capire di quale animale si
trattasse, fino
a quando la sagoma di una piccola figura non comparve accanto al
giaciglio,
imitando il cucciolo.
La morbidezza della chioma gli suggerì si potesse trattare
soltanto di una
persona.
«Hai portato Poldo?» bisbigliò Edwin con
voce ancora impastata dal sonno.
Se si trattava di Edith, il gatto non poteva che essere quel batuffolo
nero dai
lunghi baffi, che lei stessa aveva salvato qualche anno prima da morte
certa.
«È lui che mi ha seguito» si
giustificò la bambina.
Passarono qualche minuto in silenzio, interrotto soltanto dalle fusa
del
felino: Edith si accoccolò accanto al fratello, stringendolo
con tutta la forza
che possedeva.
«Mi dispiace molto per prima» iniziò
solenne, «Lars è cattivo come Il
Colonnello di Spirit».
Edwin sorrise al buffo paragone, ricordando quanto la bambina fosse
ossessionata dal film Disney, sicuramente il suo favorito.
Tuttavia, dubitava che Lars avesse mai potuto avere un moto di
compassione e
gentilezza come l’antagonista del lungometraggio.3
«Portami con te…» la sentì
mormorare all’improvviso, distraendolo dalle proprie
riflessioni.
Percepì la pressione del suo capo sulla spalla; non poteva
vederla, ma Edwin
avrebbe giurato che la bambina avesse infilato l’indice in
bocca.
Sospirò pesantemente, stringendola a sé.
Non aveva il denaro necessario per andarsene, non aveva
un’occupazione e, in
fondo, non aveva nemmeno una famiglia.
Desiderava con tutto il proprio cuore portarla via da quel luogo, dal
fratello
tanto osannato, dalla vita che sarebbe stata costretta a trascorrere
nella
fattoria.
Inspirò l’odore dei capelli puliti, quella chioma
di bambina così simile alla
sua.
Aveva il brutto presentimento che, quando i genitori sarebbero venuti
meno e
lui non fosse stato lì, Lars l’avrebbe spogliata
di tutti i suoi averi, bramoso
di viltà, nutrendo quel suo animo avido di cupidigia ancor
più di quanto già
non facessero i genitori.
Lars sarebbe presto divenuto un ragazzo dispotico, un uomo senza
scrupoli;
lentamente, sarebbe diventato un tiranno privo di umiltà.
Avrebbe studiato nelle migliori università e comandato
decine di individui:
tutto di lui lasciava desumere una carriera tanto promettente quanto
bruta.
D’istinto, Edwin scosse la sorella, forse già
crollata tra le braccia di
Morfeo.
«Ti prometto che ti porterò via, Edith»
disse concitato, «non ti abbandono! Ti
porterò con me e staremo sempre insieme»
sussurrò nel buio, prima di
sciogliersi in lacrime, aggrappato al corpicino esile coricato accanto.
«Non ti abbandono» ripeté, lasciando
fuoriuscire i singhiozzi celati troppo a
lungo.
Forse, dopo quasi vent’anni trascorsi al mondo, non era
ancora pronto ad
affrontare le sfide che l’esistenza poneva dinanzi a
chiunque; forse,
necessitava di sostare sulle ginocchia della madre ancora per un
po’,
addormentandosi nel calore delle sue braccia, come quando era bambino.
I knock the ice from my bones
Try not to feel the cold
Caught in the thought of that time
When everything was fine, everything was mine
«Ed
se ne andò qualche
settimana dopo quella notte. Un giorno, semplicemente decise di
prendere il
denaro rimastogli, la vecchia valigia e qualche vestito.
Partì senza nulla, ma vostro padre è sempre stato
un uomo brillante e non avevo
dubbi che se la sarebbe cavata».
Edith aveva un’espressione indecifrabile mentre raccontava ai
nipoti il giorno
della partenza di suo fratello.
Doveva essere stato doloroso per lei affrontare la giovinezza in
solitudine;
tuttavia, decise di condividerla, dando inconsapevolmente loro modo di
comprendere molti atteggiamenti del padre.
Per esempio, il motivo per cui, un pomeriggio, l’uomo
comparì con una casa di
legno da costruire su di un albero, in occasione del compleanno del
primogenito.
Quando l’aveva mostrata a Edith, in occasione di una visita,
gli occhi della
donna si erano illuminati di gioia, rammentando i momenti
più intimi passati
insieme al fratello in quel luogo.
Amava la sua piccola casa di legno: era il suo rifugio, specialmente da
suo
fratello Lars che, da quando Edwin se n’era andato, non aveva
nessuno da
tormentare.
«Non c’è divertimento con te,
sghignazzava, ma mi bastava salire sul
tronco e levare la scala per essere un po’ in pace»
continuò la zia con
amarezza, «fino a quando non la distrusse. Un giorno tornai a
casa da una corsa
con Maria Callas e improvvisamente non la trovai più. Tutto
ciò che rimaneva
erano delle assi di legno gettate ai piedi
dell’albero».
Edith vide i bambini osservarla con interesse, fremendo per conoscere
il
seguito della storia.
«E che cosa è successo dopo?»
domandò David, l’unico tra i pargoli ad essere
forse abbastanza grande da comprendere la gravità della
situazione.
La donna sorrise, pensando a quanto fosse stata fortunata, in fondo.
Edwin non mantenne mai la parola data quella notte, forse addirittura
se ne
dimenticò; la vita nella capitale doveva essere molto
più frenetica che nella
tranquilla locanda in cui Edith aveva trasformato quella che un tempo
era stata
la sua casa.
Subito, però, si pentì di avere avuto un simile
pensiero: Edwin non poteva aver
ignorato la sua promessa. Doveva solo essere stato impossibilitato a
mantenerla, soprattutto dopo aver conosciuto sua moglie Elena.
«Andai a trovarlo» rispose Edith, «decisi
di fargli una sorpresa, contro la
volontà di tutti. Partii e lo trovai lì,
nell’orto botanico di cui tanto mi
parlava, in mezzo a tutti i tulipani del mondo. Era un vero fiore tra i
fiori»
scoppiò a ridere la donna.
Edwin non aveva più fatto ritorno a casa dal giorno della
sua partenza.
Si rividero appena lei fu abbastanza grande da poter prendere un treno
in
solitudine; Edith sapeva che il fratello faticava a mantenersi, e di
certo il
denaro per un viaggio scarseggiava.
In compenso, le aveva scritto molte lettere, raccontandole della
propria vita,
le conoscenze che aveva fatto e le attrazioni meravigliose che
Amsterdam
proponeva ai nuovi venuti.
Tuttavia, Edith non immaginava che la realtà sarebbe stata
altrettanto
incantevole: tutto pareva più grandioso, smisurato rispetto
al piccolo mondo in
cui era cresciuta.
«Pianse come un bambino appena mi vide. Pensavo che neanche
mi riconoscesse,
invece fu come se non ci fossimo mai separati»
continuò la donna, sfregandosi
il collo.
Il nitrire dei cavalli nella stalla adiacente alla locanda la
risvegliò dai
ricordi: ormai si era fatta sera, era tempo di preparare la cena e
portare i
nipoti a letto.
Il giorno dopo, Edwin ed Elena li avrebbero raggiunti e sarebbero
finalmente
stati di nuovo insieme, almeno per tutta la durata
dell’estate.
«Ma zia» la interruppe il piccolo Rickard,
«hai mai fatto caso ai vostri nomi?»
sorrise.
La donna non comprese subito.
«Edith, Edwin, Elena» ridacchiò il
bambino, «vi chiamate tutti allo stesso
modo! È un segno del destino!»
Edith sorrise, osservando i nipoti divertirsi con le proprie figlie,
godendosi
con gioia quei rari momenti che potevano passare insieme alle cugine.
Si tastò il collo, cercando istintivamente il ciondolo che
Edwin le aveva
regalato in occasione della sua prima visita, avvenuta ormai una decina
di anni
addietro.
«Questo pargoletto è tale e quale a suo
padre» sorrise, per poi riporre quella
lettera magica al proprio posto e lasciare i bambini vivaci nel salotto.
Edith omise i particolari della partenza dell’amato fratello:
il mancato saluto
di Lars, l’indifferenza del padre, il timore di non poterlo
rivedere più.
Non disse mai al ragazzo ciò che udì fuoriuscire
dalle labbra della madre,
osservandolo scomparire dietro le porte del vagone.
Guarderò la luna senza mio figlio sulle ginocchia,
quest’autunno4,
aveva sussurrato la donna al vento, certa che nessuno
l’avesse udita.
All the king's horses and all the king's
men
Couldn't put me back together again
All the king's horses and all the king's men
Couldn't put me back together again.
1
Corrispondente
neerlandese del detto: “Chi prima arriva, meglio
alloggia”.
Dunque, come forma di rispetto, libera infine sia lui sia Piccolo Fiume
(l’indiano amico del cavallo).