Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |      
Autore: Sabriel Schermann    17/02/2020    10 recensioni
Edwin aveva già nutrito i cavalli quando la piccola Edith sgattaiolò nel cortile della grande casa alle spalle della madre, precipitandosi verso la stalla.
Si strinsero in un forte abbraccio; il ragazzo stava cominciando a comprendere che, forse, la sorella non era più così ingenua come la sua età suggeriva.
«Portami con te…»
[Storia classificata al quinto posto parimerito al contest "Il contest degli haiku" indetto da Juriaka sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'La Casa di Cristallo'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Is it still a home when you are all alone?

 

 

 

 

 

 

 

 

Edwin aveva già nutrito i cavalli quando la piccola Edith sgattaiolò nel cortile della grande casa alle spalle della madre, precipitandosi verso la stalla.
«Ed, volevo farlo io!» pigolò la creatura, sbracciandosi per raggiungere il cibo che il fratello reggeva tra le mani.
«Die eerst komt, eerst maalt
1» ridacchiò Edwin, «chi dorme non piglia pesci, bambolina» le rispose, porgendo una carota alla puledra dal manto color miele.
I capelli chiari di Edith si smossero con leggerezza, lasciando la scia di un delicato profumo di bambina.
Nonostante sapesse già cavalcare con abilità, la piccola non poteva ancora raggiungere l’animale senza un supporto; così, Edwin la sorresse come una principessa delle fiabe, innalzandola fino a raggiungerne le fauci.
«Maria Callas è così dolce» la sentì sussurrare, scorrendo il palmo sul muso del suo cavallo prediletto, sciogliendo le dita in una tenera carezza.
«Dolce come te» le fece eco il ragazzo, schioccandole un bacio su una guancia, riportandola a terra.
Entrambi ebbero l’accortezza di notare l’austera figura della madre comparire d’improvviso sulla soglia della stalla: in mano pareva stringere due secchi di latte appena munto.
I fratelli se ne stettero in silenzio fino a quando la donna non scomparve dalla loro visuale, quindi sgattaiolando via verso il grande tronco posto poco lontano dalla scuderia.
Salirono veloci gli stretti scalini, addentrandosi nella casa sull’albero che il padre di Edith aveva costruito qualche mese prima in occasione del compleanno della figlia.
«Te ne andrai presto, vero?» bisbigliò improvvisamente la bambina in tono mesto, spezzando il silenzio e, insieme a questi, la serenità nel cuore del fratello.
Si coricarono entrambi sul legno freddo, osservando il soffitto monocolore.
«Chi te l’ha detto questo, Edith?» sbraitò lui di rimando, badando bene a non farsi udire dai genitori.
La bambina si tirò su un gomito, imitandolo: «Me l’ha detto papà l’altra sera. Dice che hai intenzione di andartene».
Poi si abbandonarono nuovamente al legno ruvido, ognuno immerso nei propri pensieri.
Quelli della piccola, quando non andavano ai suoi amati destrieri, si spostavano alla figura fraterna più importante, alla quale veniva alternata, talvolta, quella della madre, di cui si potevano udire ancora i passi poco lontano.
Talvolta le sue riflessioni comprendevano i propri giocattoli ma, in verità, ciò di cui più le importava era Maria Callas, la sua puledra, nata qualche anno dopo di lei e con cui aveva speso la sua breve esistenza fino ad allora.
I pensieri di Edwin, invece, erano più simili a quelli di un uomo sul punto di divenire adulto: gli otto anni di differenza rispetto alla sorella gli gravavano addosso, ma qualcosa pesava più di quel tempo che gli constava così tante incombenze.
Essere il più grande di tre fratelli e l’unico figlio di padre diverso era insopportabile: superare l’assenza della figura paterna era stata dura, e tollerare la presenza del fratello, ribelle e indisponente, era estenuante.
Aveva così maturato, dopo tanto meditare, la scelta di abbandonare quella fattoria poco lontano dalla spiaggia, che da circa diciotto anni orsono si ostinava a considerare la propria casa.
In verità, l’unica persona che lo tratteneva in quel luogo era lei, la sua sorella d’anima Edith, il sangue che non gli apparteneva, ma che, in fondo, lo comprendeva più di quanto facesse la loro stessa madre.
«Io l’avevo capito» sussurrò la bambina in un soffio.
Poi Edwin la vide tirarsi su con la coda dell’occhio, accomodandosi sul bordo della casetta.
La imitò, poggiandole istintivamente una mano su una spalla: solo allora il ragazzo si accorse che stava singhiozzando: il piccolo petto fasciato da una morbida blusa estiva si alzava e abbassava aritmicamente.
Tuttavia, dalle sue labbra non fuoriusciva alcun suono.
Edwin pensò che fosse per non farsi udire dalla madre, ma quando gettò uno sguardo tra gli arbusti posti sotto l’ampio tronco, la donna era sparita.
Si strinsero in un forte abbraccio, che accolse le lacrime calde di Edith e i suoi singhiozzi, stavolta più rumorosi.
Edwin stava cominciando a comprendere che, forse, la sorella non era più così ingenua come la sua età suggeriva.
Era probabile che la rozzezza del fratello gemello, accompagnata a quella dei genitori, l’avesse resa più consapevole della propria condizione.
«Come faccio senza di te, Edwin?» gli aveva chiesto di punto in bianco, asciugandosi le lacrime che ancora le bagnavano le guance.
Edith aveva prestato attenzione a scandire bene il nome del fratello: per qualche ragione, questo gli procurò dei brividi pungenti per tutta la schiena.
«Beh, hai Lars e-» tentò di ribattere questi, prima di venire bruscamente interrotto da un grido.
«Non dire sciocchezze! Io ho solo te!»
La bambina aveva gridato con tutta l’energia che possedeva in corpo; dopodiché era scivolata sulle scale, raggiungendo il terreno in un balzo e incamminandosi verso la stalla.
Eppure i fratelli gemelli dovrebbero essere legati, pensò il ragazzo, è nella legge della natura.

 

 

 

 

Run with my hands on my eyes
Blind, but I'm still alive
Free to go back on my own
But is it still a home when you're all alone?

 

 

 

 

La domenica di un’insulsa settimana di luglio era passata in fretta.
Tuttavia, Edwin non doveva preoccuparsi delle incombenze scolastiche del giorno successivo: aveva appena terminato l’ultimo anno della scuola dell’obbligo e poteva finalmente porre da parte ogni preoccupazione.
Svanite quest’ultime, però, erano sopraggiunti altri crucci, forse centomila volte più oscuri e pesanti; le responsabilità dell’età adulta incombevano su di lui come un mostro dai mille tentacoli, pronto ad aggrapparlo e stringerlo nella sua morsa soffocante.
«Edwin, muoviti! I tuoi fratelli ti stanno aspettando!»
Il grido femminile proveniente dal piano inferiore lo risvegliò dal proprio sonno ad occhi aperti: si era totalmente dimenticato di dover accompagnare i gemelli a scuola.
Il cuore prese a battergli forte in petto.
«Cazzo!» bisbigliò tra i denti, precipitandosi giù dal letto, infilandosi i soliti vestiti che l’armadio gli presentava.
Prima che la donna potesse rimproverarlo, il giovane si fece trovare sulla porta con le mani strette in quelle dei bambini.
Si incamminarono insieme verso il bosco adiacente alla casa, per poi oltrepassarlo ed entrare nel paese.
Ma, quel giorno, appena la madre chiuse la porta alle proprie spalle, Lars si divincolò dalla stretta del fratello.
«Levati!» sbraitò, per poi fuggire in direzione del bosco.
Conoscendo il temperamento del pargolo, Edwin radunò tutta la pazienza che possedeva, per poi seguirlo, nel tentativo di riportarlo sulla strada verso la scuola.
«Non ti muovere di qui, Edith» intimò in tono duro alla sorella, ancora aggrappata alle sue dita, «torno subito».
Edwin tentò con tutte le proprie forze di rimanere pacato, tentando di controllare la collera imminente.
Ciononostante, fallì.
Lars era svanito, come se tutti gli arbusti della foresta lo avessero inghiottito e trascinato nelle loro viscere più profonde.
Il panico cominciò a impossessarsi del suo corpo tremante: lo sentiva crescere dagli arti inferiori fino alle tempie.
Ogni singolo capello era invaso dal timore di aver perso le tracce di suo fratello.
Smise di correre, lanciando un ringhio spietato ai tronchi silenziosi.
«Lars! Vieni fuori!»
Edwin era abituato ai dispetti e avrebbe dovuto essere fiducioso nel ritrovarlo: solitamente, il marmocchio non si faceva mai attendere troppo, una volta compresi che i propri scherzi erano riusciti.
Ma, quella volta, tutto pareva più inquietante del solito.
In tutti gli anni in cui Edwin aveva trascinato i fratelli a scuola, il bambino non si era mai comportato in quel modo: era sempre stato ribelle, disobbediente e irritante nei confronti del fratellastro, ma non era mai sfuggito volontariamente alla sua presa.
Non così lontano da non essere trovato.
Non ricevendo alcuna risposta, Edwin considerò più saggio tornare sui propri passi; il cuore era ormai giunto fino in gola, le gambe tremolavano visibilmente e la vista cominciava a non essere più lucida.
Anche la mente pareva totalmente annebbiata, come se qualcuno avesse appena rilasciato qualche gas così potente da impedire totalmente di vedere a un passo da sé.
Non poteva tornare a casa senza suo fratello. Se gli fosse successo qualcosa, se i genitori avessero scoperto che se l’era fatto sfuggire...
La strada si stagliava innanzi a sé in tutta la desolazione possibile.
Nel luogo in cui l’aveva lasciata, della bambina non c’era alcuna traccia.
«Ti avevo detto di restare qui!» imprecò il ragazzo, osservandosi intorno.
Ma tutto ciò che la propria visuale riusciva a scorgere era solamente un paesaggio sfocato, come un tramonto che si staglia sullo sfondo della distesa salina in tutta la sua caducità.
Il respiro divenne improvvisamente ansante.
Edwin non avrebbe mai voluto farlo: si sentiva debole, inetto, sciocco.
Non c’era azione più inadatta da compiere in quel momento, ne era consapevole; doveva affrettarsi a cercare i fratelli, che ormai sarebbero indubbiamente arrivati tardi a scuola, ammesso che l’avrebbero effettivamente raggiunta.
Le gambe gli cedettero, anche se contro la propria volontà: il suo spirito di vinto si accasciò al suolo, inondando il terreno delle proprie lacrime.
Se non riusciva a badare ai propri fratelli, certamente non sarebbe riuscito a badare a se stesso, ad abbandonare la casa natia e a sopravvivere del solo frutto del proprio lavoro.
A soli diciotto anni, Edwin era un giovane uomo sconfitto dalla brutalità della vita.
I singhiozzi scuotevano il suo ventre riversato in avanti; poi, un fruscio raggiunse il suo udito.
Fu lieve, ma il ragazzo ebbe la certezza di aver percepito uno scalpiccio lontano.
Alzò lo sguardo verso il cielo, ritrovandosi innanzi l’imponente figura del fratello, in volto dipinto un ghigno malefico.
Dall’alto, Lars lo fissava in tutta la sua austerità: aveva otto anni in meno di lui ma, da quella prospettiva, pareva un gigante dall’animo spietato.
Dietro di lui, il polso stretto nella presa del bambino, si trovava Edith: in viso pareva avere un’espressione amareggiata, come sul punto di scoppiare in lacrime.
Stringeva un dito fra i denti come quando, anni addietro, restava assorta nei propri pensieri, lo sguardo fisso su un oggetto o un individuo, intenso come quello di un felino sul punto di catturare la propria preda.
Satana avrebbe paura di te, pensò Edwin tirandosi in piedi, stringendo le mani dei pargoli e incamminandosi verso la scuola ancora prima di asciugarsi le lacrime in volto.
Un’espressione indecifrabile doveva campeggiare sul suo viso; la gente lo fissava con sguardo assente per la strada, che mai gli era parsa tanto lunga come quella mattina.
Le sue mani stringevano i polsi dei bambini così forte da percepire il battito dei loro cuori.
Raggiunsero la scuola con quasi mezz’ora di ritardo; Edwin sapeva che gli insegnanti avrebbero avvertito i genitori dieci minuti dopo l’orario di entrata.
«Posso fare io le veci dei bambini» reclamò, «sono maggiorenne e non sono un estraneo» badò a precisare, sentendo il proprio tono di voce assumere via via una nota più alta.
Quella sera, Edwin cercò rifugio nella casa sull’albero.
Non aveva menzionato l’episodio in famiglia e la giornata alla fattoria era trascorsa nello stesso modo mediocre in cui passavano tutte le giornate, da quando i suoi amici di scuola parevano essersi dileguati dalla città alla disperata ricerca di un futuro migliore.
Se fosse rimasto lì, avrebbe probabilmente passato la propria esistenza a mungere le mucche di un paesino sperduto tra i boschi e la costa; se se ne fosse andato, avrebbe dovuto cavarsela da solo e, soprattutto, avrebbe dovuto abbandonare a se stessa la sorella a cui tanto era affezionato.
Perfino quella casetta sull’albero si era fatta stretta per lui; il futuro lo chiamava a gran voce, ma Edwin aveva paura della risposta che avrebbe ricevuto.
L’orario di cena arrivò in fretta, accompagnato da una brezza troppo rigida per la stagione.
Il ragazzo prese posto al tavolo accanto alla madre, porgendo i piatti di zuppa ai fratelli e servendosi a sua volta.
«Oggi mi hanno telefonato dalla scuola» asserì la donna, come improvvisamente memore dell’accaduto.
«Si può sapere perché siete arrivati in ritardo?» avanzò, apparentemente calma, volgendo il capo verso il figlio più grande.
Edwin si ostinava a masticare quel liquido aranciato, tentando di tollerarne più facilmente il sapore: detestava la minestra di zucca e, nonostante la madre lo sapesse bene, continuava a cucinare quella zuppa ripugnante perché “piace a tutti, tranne che a te”.
«Ed ha voluto fermarsi per strada» sbraitò Lars, «era già stanco dopo appena due passi».
Un ghigno orgoglioso campeggiava sulle sue labbra; negli occhi pareva divampare il fuoco.
Piccolo bastardo, pensò Edwin, ma si curò bene dal pronunciarlo ad alta voce, immaginandone le conseguenze.
Sentiva lo sguardo della madre premergli sul volto come un macigno.
«Ah, davvero?» strepitò la donna, spostandosi i capelli scarlatti dal viso.
Per la prima volta da quando si erano accomodati a tavola, Edwin spostò lo sguardo sull’uomo seduto all’altro capo della tavola.
Si rese conto di essere osservato, forse addirittura dall’inizio della conversazione.
Lo fissava con lo stesso sguardo indagatore e diffidente con cui si esamina una nuova conoscenza; vivevano sotto lo stesso tetto da anni ormai, ma né uno né l’altro pareva ancora essersi abituato alla reciproca presenza.
Quando nacquero i gemelli smisero definitivamente di intrattenere rapporti; si trattava semplicemente di due estranei che alloggiavano nella stessa abitazione.
E se ciò Edwin poteva sopportarlo con un individuo che non gli apparteneva, non riusciva a comprenderlo nella madre, che pareva prediligere il fratello minore in ogni sua azione, sostenendo che questi fosse il suo “bastone della vecchiaia”, grazie alle capacità intellettive che aveva dimostrato di possedere fin dalla più tenera età.
Edwin non poteva affermare il contrario: Lars era un bambino brillante e intelligente, totalmente privo di difficoltà nell’imparare qualsiasi lezione gli venisse impartita.
Tuttavia, il pargolo aveva dimostrato, nel corso della sua breve vita, di essere anche un individuo arrogante, prepotente e dotato di una buona quantità di pura malvagità, che puntualmente tendeva a riversare sul fratellastro, attraverso scherzi e inganni.
Lars pareva la conferma vivente della celebre frase di Théophile Gautier, per cui “di veramente bello c’è soltanto quel che non può servire a niente; tutto ciò che è utile è anche orribile
2”.
«Allora?» lo incitò la madre, rigida perfino quand’era accomodata su una sedia, distogliendo il ragazzo dai propri pensieri.
«Allora c’è che me ne vado!» gridò Edwin all’improvviso, gettando il cucchiaio nel piatto vuoto e precipitandosi al piano superiore, per poi rifugiarsi in camera sua.
Aveva percepito la sorella sussultare a quel gesto, ma decise di non curarsene.
Si accoccolò sul letto, riportando alla memoria quei tempi in cui la madre lo teneva sulle ginocchia, le sere d’estate prive di nubi, che il vento tipico della sua zona spazzava via durante il giorno; passavano minuti interi ad osservare la sfera lattea risplendere come il più elegante degli astri, fino a quando il bambino non si addormentava tra le braccia materne, pronto ad essere accolto dalle fresche lenzuola del proprio letto.
Per qualche strana ragione, dopo il secondo matrimonio e la nascita dei gemelli, ogni parvenza di affetto pareva essersi accumulata nella parte di cuore di madre in cui soggiornavano i fratelli minori.
Edwin si addormentò con questi pensieri, sprofondando in un sonno irrequieto, da cui venne d’improvviso risvegliato quando un cigolio raggiunse il suo udito.

 

 

 

 

There is a reason I'm still standing
I never knew if I'd be landing
And I will run fast, outlast
Everyone that said no...

 

 

 

 

Un bioccolo peloso si insinuò sotto le coperte, sprofondando il muso nel cuscino candido.
Le tenebre impedirono al ragazzo di capire di quale animale si trattasse, fino a quando la sagoma di una piccola figura non comparve accanto al giaciglio, imitando il cucciolo.
La morbidezza della chioma gli suggerì si potesse trattare soltanto di una persona.
«Hai portato Poldo?» bisbigliò Edwin con voce ancora impastata dal sonno.
Se si trattava di Edith, il gatto non poteva che essere quel batuffolo nero dai lunghi baffi, che lei stessa aveva salvato qualche anno prima da morte certa.
«È lui che mi ha seguito» si giustificò la bambina.
Passarono qualche minuto in silenzio, interrotto soltanto dalle fusa del felino: Edith si accoccolò accanto al fratello, stringendolo con tutta la forza che possedeva.
«Mi dispiace molto per prima» iniziò solenne, «Lars è cattivo come Il Colonnello di Spirit».
Edwin sorrise al buffo paragone, ricordando quanto la bambina fosse ossessionata dal film Disney, sicuramente il suo favorito.
Tuttavia, dubitava che Lars avesse mai potuto avere un moto di compassione e gentilezza come l’antagonista del lungometraggio.
3
«Portami con te…» la sentì mormorare all’improvviso, distraendolo dalle proprie riflessioni.
Percepì la pressione del suo capo sulla spalla; non poteva vederla, ma Edwin avrebbe giurato che la bambina avesse infilato l’indice in bocca.
Sospirò pesantemente, stringendola a sé.
Non aveva il denaro necessario per andarsene, non aveva un’occupazione e, in fondo, non aveva nemmeno una famiglia.
Desiderava con tutto il proprio cuore portarla via da quel luogo, dal fratello tanto osannato, dalla vita che sarebbe stata costretta a trascorrere nella fattoria.
Inspirò l’odore dei capelli puliti, quella chioma di bambina così simile alla sua.
Aveva il brutto presentimento che, quando i genitori sarebbero venuti meno e lui non fosse stato lì, Lars l’avrebbe spogliata di tutti i suoi averi, bramoso di viltà, nutrendo quel suo animo avido di cupidigia ancor più di quanto già non facessero i genitori.
Lars sarebbe presto divenuto un ragazzo dispotico, un uomo senza scrupoli; lentamente, sarebbe diventato un tiranno privo di umiltà.
Avrebbe studiato nelle migliori università e comandato decine di individui: tutto di lui lasciava desumere una carriera tanto promettente quanto bruta.
D’istinto, Edwin scosse la sorella, forse già crollata tra le braccia di Morfeo.
«Ti prometto che ti porterò via, Edith» disse concitato, «non ti abbandono! Ti porterò con me e staremo sempre insieme» sussurrò nel buio, prima di sciogliersi in lacrime, aggrappato al corpicino esile coricato accanto.
«Non ti abbandono» ripeté, lasciando fuoriuscire i singhiozzi celati troppo a lungo.
Forse, dopo quasi vent’anni trascorsi al mondo, non era ancora pronto ad affrontare le sfide che l’esistenza poneva dinanzi a chiunque; forse, necessitava di sostare sulle ginocchia della madre ancora per un po’, addormentandosi nel calore delle sue braccia, come quando era bambino.

 

 

 

 

I knock the ice from my bones
Try not to feel the cold
Caught in the thought of that time
When everything was fine, everything was mine

 

 

 

 

«Ed se ne andò qualche settimana dopo quella notte. Un giorno, semplicemente decise di prendere il denaro rimastogli, la vecchia valigia e qualche vestito.
Partì senza nulla, ma vostro padre è sempre stato un uomo brillante e non avevo dubbi che se la sarebbe cavata».
Edith aveva un’espressione indecifrabile mentre raccontava ai nipoti il giorno della partenza di suo fratello.
Doveva essere stato doloroso per lei affrontare la giovinezza in solitudine; tuttavia, decise di condividerla, dando inconsapevolmente loro modo di comprendere molti atteggiamenti del padre.
Per esempio, il motivo per cui, un pomeriggio, l’uomo comparì con una casa di legno da costruire su di un albero, in occasione del compleanno del primogenito.
Quando l’aveva mostrata a Edith, in occasione di una visita, gli occhi della donna si erano illuminati di gioia, rammentando i momenti più intimi passati insieme al fratello in quel luogo.
Amava la sua piccola casa di legno: era il suo rifugio, specialmente da suo fratello Lars che, da quando Edwin se n’era andato, non aveva nessuno da tormentare.
«Non c’è divertimento con te, sghignazzava, ma mi bastava salire sul tronco e levare la scala per essere un po’ in pace» continuò la zia con amarezza, «fino a quando non la distrusse. Un giorno tornai a casa da una corsa con Maria Callas e improvvisamente non la trovai più. Tutto ciò che rimaneva erano delle assi di legno gettate ai piedi dell’albero».
Edith vide i bambini osservarla con interesse, fremendo per conoscere il seguito della storia.
«E che cosa è successo dopo?» domandò David, l’unico tra i pargoli ad essere forse abbastanza grande da comprendere la gravità della situazione.
La donna sorrise, pensando a quanto fosse stata fortunata, in fondo.
Edwin non mantenne mai la parola data quella notte, forse addirittura se ne dimenticò; la vita nella capitale doveva essere molto più frenetica che nella tranquilla locanda in cui Edith aveva trasformato quella che un tempo era stata la sua casa.
Subito, però, si pentì di avere avuto un simile pensiero: Edwin non poteva aver ignorato la sua promessa. Doveva solo essere stato impossibilitato a mantenerla, soprattutto dopo aver conosciuto sua moglie Elena.
«Andai a trovarlo» rispose Edith, «decisi di fargli una sorpresa, contro la volontà di tutti. Partii e lo trovai lì, nell’orto botanico di cui tanto mi parlava, in mezzo a tutti i tulipani del mondo. Era un vero fiore tra i fiori» scoppiò a ridere la donna.
Edwin non aveva più fatto ritorno a casa dal giorno della sua partenza.
Si rividero appena lei fu abbastanza grande da poter prendere un treno in solitudine; Edith sapeva che il fratello faticava a mantenersi, e di certo il denaro per un viaggio scarseggiava.
In compenso, le aveva scritto molte lettere, raccontandole della propria vita, le conoscenze che aveva fatto e le attrazioni meravigliose che Amsterdam proponeva ai nuovi venuti.
Tuttavia, Edith non immaginava che la realtà sarebbe stata altrettanto incantevole: tutto pareva più grandioso, smisurato rispetto al piccolo mondo in cui era cresciuta.
«Pianse come un bambino appena mi vide. Pensavo che neanche mi riconoscesse, invece fu come se non ci fossimo mai separati» continuò la donna, sfregandosi il collo.
Il nitrire dei cavalli nella stalla adiacente alla locanda la risvegliò dai ricordi: ormai si era fatta sera, era tempo di preparare la cena e portare i nipoti a letto.
Il giorno dopo, Edwin ed Elena li avrebbero raggiunti e sarebbero finalmente stati di nuovo insieme, almeno per tutta la durata dell’estate.
«Ma zia» la interruppe il piccolo Rickard, «hai mai fatto caso ai vostri nomi?» sorrise.
La donna non comprese subito.
«Edith, Edwin, Elena» ridacchiò il bambino, «vi chiamate tutti allo stesso modo! È un segno del destino!»
Edith sorrise, osservando i nipoti divertirsi con le proprie figlie, godendosi con gioia quei rari momenti che potevano passare insieme alle cugine.
Si tastò il collo, cercando istintivamente il ciondolo che Edwin le aveva regalato in occasione della sua prima visita, avvenuta ormai una decina di anni addietro.
«Questo pargoletto è tale e quale a suo padre» sorrise, per poi riporre quella lettera magica al proprio posto e lasciare i bambini vivaci nel salotto.
Edith omise i particolari della partenza dell’amato fratello: il mancato saluto di Lars, l’indifferenza del padre, il timore di non poterlo rivedere più.
Non disse mai al ragazzo ciò che udì fuoriuscire dalle labbra della madre, osservandolo scomparire dietro le porte del vagone.
Guarderò la luna senza mio figlio sulle ginocchia, quest’autunno
4, aveva sussurrato la donna al vento, certa che nessuno l’avesse udita.

 

 

 

 

All the king's horses and all the king's men
Couldn't put me back together again
All the king's horses and all the king's men
Couldn't put me back together again.

(All the King’s Horses – Karmina)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Corrispondente neerlandese del detto: “Chi prima arriva, meglio alloggia”.

2 La citazione completa è: “Di veramente bello c'è soltanto quel che non può servire a niente; tutto ciò che è utile è brutto, perché è espressione di qualche bisogno, e i bisogni dell'uomo sono ignobili e disgustosi come la sua povera e inferma natura.”

3 Il Colonnello è il principale antagonista del film “Spirit – Cavallo Selvaggio”: deciso ad addomesticare Spirit a tutti i costi, comprende, però, che il cavallo è testardo abbastanza da lasciarsi morire, piuttosto che piegarsi al suo volere.
Dunque, come forma di rispetto, libera infine sia lui sia Piccolo Fiume (l’indiano amico del cavallo).

4 Si tratta di un haiku composto da Uejima Onitsura, poeta giapponese vissuto durante il periodo Edo (1603 – 1868).


   
 
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Sabriel Schermann