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Autore: Black Swallowtail    20/03/2020    2 recensioni
“Jhin,” aveva chiesto, “ho una domanda.”
Jhin ne era rimasto deliziato.
“Quando una falena esce dalla sua crisalide, ricorda ancora la sua vita da bruco?”
Jhin si era fermato. La musica era cessata ed aveva riflettuto. Aveva ripreso a suonare con una mezza risata. L’aveva guardata danzare e i suoi occhi sembravano non riuscire a staccarsi da lei.
“Non posso risponderti, mia Orianna. Io sono ancora un bruco. Ma spero che tu, un giorno, possa trovarmi e darmi la risposta.”
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Caitlyn, Vi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UNO: vita meccanica.

Clack, clack.

Rumore di un tamburo che gira su se stesso. Non aveva mai impugnato una pistola, ma sapeva esattamente quale fosse il suo rumore caratteristico; tuttavia quello scattare ritmico tintinnava nelle sue orecchie quasi seguendo un ritmo invisibile.

Né a Zaun né a Piltover si utilizzavano più revolver. Con l’avvento del chemtech e dell’hextech, le armi erano state le prime a modernizzarsi, a svecchiarsi: niente più tamburi a ricarica lenta e fastidiosa. Faceva fatica a ricordare, nella sua memoria sbiadita, qualcuno che avesse maneggiato un’arma a ricarica tradizionale.

Non voleva aprire gli occhi. A volte, questi istinti emotivi ed irrazionali salivano e scendevano in lei, una sorta di marea sconosciuta e non spiacevole; era sicura che fossero un’eredità del suo passato ovattato, di una vita che ricordava a malapena. Non le dispiaceva sentirli ancora, seppure le provocassero una vaga sensazione di disagio inspiegabile.

In quel momento, tenere gli occhi serrati, le palpebre perfettamente chiuse gli sembrava una scelta irrazionale, ma che in qualche modo le appariva preferibile allo scoprire cosa le fosse accaduto. Richiamare alla memoria le ultime azioni richiedette uno sforzo minore di quanto avesse immaginato. In realtà, immersa nell’oscurità che la cullava, le sembrava di riuscire a vedere meglio l’accaduto di qualche ora, giorno, settimana prima.

Le strade di Piltover erano affollate, come sempre, e le aveva seguite senza una meta precisa. Lo faceva da tempo, ormai, come una pellegrina alla ricerca di un segnale divino; la differenza è che non c’era alcuna divinità a cui appellarsi e lei se ne andava tra la folla senza uno scopo apparente. O meglio, si corresse automaticamente, alla ricerca di uno scopo. Credeva che Piltover avrebbe spalancato le braccia ad un individuo come lei; aveva creduto che lì, in quel paradiso della tecnologia, lontano dagli artigli dei baroni del chemtech, dagli esperimenti e dalle miniere zaunite, qualcuno le avrebbe indicato la via.

Clack.

Un terzo scatto, un proiettile che scivolava nella sua alcova, vi si adagiava insieme agli altri. Altri tre scatti e l’arma sarebbe stata carica, pronta all’uso. Qualunque fosse l’uso che il suo tiratore ne avrebbe fatto.

Aveva camminato per le strade di Piltover molto a lungo. Aveva chiesto ad un giovane brillante la strada per la piazza principale, si era persa, molti la guardavano di sfuggita, sentiva che più di uno sguardo le era scivolato addosso. Osservavano il suo corpo, il suo incedere rigido, il suo sguardo vacuo, la grossa sfera d’acciaio che le roteava attorno in cerchi concentrici.

Clack.

Il rumore del tamburo che si chiudeva la prese alla sprovvista. Quattro colpi in canna e non sei. Da quando era arrivata in quel luogo, da quando era stata adagiata su una confortevole poltrona in pelle, aveva sentito un mugugnare, una mano che sfiorava le sue spalle, la sua schiena, la sfera; aveva sentito, in lontananza, qualcuno che recitava ad alta voce, quasi decantasse una poesia.

Dopo una quantità di tempo indefinibile, aveva iniziato a caricare; e solo in quell’istante aveva sentito l’impulso di iniziare a capire cosa stava accadendo. Una parte di lei era sicura di aver perso coscienza, ma non poteva averne prova. Sapeva solo che, dalla piazza principale, dove una poliziotta le aveva indicato la via per i laboratori di sviluppo cittadino, qualcuno le si era avvicinato; e quel qualcuno l’aveva condotta con sé, tenendola per mano.

Le aveva chiesto di tenere gli occhi chiusi con un tono di voce serpeggiante, impostato, quello di un attore o un artista; e lei aveva ciecamente obbedito. Se solo avesse potuto, avrebbe perso dei battiti, nel ricordare come aveva attraversato le stradine, i viottoli, i vicoli ad occhi sbarrati. Qualche ricordo tentava di farsi strada, ma non riusciva a sbocciare, non riusciva a trascinarsi al di fuori della sua palude. Sapeva solo che quel viaggio ad occhi chiusi le aveva ricordato una casa lontana, a Zaun.

Sentì qualcosa strusciare contro il legno, come una sedia che venga spinta all’indietro. I passi felpati dell’uomo scesero uno ad uno dei gradini, ogni volta uno scricchiolio diverso, ogni volta una nota musicale differente che proseguiva la melodia della pistola. Sentiva l’arma roteare nella sua mano, lo sentiva scivolare verso di lei.

Era di fronte a lei, il suo respiro controllato si era paralizzato, come se lo stesse trattenendo, come se non volesse buttare fuori aria, farsi esplodere i polmoni.

“Sei una bambola meravigliosa.”

Il suo tono estasiato le avrebbe provocato un brivido, se avesse avuto una pelle da far accapponare. Era un tono di sincero, assoluto stupore, di totale ammirazione — un tono che aveva sentito solo di fronte alle opere d’arte del museo civico.

“Ti prego,” le chiese quasi supplice, “apri gli occhi. Lascia che ti guardi.”

Lo stesso tono stritolante, pronunciato a mezza voce, quasi fosse al cospetto di una scultura nel mezzo di una chiesa. Ricordava il tono di voce di chi pregava di fronte all’altare e di chi osservava le statue nelle cappelle o nella sagrestia. Per qualche motivo, quell’invito dall’eco adorante la spinse a sollevare le palpebre.

Fu un processo lento. Qualcosa in lei provava un terrore tremendo ed inafferrabile, come se volesse trattenerla, come se accettare quella richiesta, osservare il suo interlocutore, potesse renderlo effettivamente reale. Finché non apri gli occhi, risuonò un’eco lontano, potrebbe essere tutta una finzione.

Non lo era. Lo sapeva bene. Per questo, spinse le palpebre all’insù, lasciò che scorressero fino a far sbocciare i suoi occhi, la loro luce bluastra ed evanescente.

Inginocchiato di fronte a lei, con le braccia spalancate come in estasi, il sottile uomo mascherato la osservava con una sorta di fervore; lo vedeva rilucere nei fori, negli occhi del suo volto, coperto da quel posticcio viso umano di ceramica. Doveva venire dalla lontana Ionia, a giudicare dai suoi abiti, dagli ornamenti della maschera teatrale che indossava.

Il primo pensiero che rigurgitò la sua mente confusa, la prima domanda, fu cosa ci fosse sotto la maschera; se fosse sfregiato, se avesse qualcosa da nascondere. Oppure, semplicemente, se volesse essere un nessuno, una figura in mezzo alla folla. Un uomo senza lineamenti per accogliere in se ogni lineamento.

Il secondo pensiero venne dal su braccio destro, un braccio meccanico dorato, di fattura elegante ma di mano grossolana. Suo padre era stato un luminare delle protesi hextech, lo ricordava ancora, e ricordava ancora tutto il tempo che aveva dedicato al suo lavoro. Quel braccio, per quanto elegante e raffinato, era grezzo. Non era un’opera di Zaun, tantomeno di Piltover.

Il terzo pensiero le piombò sulle spalle di colpo. Fu una realizzazione improvvisa e la lasciò, di colpo, anche se solo per un momento, spaesata. Non sapeva dove fosse, non sapeva chi fosse quell’uomo e cosa volesse da lei. Sopratutto, si rese conto di non essere legata, costretta o bloccata.

Era semplicemente seduta in una logora poltrona. Non ci volle un momento per mettere a fuoco, non con i suoi occhi; e non ci volle un istante a capire dove si trovasse, perché un’occhiata le fu sufficiente.

Era già stata a teatro con suo padre. Aveva visto opere teatrali, declamazioni di poesie, bande musicali e perfino una o due rappresentazioni. Di solito, tuttavia, il teatro era riservato alla presentazione di macchine o elaborati scientifici.

In quel teatro abbandonato, polveroso e buio, con solo qualche raggio di luce che scivolava attraverso qualche finestra sbarrata con disattenzione, si trovò sospesa in una situazione surreale.

“Sei stupenda. Sei perfetta. Sei arte,” declamò l’uomo alzandosi, piegandosi in un inchino da artista, “L’ho saputo, dal primo istante in cui ti ho vista tra la folla. Sei diversa, sei unica. Pelle liscia d’acciaio, occhi che brillano di una scintilla di magia. Sei l”essere umano sublimato, sei la Venere di Pigmalione.”

La pistola nella sua mano scivolò nella fondina, l’uomo applaudì, si portò una mano al viso e si carezzò i tratti gelidi della maschera asettica, quel sorriso inciso in rilievo sulla ceramica. Un sorriso attoriale senza alcuna vera felicità, un sorriso da tradurre e declinare con la voce ovattata e soffocata che veniva dalla maschera.

“Dove ci troviamo?”

Una domanda che le fu difficile scandire. Le era sempre più difficile articolare frasi di senso compiuto senza imprimere un timbro meccanico. Il suono metallico della sua stessa voce, a volte, le suonava intollerabile. In quei momenti, le sembrava di andare momentaneamente in pezzi. Ma in quell’istante, in quel momento, mentre l’uomo la osservava e inclinava la testa come per avvicinarsi alla sua voce, si sentì solo confusa.

Sembrava apprezzare la sua voce. Sembrava trovarla, in qualche modo, musicale. Batteva il piede a ritmo delle sue parole.

“Siamo in un teatro. Siamo a casa. Un artista si trova a casa solo su un palcoscenico; ed io, che lavoro su una grande scala, che ho fatto della mia esistenza arte, vivo sul palcoscenico del mondo.” La guardò intensamente, come se si aspettasse una qualche reazione. Lei rimase impassibile. Le era impossibile cambiare espressione, come le era impossibile respirare o muovere le labbra. Il suo corpo meccanico non glielo permetteva.

“Un teatro?”

“Un teatro abbandonato, sì, a Piltover. Un tempio della sacralità dell’arte sacrificato sull’altare della scienza. A Piltover, in questo luogo di progresso scientifico, hanno dimenticato che l’arte è nutrimento dell’animo umano. Ma tu…” alzò di colpo la voce, si avvicinò di nuovo, si inginocchiò di fronte a lei, le sue mani, carne e ferro, che sfioravano le sue di acciaio, “…tu sei diversa. Sei la crasi di questa città. Sei acciaio, sei ingranaggi, sei magia, ma in te c’è qualcosa. L’ho visto, ti ho visto guardati attorno, cercare un segno. Cercare una scintilla. In te c’è umanità, un’umanità pura e perfetta che lotta con le unghie e con i denti. Sei un fiore, per me… un fiore d’acciaio.”

Come volesse dimostrare le sue parole, la sua mano rivelò un piccolo bocciolo chiuso che, lentamente, scattò fino a sbocciare, finché non rivelò una corolla di petali taglienti ed un sensore rossastro; il suo palpitare continuo non le apparve confortante, ma il suo istinto fu quello di toccare, di sfiorare quell’oggetto che la attirava tanto morboso.

Ma lui lo sottrasse alla sua presa con maestria, scosse la testa, e lo lanciò a terra, tra i sedili, dove scattò e tornò a chiudersi.

“C’è bellezza in te. Bellezza assoluta, che va tirata fuori. Devi vederla, devo vederla, il mondo deve vederla. Oggi, Khada Jhin si esibirà per te, Signora degli Ingranaggi.”

Si inchinò ancora e, con un movimento collaudato, si voltò, il corto mantello cremisi volteggiò in aria, seguì il suo incedere fino al grande, maestoso palco che lo attendeva. Un enorme pianoforte a coda attendeva solo che qualcuno lo suonasse, i petali di fiori sparsi a terra che qualcuno li calpestasse e vi danzasse. Ma l’artista di nome Jhin salì i gradini con lentezza studiata, giunse a centro del palco, tornò a voltarsi verso di lei. Non c’era un occhio di bue o qualche altra luce che lo facesse risaltare.

“Signora degli Ingranaggi,” la sua voce di colpo più forte, la voce di un attore sul palco, “Qual è il tuo nome? Come devo rivolgermi a te, creata dall’uomo ma che nascondi più umanità dei tuoi creatori?”

Era una domanda difficile.

Come si chiamava? Non ci aveva mai riflettuto. Non dopo quel che era accaduto a suo padre, non dopo gli incidenti, non dopo la fuga da Zaun, l’arrivo a Piltover. Aveva ancora un nome?

Era difficile ricordare.

Ma questo lo conservava ancora. Conservava ancora lo sguardo in lacrime di suo padre che la chiamava, la abbracciava, quando si era alzata dal tavolo.

“Orianna.”

“Orianna, il nome dell’oro, il nome della figlia che sposò Amadigi l’errante. Orianna, la bambola, senza un difetto. Il fiore d’acciaio dai petali di ingranaggi. Oggi, insieme, reciteremo su questo palcoscenico — e Piltover vedrà cos’è la vera arte.”

Le tese la mano, drammatico, immobile come una statua sbilenca e sproporzionata. Sembrava volesse tendersi, sembrava volesse raggiungerla, colmare la distanza abissale tra loro.

Orianna era rimasta immobile, per tutto il tempo. Aveva lasciato che lui la guardasse, che le toccasse le mani, che sussurrasse parole di cui non comprendeva il significato e nomi a lei sconosciuti. Non comprendeva cosa volesse dirle, cosa vedesse in lei. Sentiva solo che la chiamava, le chiedeva di seguirlo, di salire sul palcoscenico.

Ricordava di aver camminato sui palcoscenici. Ricordava un corpo che si muoveva, di fronte agli sguardi stupiti ed ammirati degli altri. Era un richiamo che risuonava in lei, in una zona d’ombra sconosciuta del suo petto, dove gli ingranaggi scattavano e si contorcevano attorno alla magia hextech. Lì dove c’era un tempo un cuore di carne che aveva battuto disperato.

Aveva ballato, sì, a lungo e con perfezione. Era famosa per le sue esibizioni. Lo ricordava, così come ricordava tante storie che un tempo erano state i suoi ricordi; ed ora, invece, suonavano come racconti di un’estranea. Ma suo padre adorava guardarla ballare. Avrebbe ribaltato il mondo per poterle permettere di farlo; perfino quando si erano trasferiti a Zaun, aveva fatto in modo che lei potesse continuare.

Finché, inevitabilmente, non aveva perso la passione. Finché ogni parte di lei non era diventata acciaio, metallo, magia ed hextech.

Eppure, come un magnete, Jhin la chiamava ancora e con lui tutto il palco. Nessuno spettatore, in quel luogo dimenticato da tutti, cancellato dalla coscienza di Piltover. Avrebbe ballato solo per quello strano sconosciuto che l’aveva condotta fin lì.

Un passo dopo l’altro, meccanicamente, attraversò le file di poltrone, a destra e sinistra, dietro e davanti, ognuna occupata solo da polvere ed ombre fievoli. La sfera la seguiva adagia, la sospingeva in avanti, la sfiorò con le dita e ne sentì il battito di energia, un etero compagno. Gli occhi di Jhin erano come quelli di una platea, adoranti, smaniosi. Poteva sentirlo battere il tempo, le mani, uno spettrale applauso. La invitava ad unirsi a lui, la invitava a calcare la scena che aveva abbandonato.

Forse, si disse, forse era quello il modo di trovare in lei dell’umanità. Ma sarebbe stato un vano tentativo.

“Non so ballare.”

Si era fermata a metà strada. Guardava il pistolero, il cui battito di mani andava affievolendosi.

“Non so più ballare,” si corresse. Un tempo, forse, ne era stata in grado. Un tempo, forse, l’avevano amata ed acclamata. Ma anche quella era una bugia, l’avvertiva come una menzogna pesante e divorante: il mondo, il pubblico, il teatro aveva amato Orianna Reveck.

Orianna Reveck era sparita da tempo. Al suo posto, c’era semplicemente Orianna. Orianna, la Signora degli Ingranaggi. Una bambola, un pupazzo robotico, un costrutto hextech. Non c’era nulla di umano in lei.

“Mio padre…” era difficile usare quel termine. Avrebbe voluto dire “Il mio creatore,” perché si trattava di quello, alla fin fine; Orianna Reveck aveva avuto un padre. Lei, invece, poteva annoverare solo un creatore. “…ho visto le sue emozioni. Non posso comprenderle appieno. Ma so che non era la stessa cosa. Ho sentito delle persone. Hanno detto che Orianna Reveck aveva perso la sua passione. La sua creatività.”

“La sua umanità?”

Silenzio.

“Affermazione.”

Jhin lasciò cadere le braccia inerti lungo i fianchi. Barcollò, un passo dopo l’altro, senza distogliere lo sguardo, senza staccarlo dai suoi occhi ardenti di energia bluastra, finché non le fu ancora davanti, finché non furono faccia a faccia.

C’era rabbia, sotto la sua maschera, una rabbia divorante. La vedeva contorcersi. Non la comprendeva, avrebbe voluto capire cosa stesse succedendo sotto la maschera, nel suo petto, nella sua mente non regolata da ingranaggi e impulsi magici.

Le sue mani le strinsero le spalle, la scossero leggermente, “Cosa vuoi che ne capiscano, loro? Non sono riusciti a scorgere nulla. Non sono riusciti a vedere. Io osservo il mondo da sempre. Lo tingo, lo canto, lo scrivo; e loro, quegli animali, loro non hanno potuto notare, nella loro bassezza, il tuo fiore. Orianna, tu stai per sbocciare… su quel palcoscenico!”

Ogni parola un passo, un incoraggiamento. Era ancora confusa, ancora non capiva; ma sentiva che c’era una sorta di distorta, morbosa determinazione, di desiderio indecifrabile. Finché il suo fiore d’acciaio non sarebbe sbocciato, finché non avrebbe mostrato al mondo la luce, lo scintillio che aveva visto, Khada Jhin non si sarebbe placato.

“Ti ho trovato come oro nel fango. Devi solo essere pulita. Devi solo ritrovare qualcosa in te. Devi solo raggiungere il tuo atto finale.”

Jhin la precedeva sul palco, l’ennesimo fiore d’acciaio in mano che volò sopra la sua testa, si conficcò nel pavimento e iniziò a lampeggiare. Si rivolgeva ad un pubblico invisibile che lo incitava, che chiamava il suo nome; Orianna aveva il suo pubblico di fronte a lei, quell’unico uomo che bruciava fino ad incenerirsi.

Jhin si posizionò sul palco, un respiro profondo, e con le braccia spalancate, iniziò a recitare. Iniziò a declamare una storia, una guerra che scoppiava nelle praterie di Ionia. Due eserciti si muovevano, guidati da forze opposte; e tre streghe aspettavano, osservavano i soldati imbracciare le armi.

Jhin inspirò a fondo, la voce melodiosa di un attore che sta sul filo, un funambolo che pende tra canto e musica, un artista che assorbiva ogni arte in un’unica, grandiosa performance.

“Noi gittiamo il mal seme nel core; Ma dell’opra l’uom sempre è il signore!” Si voltò verso di lei, in estasi, un’emozione che Orianna non poteva capire. Non poteva capire Khada Jhin. Non poteva capire cosa stesse declamando, a chi lo stesse declamando, perché voleva rendere il mondo la sua opera d’arte personale.

Non poteva capirlo, Jhin lo sapeva, perché era una bambina sotterrata da un mare di acciaio e magia. Ma quella notte, nell’atto finale, il mondo avrebbe portato gli occhi su di loro.

Avrebbe recitato, avrebbe cantato, avrebbe urlato.

Ed infine, lei sarebbe ascesa all’Olimpo che la meritava, l’altare dell’arte sul quale avrebbe trovato il posto che anelava.

Jhin ne era sicuro.

“L’uomo è di proba, gentil natura, né questo merta, io penso, prova sì dura!”

L’uomo si muoveva folle, qualcuno al di fuori del teatro, per le strade di Piltover, tra i suoi palazzi, lo cercava, lo braccava, lo cacciava. Volevano la sua testa. Volevano fermare l’esibizione e avrebbero buttato giù quella porta, avrebbero trascinato tutto il mondo con loro, avrebbero riportato la vita nel teatro.

“Tutti i demoni lieti non sono, se cade il giusto, inciampa il buono?”

E mentre ancora l’eco rimbalzava tra le pareti, Jhin si sedette al pianoforte a coda che aspettava. Guardò Orianna, guardò la perfezione che in lei pregava di essere liberata, osservò punto per punto il suo torace, lì dove aveva praticato la sua magia. Da lì, da dentro di lei, qualcosa sarebbe eruttato, qualcosa che le avrebbe fatto capire di non essere stata nel torto, di non essere lei l’errore, ma il mondo a non comprenderne la bellezza serafica.

Jhin si sentì quasi sull’orlo delle lacrime.

“Balla per me, Orianna. Balla per Piltover.”

Ed iniziò a suonare.

   
 
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